25 marzo 2011

Parole che parlano (4): Ancóra

Ancora pare l'avverbio temporale italiano del momento e non devono essersene accorti in molti.
Lo è nella versione mesta e avviata alla decrepitezza del poeta e professore milanese Roberto Vecchioni, di quella "Chiamami ancora amore" che è stata di recente incoronata al Festival di Sanremo (se ne è già detto in questo blog) e consacrata da un'esibizione celebrativa alla presenza del Presidente della Repubblica italiana (pour cause?).
Lo è nella versione incosciente (o ironicamente incosciente?) e aperta alla vita del rockettaro reggiano Luciano Ligabue e della sua "Il meglio deve ancora venire", canzonetta della maturità, è vero ed è evidente, ma scritta sulla scia ideale del canto adolescenziale di Domenico Modugno e del suo "Volare oh oh".
Apollonio lo confessa. Sarà anche lui anziano ma, come àncora alla vita, preferisce l'"ancóra" dell'Italia dei Ligabue, attempati scavezzacollo, all'"ancóra" dell'Italia dei Vecchioni, gonfia soltanto di retorici paroloni. E, se potesse, suggerirebbe alle competenti autorità di eleggere "Il meglio deve ancora venire" a inno delle celebrazioni dei centocinquanta anni dell'unità italiana.
A Reggio nell'Emilia, del resto, nacque il tricolore. E fu certo faccenda da scapestrati.

Ecco l'ancóra di Roberto Vecchioni.

Ed ecco l'ancóra di Luciano Ligabue. La città è Barcellona. Lei è la palermitana Isabella Ragonese.

[25 aprile 2011: Informato, per ragioni personali, su quanto succede lungo la via Emilia, un gentile sodale informa a sua volta Apollonio sopra un recente prodotto di Vasco Rossi e lo rende felice dandogli conferma d'avere colto, pur dalla sua isolata Citera, un refolo dell'aria del tempo. Anche Vasco Rossi è infatti venuto fuori con un pezzo centrato su ancóra ("io sono ancora qua", canta) e che, di nuovo, tira in ballo una notte da passare (quella prospettata nella canzone di Ligabue resta comunque, a parere di Apollonio, la più invitante). La prospettiva di Vasco Rossi, che non cela d'essere anziana, anzi ne fa manifesto, si colloca, ironica terza via, tra la pedagogia funerea di Vecchioni e l'evasione semi-incosciente di Ligabue. Per completezza, eccola.]

16 marzo 2011

Etimologia e straniamento...

due prospettive linguistiche sul mondo.
È primavera. L'aria di Crisopoli (così la battezzò Guido Morselli) si impregna dell'olezzo del letame, fertilità che promette di volgersi in letizia. L'odore s'insinua, incongruo, nelle aule universitarie, come nelle vie eleganti del commercio e delle banche. Il naso, profondo, le svela tutte costruite a ridosso di pascoli e stalle, mentre l'occhio, superficiale, si affanna a negarlo.

8 marzo 2011

Lingua loro (17): Traslitterazione

E a proposito di parole e dell'uso che taluno fa delle (supposte) peregrine come raffinato cultore (critico) dell'espressione, non più tardi di ieri l'altro, capita ad Apollonio di leggere un articolo di un filologo della Domenica (del Sole 24 Ore) che della lingua passa per spettacolare funambolo.
Prendendo spunto da una storiella sulle origini mediterranee del Bardo che in Sicilia si racconta da un pezzo, ovviamente ammiccando, e che è servita di recente a insaporire per il lettore una fatica minore dell'infaticabile Andrea Camilleri, l'articolo afferma, tra l'altro, che il nome Shakespeare sarebbe la «traslitterazione inglese» del nome italiano (e siciliano, in particolare) Crollalanza.
Un dettaglio da nulla. Ma uno di quelli in cui, come si sa, abitano in condominio e, di conseguenza, in perenne conflitto il diavolo e il buon Dio. Traslitterazione? "E chi ci accucchia"? Apollonio ci resta "ammammaluccutu".
Di Crollalanza, Shakespeare è al massimo la traduzione. L'inglese non è il russo né il cinese. Con l'italiano condivide pienamente l'alfabeto latino. A essere più precisi, Shakespeare è calco di Crollalanza, un calco (a volere procedere nello scherzo) di direzione conversa a quella dell'italianizzazione di skyscraper come grattacielo.
Ma calco che "radica" di parola è? E chi la conosce? Il filologo? C'è da dubitarne. Per darsi un tono, allora, traslitterazione va più che bene. Fa pensare a traduzione senza condividerne la banalità. Ha l'aria d'essere un dotto termine tecnico. Gettata lì "sanfasò", "all'urbi(g)na" (o, se si preferisce, "a bischero sciolto"), suona meravigliosamente e, se chi legge "si l'ammucca", fa fare un figurone a chi la usa.
Che, di suo, la poverina valga poi «trascrizione di una parola... in un alfabeto diverso da quello originale», al filologo che "la catafutti" pubblicamente, non gliene importa "una emerita minchia".
Apollonio sente già la voce concorde dei suoi due lettori che lo ammonisce. Gli sta dicendo: «Sei una "camurria": pedante, stupido e intollerabile. Perché "murritii" e "ci scassi i cabasisi"? Traslitterazione, calco, traduzione: cosa vuoi che sia. Pei filologi della Domenica, la lingua è "una cajorda", è "una buttanazza". Come tale va trattata. Con la lingua, l'importante è "fari scumazza". L'importante è "cassariarisi" e, "cassariannusi", "annacarsi"».
Tutto vero. "Accuttufatu", Apollonio si tace. Lo ammette: è proprio "un fissa".

Ecco l'articolo.

4 marzo 2011

Lingua loro (16-1): Ancora metafora

"Roccapendente sembra la tenuta di qualche nobile toscano ancora in auge..." "E invece no. O meglio anche sì, ma nella mia testa è metafora dell'università italiana" (Marco Malvaldi, intervistato dal Corriere Fiorentino, il 30 gennaio 2011).
"Ancora una volta Napoli diventa, nel modo più colorito, la metafora dell'Italia" (Corrado Augias, in risposta a un lettore di Repubblica sul tema dei rifiuti napoletani, il 23 dicembre 2010).
Qualche giorno dopo, sullo stesso quotidiano, come puntuale contrappunto, in una vignetta di Bucchi, silhouettes di un bambino e di un adulto, che lo tiene per mano. Il bimbo: "Ma i rifiuti sono un problema?". L'adulto, ineccepibilmente stavolta: "No, una metafora" (l'immagine di questo post dice, del resto, che la battuta era frattanto venuta in mente ad altri).
La questione riguarda anche il francese. Lo lascia intendere il passaggio che segue, da un libro di Amélie Nothomb, comparso nel 1992: "Les gens ne savent rien des métaphores. C'est un mot qui se vend bien, parce qu'il a fière allure. 'Métaphore' : le dernier des illettrés sent que ça vient du grec. Un chic fou, ces étymologies bidons - bidons, vraiment: quand on connaît l'effroyable polysémie de la préposition meta et les neutralités factotum du verbe phero, on devrait, pour être de bonne foi, conclure que le mot 'métaphore' signifie absolument n'importe quoi. D'ailleurs, à entendre l'usage qui en est fait, on arrive à des conclusions identiques" (Hygiène de l'assassin).
È anzi ragionevole supporre, in proposito, che all'italiano il malanno sia giunto proprio dal francese. La circostanza spiegherebbe bene la trouvaille dello scrittore siciliano e l'enfasi entusiasta che a essa destinò la Padovani. Pronunciando il suo fatidico "la Sicilia è metafora del mondo" alla presenza di una giornalista francese, Sciascia si sarà per ciò stesso sognato parigino più di quanto non facesse di solito.
Insomma, l'attuale largo uso di metafora sembra la spia, il dettaglio rivelatore o (come direbbero i suoi amatori) la "metafora" di quella stupidità adeguata al mondo tipica della gente che si suppone (ed è sovente supposta) intelligente. La stupidità che Robert Musil definiva appunto un vero e proprio morbo della cultura.