30 giugno 2014

Anime morte (1)



"Una delle storie più divertenti che siano mai state raccontate": era l'aprile di sette anni fa. Solo sette anni fa. Così dice la data sul taccuino di Apollonio, sotto la rubrica "Quarte di copertina". Quarta di copertina di quale libro, non ricorda: da escludere si trattasse d'un classico. Per esempio, "Le anime morte".
E non fu per malizia, allora, che Apollonio annotò la sbardellata affermazione, privandola del suo riferimento. Non fu per verificarne la fondatezza a distanza di qualche anno. Era sicuramente convinto che l'opera, nuova e memorabile, non gli sarebbe mai più uscita di mente: superfluo fissarne titolo e autore. Appunto: superfluo.

28 giugno 2014

Indirizzi di metodo, per giovani che non ne necessitano (13)



Ragionare per tratti. Cercare pertinenze. Guelfi in branco e ghibellini in branco, per es., condividono il tratto d'essere in branco. Prima ancora che i ghibellini gli uni, gli altri i guelfi, capita quindi che, in comune, mal sopportino chi non è in branco.

26 giugno 2014

"Ma", di nuovo

"Ma quanto è bella la nostra nuova sede!". Ecco un'espressione aperta da un ma di cui, se Apollonio non si sbaglia, non c'è ancora una descrizione nelle grammatiche e che è forse meritevole d'attenzione in una prospettiva testuale (e, per tale via, da minuscolo indizio dello spirito del tempo). 
Ma, del resto, è una di quelle parole la cui forma è tanto breve quanto ne sono ampi e vari valore e uso e in questo diario, di qualcosa, in proposito, si è già fatta questione. Con l'esempio in esordio, si è in un àmbito molto diverso.
Ma vi apre l'espressione e, con la sua rottura avversativa (vera o finta che sia), richiama l'attenzione, come fa sotto ogni sua funzione. Se congiunge, congiunge con un implicito discorsivo, tanto implicito che può proprio non esserci ed essere appunto fittiziamente creato da ma, a uso dell'immaginazione dell'interlocutore o dell'intelocutrice cui si sta così dicendo, dandone per scontato il rapporto di solidarietà, che l'espressione s'inscrive in un discorso che continua con quanto segue ma
Anche l'e in apertura fa talvolta lo stesso mestiere (e capiterà magari di parlarne una volta o l'altra). Nel contesto qui pertinente, ma lo fa tuttavia in maniera diversa. In maniera che si direbbe è più emotiva e conativa che referenziale e coinvolge, di regola, chi la proferisce in un'attitudine psicologicamente valutativa di ciò che è suo o, in qualche modo, gli pertiene.
"Ma quanto sei caruccia, figlia bella", "Ma quanto ti amo, tesoro mio", "Ma quanto mi dispiace...", "Ma come sono felice...", "Ma che bello il regalo che mi hai fatto...": c'è di regola un 'io', un 'tu' (eventualmente plurale), un 'noi' nella portata enunciativa di quel ma. Esso enfatizza l'enunciazione come fatto: si pensi all'evidente differenza, in proposito, tra un banalmente referenziale "La nostra nuova sede è molto bella" e "Ma quanto è bella la nostra nuova sede!" (meritevole appunto di un punto esclamativo di chiusura - o di un interrogativo, ma che non impone risposta). 
Quanto all'enunciato, più che avversare, ma dice che si sta montando sul gradino più alto di una climax ideale, come del resto segnala la regolare combinazione con riferimenti quantitativi, con il 'più' di un superato 'meno'.
Un valore attenuativo permane, tuttavia. Togliendo referenzialità, come si diceva, e quindi perentorietà a ciò che si afferma, ma lo pone essenzialmente nella prospettiva di chi enuncia e invita chi ascolta a verificare l'enunciato non quanto alla sua fattualità ma quanto all'effetto, per così dire, sulla sua soggettività o, piuttosto, su una soggettività che si vuole condivisa. 
In queste espressioni, ma fa famiglia. Chiama affetto. Fa richiesta di amicizia. Oggi, di conseguenza, fa solidarietà da Facebook (e chi vuole ne trova lì ricca messe di esempi, appunto). 
Un segno dei tempi, di conseguenza, se, uscendo dall'oralità, in cui certo sempre ha prosperato (parte della lingua di ogni "mammà" italiana che si rispetti), il modo di esprimersi (se non di presentarsi) si affaccia con regolarità nello scritto, complici le reti sociali, dove tutto (o quasi tutto) sa, morbidamente se non morbosamente, di persona grammaticale.

21 giugno 2014

Trucioli di critica linguistica (12): "Chissà perché"

"Quando cammino | su queste | dannate nuvole | vedo le cose che sfuggono | dalla mia mente | niente dura niente dura | e questo lo sai | però | non ti ci abitui mai": il testo di Dannate nuvole dà così una persona (grammaticale) al suo protagonista. Anzi, gliene dà due, prima e seconda, con la seconda a fare da simpatetico abito indossato dalla prima (della procedura espressiva si è già detto, in questo diario, e non a proposito di canzonette).
La terza, la non-persona, che fa da cuscinetto testuale tra prima e seconda, è peraltro riempita da "niente". Il processo, come un moto oscillatorio, è iterato (moduli della cultura, non solo ovviamente della popolare, ma della popolare per elezione): "Quando mi viene di dire la verità | sono confuso | non sono sicuro | quando mi viene in mente | che non esiste niente | solo del fumo | niente di vero | niente è vero niente è vero | e forse lo sai | però | tu continuerai | ... niente dura niente dura | e questo lo sai | però | tu non t'arrenderai".
La prima persona, infilandosi in tale "niente" e attraversandolo, ne esce abbigliata da seconda. L'esperienza del ("niente" del) mondo è del resto trasformativa - per taluni (per tutti?) alienante: "niente" somiglia a "tutto" molto più di "qualcosa" ed è facile l'equivoco. Così, venire fuori da una simile esperienza continuando a darsi dell'io, dell'eleganza, non è il massimo, dell'intelligenza, è forse il minimo. 
Lecito - forse addirittura ammirevole - è concedersi al piccolo e scoperto imbroglio di darsi del tu e di fare di quel tu, visto che è un patente pupazzo dell'enunciato, un piccolo positivo eroe dalle qualità romantiche e concessive. Fossero impersonate da un volgare io e declamate in prima persona, queste sarebbero intollerabili.
Due sospese parolette interrogative sono però il marchio che sigilla la canzone, la sua iterata sphraghís dal ritmo giambico: "chissà perché". Del resto, il suo autore, Vasco Rossi, o il personaggio della narrazione della vita pubblica italiana degli ultimi trenta anni che va sotto tale nome, pare avere per attitudine più domande che risposte. Andando avanti con un'età che ha la coquetterie di non nascondere e di non nascondersi, anzi, sempre più domande. Ha gioco facile in ciò. Avere più domande che risposte è infatti condizione umana ordinaria (e ordinariamente negletta e inconsapevole). Di risposte, ce n'è, e certa, solo una, che dà peraltro su mille domande senza risposta. Ma ci vuole fegato, oggi, a metterla in musica con una canzonetta.

15 giugno 2014

Linguistica da strapazzo (30): Ancora sull'"arbitraire du signe"

Divertenti reazioni, in rete, per l'immagine qui esposta. C'è chi la mette sul ridere e parla di cinghiali attenti alla linea, c'è chi non perde l'occasione per deprecare gli anonimi posatori della segnaletica stradale e, con loro, l'ente (o l'Ente) che li manda.
L'idea della natura correlativa del segno, con il corollario del suo insopprimibile "arbitraire", non sfiora nessuno. 
Come ben sapeva Ferdinand de Saussure, del resto, essa, benché semplicissima o forse proprio perché semplicissima, è altamente contro-intuitiva e, di fronte a qualsiasi prodotto della loro attività simbolica (d'essenza, sistematica e differenziale), gli esseri umani non possono fare a meno di aggrapparsi a qualcosa che li esima dal ragionarci su. O meglio, che fornisca loro un comodo modo (per far finta) di ragionarci su.
In rapporto con l'immagine del cartello, straniante ma in funzione di un codice (il Codice della strada), ineluttabilmente metonimico, se non allegorico, ne risulta completamente oscurata e passa così per naturale, naturalissima la ratio misteriosa, invece, e radicalmente immotivata che mette insieme, in una lingua qualsiasi come qui l'italiano, il significante /tšin'gjali/ (qui reso come si può) con il relativo significato (improferibile se non in associazione col suo significante, appunto). E mette insieme l'uno e l'altro (e mai l'uno senza l'altro) solo grazie a una metafora radicata negli spiriti al pari di un non più riconoscibile luogo comune, si direbbe per disperazione da linguista che prova a capirsi, prima ancora che a farsi capire.

14 giugno 2014

Vocabol'aria (10): "genitorialità (dell'opera)"

"Paternità dell'opera si è diffuso invece perché la maggior parte degli scrittori sono sempre stati uomini. La prof.ssa propone di sostituire tali termini non con la maternità dell'opera, ma con la genitorialità dell'opera".
Giusto. E Apollonio pronto ad aderire con entusiasmo. La questione omerica? L'Iliade, l'Odissea e il problema della loro genitorialità. Shakespeare? Mai esistito. Alphonse Allais lo disse: è d'uno sconosciuto che aveva lo stesso nome la genitorialità delle sue opere. Frammenti poetici di recente individuati in un venerando papiro: chi se ne intende dice che spetta a Saffo la loro genitorialità. Quanto al genere, area (semantica) finalmente ben disinfettata, allora.
Ma siamo proprio sicuri? 
Genitorialità è apparentata con genitoriale. E genitoriale con genitore. Le tre forme hanno una base comune e tale base porta già il germe di un genere. Essa è infetta e l'infezione è connaturata con la formazione dei nomi d'agente delle lingue indoeuropee. La tabe è atavica.
E così genitorialità è corretta solo in apparenza. Pare pulita. In realtà tiene nascosto un maschile in cantina. Circola rispettosa, quasi fosse una parola perbene. Fa al contrario parte della quinta colonna. È subdola. Sporca e rende settica l'espressione, senza darlo a vedere. A farne uso, pensando di comportarsi a modino, si continua a diffondere proprio ciò che si vorrebbe abolire ed espellere.
Genitorialità non basta per fare pulizia. Il rimedio è forse peggiore del male. Illude di aver fatto il proprio dovere ma si ferma al lessico, mentre il morbo è nel sistema. Bisogna che ci si spinga oltre. Solo così si potrà individuare l'infezione ovunque essa si annidi, da millenni, e annientarla.
Per concludere: Apollonio tiene a essere corretto, come sa chi lo legge e non lo biasimerà, di conseguenza, se malgrado il suggerimento - e forse anche per carità di (lingua) patria - si asterrà dall'uso di genitorialità, ove gli capitasse di strologare di opere dell'umano ingegno.