30 aprile 2007

Libri in aeroporto

Modesto ma costante frequentatore di aeroporti, Apollonio deve alla sua naturale disposizione all’ansia la grazia di godere così, di tanto in tanto, del tempo sospeso dell’attesa, che anticipa e lascia già pregustare, quando si siano passati i controlli, il tempo librato (e quasi perciò liberato) del volo.
Le attese, quando sono quiete, hanno non pochi meriti. Il principale è forse il fatto che esse si lasciano benevolmente e amorevolmente ingannare: sono per questo compagne perfette di un uomo.
Gli inganni che tende Apollonio alle sue attese sono tutti innocenti e comuni: lèggere le pagine leggère che lo accompagnano, prendere note dei propri pensieri su un consunto calepino, sbirciare vetrine, osservare (a dimessa caccia del bello, del bizzarro, del sublime quotidiani) la gente che gli sta o gli corre intorno.
Egli usa, poi, come tanti, infilarsi tra gli scaffali di quei bazar – tipicamente aeroportuali – che, tra altre inutili mercanzie, vendono libri. Appoggiato a una colonna, gli capita così di scorrere i volumi che (l’esposizione in quei luoghi lo dice) dànno sostanza alle classifiche delle migliori vendite. Sulla stampa, queste hanno per lui sempre l’aria misteriosa delle liste di cose favolose e sconosciute, quasi bestiari medievali di animali fantastici che, lì, nelle librerie degli aeroporti, finalmente, gli si rendono visibili e palpabili. Non sempre deliziose, tali letture sono sempre edificanti ed è talvolta successo che, volo dopo volo, Apollonio abbia così percorso per intero – evitandone con tale disonesto mezzo l’acquisto – opere che vanno per la maggiore per qualche mese (chissà se quel mese sarà un anticipo di eternità). E Discolo come egli è, si ripromette, un giorno o l’altro, anche di scriverne: controcanto alla serietà della cultura delle biblioteche, una sommessa rivendicazione della saporita vanità della cultura aeroportuale.

16 aprile 2007

"Il Gattopardo": di chi le spese?

Le vicende editoriali del romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa sono note: l'autore morì a Roma il 23 luglio del 1957, senza sapere se esso sarebbe mai stato pubblicato. Undici anni dopo, il figlio adottivo dello scrittore, Gioacchino Lanza, dà notizia sulla "Fiera letteraria" dell'esistenza di un appunto di Lampedusa, scritto pochi giorni prima della sua morte, indirizzato alla moglie e a lui. Vi si parla del Gattopardo e della sua eventuale pubblicazione postuma in questi termini: "Gradirei che il romanzo fosse pubblicato, ma non a mie spese". Le biografie dî Lampedusa riprendono la storia, frattanto divenuta uno dei cliché lampedusiani, tenendosi più o meno strettamente all'originale resoconto del figlio.
"In the last days he wrote letters for Licy and Gioacchino to read after his death. Among other things he wrote to his adopted son: «I would be pleased if the novel were published, but not at my expense». In death Lampedusa retained his innate pride. He knew The Leopard deserved publication but he would not countenance the humiliation of having to pay for it": è David Gilmour che scrive (The Last Leopard, Collins Harvill, London 1990, 158), con un rinvio in nota all'articolo sulla "Fiera letteraria".
A sua volta, Andrea Vitello: "La consapevolezza della propria fine divenne così lucida che negli ultimi giorni egli arrivò a fare qualche raccomandazione. Lasciò due lettere: una per la consorte, l'altra per Gio'. In particolare, raccomandò di seguitare ad interessarsi del Gattopardo, tentando presso altri editori; precisò che la redazione da pubblicare doveva includere i due capitoli stesi per ultimi; sconsigliò tuttavia di pubblicare a proprie spese: lo riteneva umiliante" (Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Sellerio, Palermo 1987, p. 319).
Dodici anni fa, compare il Meridiano dedicato a Lampedusa, con un'introduzione di Gioacchino Lanza. Quasi in explicit, vi si legge: “E durante la malattia redasse due lettere per me e per la moglie. Sulle sue volontà e sui suoi affetti non dovevano esserci equivoci. Fra l'altro vi parlava del Gattopardo. Pregava gli eredi di adoperarsi per la sua pubblicazione, ma non desiderava la mortificazione che lo facessero a proprie spese” (“Introduzione”, in Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Opere, Mondadori, Milano 1995, p. L-LI).
La lingua è bizzarra, indomabile e capricciosa. Nel momento stesso in cui evoca nella parola del padre adottivo la volontà di non lasciare spazio agli equivoci, la parola del figlio ne istituisce uno, nel nocciolo profondo del suo tema. Attribuito a “spese”, l’aggettivo “proprie” ha un difetto che (capita spesso ai difetti) equivale a una virtù: un’ambiguità di riferimento. “Proprie” di chi? Del morituro o degli eredi? Non è questione di poco momento (à suivre).