29 luglio 2015

A frusto a frusto (95)



Il padre? Relazione pleonastica. E ostacolo atletico, eccezione irriducibile, nobile corredo, lusso sfizioso. Temperie pigre, conformiste, volgari, micragnose e utilitaristiche non possono permetterselo.   

28 luglio 2015

Cronache dal demo di Colono (34): Ancora (s)valutazione

Come, un dì, per i frutti della terra. Da qualche anno, c'è la stagione in cui maturano e, nel mercato dell'informazione, si vendono bene le classifiche nazionali delle università. Classifiche tirate su un po' alla buona. Viene poi la stagione delle classifiche internazionali prodotte in Cina, da qualche anno reputatissime. Segue quella delle classifiche americane: neanche a dirlo, istituzionali. 
Son sempre classifiche ma, dal punto di vista dell'informazione, vanno cucinate in modo diverso. Per coerenza con la stagione di maturazione, le italiane, per esempio, vengono bene, sul declinare dell'estate, come aperitivo ansiogeno da servire a neo-maturati/e e loro angustiati genitori, nella prospettiva di cruciali scelte.  
Sollecitato in proposito da una provocatoria domanda giornalistica, non molti anni fa, pare sia stato un ministro francese (ad Apollonio la storiella è giunta per tradizione orale ma non saprebbe nemmeno precisare da chi: se l'è inventata lui, in sogno?) a rispondere che il difetto delle classifiche di università e istituti di formazione superiore è, semplicemente, che esse esistono. 
In faccia a chi, per scopi suoi, le cavalca e ci marcia ma anche in barba a chi pensa che, beh sì, è materia delicata ma, alla fine, di strumenti del genere oggi si ha bisogno e che si tratta solamente di migliorarli, l'esistenza medesima come essenziale difetto delle classifiche delle università è verità incontrovertibile anche se intempestivamente enunciata. Così capita sovente (o sempre?) alle verità.
La leggenda o il sogno narrano del resto che il suo proferimento costò molte critiche politiche e di stampa al ministro regolarmente grossolano di una nazione un tempo accidentalmente fine (o al ministro accidentalmente fine di una nazione oggi regolarmente grossolana). 

26 luglio 2015

Lingua nel pallone (8): "Col piattone"

Di collo (pieno), d'esterno, di punta, di piatto e, naturalmente, di tacco: le radiocronache e le telecronache d'un dì sedimentarono espressioni del genere nella memoria di Apollonio - altre, se ve n'erano, vi si saranno perdute - come qualificazioni attributive d'un tiro verso la rete, d'esito non necessariamente felice. L'insieme disegna una sorta di anatomia del piede, nel suo rapporto col pallone che ne viene appunto scagliato per via di (violento) contatto.
Ogni segmento attribuisce al tiro e al proietto caratteri che si qualificano come qualità o difetti. Un tiro "di collo (pieno)", per esempio, è robusto ma, talvolta, balisticamente problematico e domanda quindi, soprattutto se scagliato "dalla distanza", qualità non comuni. Uno "di punta" schizza veloce ma è difficile sapere verso dove. Quelli "d'esterno" e "di piatto" sono meglio orientabili, il secondo più del primo, ma correlativamente la palla viaggia meno rapida, tanto che può succedere che, quando il tiro è "di piatto", si possa opportunamente parlare di "appoggio". Quando si colpisce "di tacco" è assicurata la sorpresa ma al pallone non s'imprime molta forza e si tratta di norma di "deviazione".
Delle cinque, se l'orecchio oggi disattento e intermittente di Apollonio non si sbaglia, di piatto, che gode peraltro di registrazione lessicografica, ha generato in anni recenti un pollone corrivo e analitico: col piattone
L'espressione oscilla tra funzione attributiva ("un tiro col piattone") e funzione avverbiale ("insacca col piattone"). Deve essere germogliata, per via dell'accrescitivo, tra i commenti al gioco di calciatori, come sono sovente i difensori, che non "hanno piedi buoni": il grossolano ha evidenti contatti figurati col grande e grosso (o c'è di mezzo un influsso foresto? Apollonio s'affida fiducioso alla benevola competenza dei suoi due lettori). Da lì - forse perché l'immagine è piaciuta e, come si sa, sovente le forme alterate si rendono autonome - l'espressione si è generalizzata e adesso insidia di piatto. Del resto, è noto: il corrivo avanza. Diversamente, non sarebbe tale.
"Col piattone" può così calciare e segnare oggi anche Lionel Messi, giocatore sulla bontà dei piedi del quale è difficile discutere (anche se, a parere di Apollonio, essa viene lodata esageratamente).
"Di piatto" capitava invece di calciare a Gianni Rivera, altro titolare di ottimi piedi. E "di piatto" e non "col piattone" Rivera segnò appunto la rete che decise, nell'estate del 1970, una partita tutt'altro che qualitativamente bella ma, per via dei contenuti emotivi, difficile da dimenticare.

18 luglio 2015

Le occasioni di ridere... (3)


non vanno mai sprecate. Basta seguire questo link per trovarne una gustosa. Acquisita consapevolezza di qualche dato osservativo ottenuto da una prospettiva orientata, si esclamerà conclusivamente: "Da urlo! Chi l'avrebbe mai detto? Certo che, senza la scienza, quella seria, bisogna ammetterlo, fatti del genere resterebbero misteriosi e impossibile sarebbe coglierne la ratio."

Illusioni italiane (2)

Chissà donde viene l'idea che a mettere in pericolo l'italiano sarebbero una manciata di "errori", che talvolta prefigurano soltanto il futuro di qualche suo dettaglio grammaticale, e drappelli di forestierismi effimeri o pronti ad acclimatarsi.
Chissà cosa nutre l'illusione che, messa un'improbabile mordacchia agli "sgrammaticati", l'italiano resterà ciò che è diventato per una breve stagione della sua vicenda moderna. Capiti quel che capiti e ci si limiti a compitarlo, con congiuntivi corretti e disgiunzioni nella norma, nei tinelli, davanti alle bancarelle del mercato, nelle telecronache sportive e nei dibattiti televisivi. Oltre che, in qualche variante locale, nelle tradizionali canzonette da intonare tra i tavoli dei ristoranti, per ottenere un obolo dai turisti. 
Chissà cosa alimenta il sogno che l'italiano resti ciò che è diventato in qualche secolo di storia, con fatica e, certamente, non per merito della Crusca (di quella storica, intende naturalmente Apollonio), ma per via delle officine, delle botteghe, delle banche, dei teatri, dei laboratori, dei conservatori, dei cantieri, dei porti, delle scuole, persino delle università e dei politecnici e di ogni altro luogo in cui l'ingegno si è manifestato in italiano. Di ogni altro luogo in cui - felice formula trovata da un sodale di Apollonio -  si è "pensato in italiano".
L'italiano è diventato ciò che è diventato, si badi bene, senza che nessun programma nazionale, tanto meno un'autorità politica nazionale, lo abbia mai voluto tale. Quindi solo perché, come varietà compatibili, in un sistema di concetti e di forme a esso riconducibile hanno pensato (e, talvolta, scritto e parlato) esseri umani di qualità.
Di conseguenza, o vivo e buono, perché, senza troppo badare ad andazzi e autorità, lo fa tale chi si impegna ad esprimersi, correlando significati e significanti all'altezza, o semplicemente l'italiano, anche quello con i congiuntivi corretti e le disgiunzioni nella norma, non c'è, ancora prima d'essere perduto. E di ciò che non c'è perché non merita di esistere, è sciocco sentire la mancanza ed è infantile proclamare il bisogno.

16 luglio 2015

Parole che parlano (7): "Foliazione"

"Foliazione di 48 pagine..." annuncia festoso e invitante, nel catenaccio, il soffietto di lancio del supplemento culturale d'una gazzetta che, da domenica prossima, si farà autonomo e chiederà un obolo. 
Foliazione? Si capisce ma persino i dizionari esitano. Il Battaglia gli dà voce solo nel recente supplemento. Ma sì, infine: lingua speciale da redazione e tipografia, spiattellata in faccia al lettore. 
Il testo insiste, infatti: "...passerà a una foliazione di 48 pagine...".
48 pagine, nel catenaccio, e passerà a 48 pagine, nel corpo dell'articolo, avrebbero detto meno? Sarebbero state espressioni meno informative? Insomma, foliazione, che ci sta a fare?
Una parola in più. Per belluria? Confezione? Impacchettamento? Può darsi. Ma anche per assenza di autocontrollo. Una parola col tanfo delle chiacchiere da redazione e da tipografia.

Come cambiano le lingue (14): Dopo "incinta", "edicola"?

Sulla destra, un testo rilevato oggi in una rete sociale che, proposto così, può risultare oscuro e necessitare d'una chiosa. 
Chi l'ha cinguettato comunicava con esso di avere cercato un volumetto con scritti dell'autore menzionato che pare sia stato di recente allegato a una gazzetta culturale e di non averlo ancora trovato, dopo cinque tentativi.
5 edicola sarà effetto della rapida accettazione del suggerimento di uno dei programmi di aiuto alla scrittura che corredano i correnti strumenti di comunicazione. 
A mettere sull'avviso, c'è però in atto il caso, per quanto diverso, di incinta che, come si sa, sta diventando invariabile. Su tale caso è d'altra parte molto istruttivo fermarsi un momento.
Incinta sta infatti diventando invariabile soprattutto nell'espressione di donne giovani e di buon livello culturale, quindi nell'espressione di ben note agenti del mutamento linguistico, da una prospettiva sociologica. E ciò malgrado richiami normativi che mancano tuttavia di cogliere l'essenza sistematica dello sviluppo. 
Chi dice tre donne incinta è infatti lungi dal lasciare al singolare l'attributo e non direbbe mai, poniamo, tre donne bella. Apollonio lo ha rilevato, per es. e da anni, sulle labbra di giovani accademiche. Di gente, in altre parole, che sa bene che un attributo sotto forma di aggettivo obbedisce alle regolarità dell'accordo. 
In realtà, chi dice tre donne incinta smette semplicemente di categorizzare morfologicamente incinta come aggettivo e, usandolo in funzione di attributo, lo considera intrinsecamente esente dall'accordo. Per paradosso, sente tre donne incinte grammaticalmente aberrante, come sentirebbe aberrante, in relazione con una donna in-ansia, l'ipotetico plurale tre donne in-ansie (il trattino mira solo a meglio palesare, nello scritto, il fenomeno: nel parlato, non c'è infatti differenza tra incinta e in ansia). Quindi, tre donne incinta come tre donne in ansia o in crisi o a dieta
Del resto, in italiano e lingue apparentate, possono ricorrere in funzione attributiva migliaia e migliaia di forme che non sono categorizzabili morfologicamente come aggettivi. Qui se n'è già detto: completa e a trecento sessanta gradi hanno esattamente la stessa funzione sintattica in un'indagine completa e in un'indagine a trecento sessanta gradi. Naturalmente, dal punto di vista categoriale e morfologico, sarebbe difficile considerare a trecento sessanta gradi un aggettivo allo stesso titolo con cui si considera un aggettivo completa
Tra gli elementi che possono svolgere funzione attributiva, incinta sta così semplicemente passando dalla classe di bello alla classe di di ultima generazione, cioè alla classe degli attributi invariabili. Facilita lo scivolamento di incinta verso tale classe anche il fatto di non avere nell'uso corrente un maschile (se non per ischerzo e certo non frequentemente) e d'essere, per dire così, un aggettivo a variabilità già ridotta: solo per il numero e non per il genere.
Diverso e ancora oscuro si presenterebbe invece di caso di 5 edicola, se non fosse (come si è detto) banale coquille.
In effetti, nulla fa di edicola una stranezza, se non il fatto che la sua storia, cancellata nella coscienza generale per via dell'uso comune, ne fa certamente una parola di trafila dotta. 
Dell'estensione di edicola al significato di "chiostro [sic: ragionevolmente, chiosco] adibito alla vendita di giornali e simili" si conosce quasi la data esatta. Nel loro Dizionario etimologico della lingua italiana, da cui è tratta la bizzarra definizione appena menzionata, Manlio Cortelazzo e Paolo Zolli, citano un "a Milano e a Bologna, mi pare, lo dicono Edicola" tratto da un fascicolo del 1873 della rivista La unità della lingua, d'ispirazione governativa e di sentimenti manzoniani. 
Con le parole di trafila dotta, chi parla ha tuttavia sovente il vago sentimento di maneggiare pericolose peculiarità e di doversi di conseguenza preparare all'eccezione: area psicologica fertile alla produzione di ipercorrettismi. Nulla esclude così che, nello spirito di qualcuno, edicola possa finire nella classe di cinema (che non è naturalmente il solo: ma basti qui un esempio)che, di conseguenza, edicole possa essere sentito aberrante come cinemi: per chi l'ha cinguettato, la forma 5 edicola sarebbe in tal caso corretta come quella di tre cinema.
Si vedrà. Certo è che a cinguettare 5 edicola e a ri-cinguettarlo, fino a farlo arrivare alle orecchie del vecchio Apollonio, sono state donne giovani e, in apparenza, di buon livello culturale: come la ricerca sociolinguistica sa bene, per genere ed età, agenti rilevanti del cambiamento. Con costoro, galantuomo sarà il tempo, con l'emergere, eventuale, di ulteriori attestazioni. 

Lingua loro (34): "Flegetonte" e "Caronte"

Ripetersi. C'è segno più chiaro di decrepitezza? Tre anni fa, il vecchio Apollonio aveva colto sul suo sorgere (o quasi sul suo sorgere) l'uso malandrino, dal punto di vista comunicativo, di dare nome proprio (e nome proprio di figure mitologiche o assimilabili) a banali circostanze meteorologiche. 
Ulisse, Drago africano e i mercati portava come titolo quel vecchio frustolo. Vi si mostrava come l'artificio retorico di personificare per via di denominazione cicloni e anticicloni trova un corrispettivo speculare nella depersonalizzazione o nella impersonalizzazione dei fatti economici, artificio retorico anch'esso della comunicazione contemporanea.
L'un fatto espressivo e l'altro, combinati come spie parlanti, danno così un'immagine d'un qualche interesse per cogliere l'ideologia e lo spirito di un tempo che tende verso il rimbambimento. 
Un tempo in cui fatti umani orientati da interessi e da scelte circolano anonimi e paiono adespoti, "naturali" come il Moderno ha detto essere la natura, mentre afa o temporali hanno nomi reboanti e spaventevoli, "naturali" per prospettiva animistica di ritorno.
A tre anni di distanza, la novità comunicativa del nome proprio dell'anticiclone o del ciclone è svaporata, naturalmente. Ripetersi: segno appunto della decrepitezza di un tempo rimbambito. 
Che il caldo di luglio o, in prospettiva, il freddo di gennaio non abbiano nome proprio è così considerato socialmente e comunicativamente inconcepibile. Dalle reti sociali alle televisioni, dagli ombrelloni agli autobus cittadini, per dire che si ha caldo, che fa caldo e così via, è tutto un proferire, in questi giorni, di nomi propri, con annessi anatemi e correlate suppliche. 
Indizio di cervelli bolliti e bolliti non per via d'una banale afa di luglio. 

Dall'ultimo banco, il buon Nando (5): Le affinità presupposte

Sera di luglio. Il telefono di Apollonio squilla.

- Sì...
- Ciao, sono Nando.
- Ehilà, Nando! Era da un pezzo. A cosa devo il fastidio?
- Un consiglio. Puoi darmi un consiglio?
- Eviterei ma se devo...
- Studio.
- E ti pareva. Sempre linguistica, no?
- Sì. Una nuova, però.
- E allora?
- Nel manuale che studio c'è scritto che Il cognato di Mara ha aperto un ristorante.
- Il cognato di Mara? Un ristorante? Sarà un esempio...
- Sì. Un esempio. Spiega la presupposizione. Dice serve. Per capire i testi. Roba fine.
- Ahi! La vedo messa male, per un testone come te.
- No. Senti... qua il libro dice che "se riflettiamo... vediamo che [Il cognato di Mara ha aperto un ristorante] presuppone che Mara abbia (almeno) una sorella e che questa sia sposata". C'è scritto proprio così, con almeno tra parentesi, sciccherie da loici: "...(almeno) una sorella e che questa sia sposata". Evidentemente, il professore, Mara, non la conosce.
- Ma cosa c'entra, Nando, che la conosca o no... È un esempio. È per dire.
- C'entra, Apollonio. Se il professore conoscesse Mara, ti dico, non avrebbe scritto ciò che ha scritto.
- Ma dai, Nando. Smettila.
- No. Ti dico. Mara, io la conosco bene. Sorelle, non ne ha proprio nessuna. Figlia unica.
- Oh questa poi...
- Ma sì, Apollonio. Un ristorante, in famiglia di Mara, l'hanno aperto, come dice il professore. L'ha aperto il fratello del marito di Mara. Suo cognato...
- Santo Cielo, Nando...
- Ho l'esame tra due giorni. Glielo dico al professore, no? "Caro professore, Lei, mi scusi, a differenza di Boccaccio, su cui sa tutto, Mara proprio non la conosce".
- Nandoooo...
- "Il cognato di Mara che ha aperto il ristorante è il fratello del marito, non il marito della sorella: Mara è figlia unica, caro professore. La sua presupposizione è sbagliata e autorizza un'inferenza: Lei la conosce, forse, solo per sentito dire".
- Nandooooooo....
- "Glielo do io, l'indirizzo del ristorante del cognato di Mara. Così, se non mi crede, può andare a chiedergli. Ci si mangia e ci si beve bene, nel ristorante del fratello del marito di Mara. Ed è economico. Professore, vada a nome mio. Dica: mi manda Nando...".

Disperato, Apollonio riattacca. 

15 luglio 2015

Cronache dal demo di Colono (33): "Αλέξης Τσίπρας non è Winston Churchill"...

...è il pensiero che ha attraversato la testa di Apollonio in questi giorni, insieme con altri che è bello tacere: investono infatti immagini e sentimenti collettivi e possono irritare coloro che, per disposizione d'animo, sono irritabili (political correctness d'antan: se ne chiede venia).
Presa alla lettera, l'espressione Αλέξης Τσίπρας non è Winston Churchill suonerebbe sciocca. Meglio: ancora più sciocca di quanto non suoni nel valore che chi ha sotto gli occhi questo frustolo le ha ragionevolmente attribuito e che si spera concida con quello con cui circola da un po' nella testa di Apollonio. Che senso avrebbe infatti enunciare discorsivamente, anche nel proprio foro interiore, la verità lapalissiana che Tizio non è Caio?
Senza entrare qui nel labirinto dell'espressioni in cui compare una forma del verbo essere combinata per giunta con nomi propri (l'espressione umana più appare semplice e concisa in superficie, più è complessa nel sistema che regge tale superficie), basterà dire che valori diversi sono effetto di funzioni diverse e, se ci si pensa un momento, in Αλέξης Τσίπρας non è Winston Churchill, il gioco è abbastanza facile.
Αλέξης Τσίπρας è lui, il primo ministro greco (difficile dire per quanto ancora questa descrizione definita varrà a designarlo: ragionevole che un ex- intervenga molto presto); Winston Churchill non è Winston Churchill o meglio: è la figura, il tropo Winston Churchill e funge quindi, sintatticamente, da predicato. 
Per intendersi (ma proprio per intendersi: le funzioni non sono riducibili alle categorie e, dal punto di vista di Apollonio, come sanno i suoi due lettori, è vero il contrario), Winston Churchill vale quasi fosse la somma di tanti aggettivi, in funzione appunto predicativa: decisocoraggioso, orgoglioso, indomito, determinato, consapevolesicuro, sprezzante, fiducioso nella sua gente, come lui ferocemente e freddamente vendicativa. Gente cui, il 13 maggio 1940, sapeva di poter dire "I have nothing to offer but blood, toil, tears and sweat", come qui di séguito (pagato il biglietto del solito annuncio pubblicitario) si ascolta dalla sua voce:


Del resto, quando di questo si tratta, così si vincono le guerre. E capita pure le si perda: ma fa appunto parte dell'azzardo della vita delle nazioni e di chi le guida nei momenti difficili.

[In trascrizione, il breve discorso].

9 luglio 2015

Sommessi commenti sul Moderno (17): Cinguettando



Ansiti, sospiri, borborigmi, rutti, flati, singhiozzi, peti, borboglii, sghignazzi, soffi, rantoli, starnuti, aliti, sbadigli, gorgoglii, respiri, pernacchie, singulti, sbuffi e poi squittii, ronzii, belati, latrati, barriti, grugniti, muggiti, pigolii, nitriti, ruggiti, blateramenti, starnazzii, sibili, guaiti, uggiolii, strida, miagolii, ululati, mugolii, fischi, gracidii, bramiti, ringhi e persino questo stesso inane raglio: tutto, proprio tutto passa ormai per cinguettio. Se non è Newspeak questo, cosa altro mai lo sarà? 

Le reliquie di donna Rosa

L'ora è tarda e Apollonio enuncia qui, solennemente, un principio al tempo stesso critico e meta-critico, quanto all'opera di Lampedusa.
Non c'è scritto sul Gattopardo e non c'è forse lettura dell'opera in cui non si riconosca come artefice, sistematicamente, un personaggio del romanzo medesimo.
Questo si caratterizza del resto come il caso, rarissimo, di un testo che ha precisamente prefigurato, per classi allegoriche, ogni suo lettore (o sua lettrice) e ogni suo critico (o sua critica). A ciascuno, a ciascuna il compito di riconoscervisi, guardandosi allo specchio.
Inquadrato appropriatamente il sistema dell'opera, chi s'addentra nella foresta della letteratura critica e para-critica sul Gattopardo non tarda infatti ad accorgersi che l'hanno letto Tancredi e Angelica. Ed è quasi superfluo che lo si dica. Che l'hanno letto Sedara e il colonnello Pallavicino. Che l'ha letto Cavriaghi (l'alter ego di Apollonio l'ha scritto: il contino lombardo non solo ha letto Il Gattopardo ma ci ha girato sopra un film) e che l'ha letto, con i suoi amici, il soprastante Russo. Che l'hanno letto Maria Stella e Malvica. Che l'hanno letto Tassoni e don Ciccio Ferrara. Che l'ha letto Padre Pirrone, ovviamente, e che lo ha letto Ciccio Tumeo (Apollonio lo sa bene). Che l'ha letto da lontano Giovanni, in modo certo più amaro di quanto l'abbiano letto lo sciocco Paolo e, distrattamente e in velocità, Francesco Paolo. Che l'hanno letto, tetramente inconsapevoli, Carolina, Caterina e (come un'ombra) Chiara. Che l'hanno letto 'Ncilina, Sarina e Vincenzino, con Turi e Santino Pirrone. Che l'hanno letto Re Ferdinando e don Pietrino, l'erbuario: tra i tanti, questi non è certo quello che ci ha capito di meno. Che l'hanno letto i Ponteleone e le "bertucce crinolinate". Che l'hanno letto Monsignor Vicario e Chevalley. Che l'hanno letto, in collaborazione, il Cardinale di Palermo e don Pacchiotti. Che forse l'ha letto Fabrizio, rumorosamente ed esplicitamente, e che, implicitamente, deve averlo letto Concetta, ma appunto lasciando pochissimi segni. S'accorge che c'è persino la lettura di donna Rosa, a caccia di reliquie da vendere, in più di una versione: l'internazionale e la paesana. Chi è donna Rosa?
"Carolina era stata la vera creatrice di questa raccolta: aveva scovato donna Rosa, una grassissima vecchia, per metà monaca, che possedeva relazioni fruttuose in tutte le chiese, tutti i conventi e tutte le opere pie di Palermo e dintorni. Era stata questa donna Rosa a portare a villa Salina ogni paio di mesi una reliquia di santi avvolta in carta velina. Era riuscita, diceva, a strapparla ad una parrocchia disagiata o a un casato in decadenza. Se il nome del venditore non era fatto era soltanto a cagione di una comprensibile, anzi encomiabile, discrezione; e d'altronde le prove di autenticità che essa recava e consegnava sempre erano lì chiare come il sole, scritte com'erano in latino o in caratteri misteriosi che venivano detti greci o siriaci. Concetta, amministratrice e tesoriera, pagava. Dopo vi era la ricerca e l'adattamento delle cornici. E di nuovo l'impassibile Concetta pagava. Vi fu un momento, un paio d'anni durò, durante il quale la smania collezionista turbò financo i sogni di Carolina e Caterina; al mattino si raccontavano l'un l'altra i loro sogni di miracolosi ritrovamenti, e speravano si realizzassero come talvolta avveniva dopo che i sogni erano stati confidati a donna Rosa. Quel che sognasse Concetta non lo sapeva nessuno. Poi donna Rosa morì e l'afflusso delle reliquie cessò quasi del tutto; del resto era sopravvenuta una certa sazietà".
Apollonio ha d'altra parte deciso. Come il suo alter ego ha già fatto con don Pietrino, si servirà di donna Rosa come cartina di tornasole. Letture, interpretazioni, saggi critici, rivisitazioni d'ogni sorta che abbiano o abbiano avuto fin qui per tema Il Gattopardo, anche prodotte da penne che passano per straordinariamente acute e informate o da gente che divise i pasti con l'autore e, a sera, gli rimboccò le coperte, saranno tenute da lui per irrilevanti e dilettantesche se insensibili al personaggio di donna Rosa o inadatte a inquadrarlo nell'equilibrio generale dell'opera.

8 luglio 2015

Trucioli di critica linguistica (20): Il nome proprio di Alberto Arbasino

"I due Bianchi, i due Bertolucci, Pea e Carrà [...] Giuseppe De Robertis [...] la bella Rosanna Tofanelli [...] Cesare Garboli [...] Roberto Tassi e Oreste Macrì...".
"Moravia e Morante, i due Guttuso, i due Piovene, Pasolini e Bassani e Garboli e talvolta Gadda".
"Bompiani e Feltrinelli e Garzanti e Scheiwiller [...] Ghiringhelli e Paone e Grassi [...] Ponti, Rogers, Fontana, Morlotti, Gregotti, Baj, Aulenti, Adami, Manzoni [...] da Montale e Quasimodo a Montanelli, Bacchelli, Emanuelli, Anceschi, Soldati, Buzzati, Bo, Testori, Ottieri, Fortini, Tadini, Gramigna, Paci, Musatti, Dal Fabbro...".
"Come con Brandi e Macchia e Praz [...] così ancora con Cecchi e Gadda e Palazzeschi e Comisso".
"Gianna Manzini, Maria Bellonci, Paola Masino, Livia de Stefani, Alba de Céspedes, Elsa de Giorgi".
"Pasolini e Testori [...] Acton, Auden, Connolly, Betjeman, Huxley, Waugh [...] Arpino, Bertolucci, Garboli, Luti, Rossi, Testori, Vasoli [...] Bassani, Pasolini, Citati, Calvino, Sermonti, Siciliano, Campo, Gorlier, Barberi Squarotti, Corti, Forti, Gramigna, Cattaneo, Bortolotto, Manganelli, e vari altri bei nomi".
"Gadda e Contini e Magnani e Bigongiari e Bo e Bassani accanto ai virgulti: Pasolini, Volponi, Testori, Citati, Zolla, Wilcock".
"Pagliarani, Sanguineti, Eco, Manganelli, Barilli, Giuliani, Guglielmi, Curi, Colombo, il sottoscritto".
"Scherchen, Klemperer, Celibidache, Gieseking, Menuhin, Markevitch, Hindemith, Busch, Backhaus, Van Kempen, Příhoda, Francescatti, Magaloff...".
"Malipiero e Milhaud, Celibidache e René Clair, Lionello Venturi e Palma Bucarelli e Valentina Cortese e Giorgio Vigolo e Mariano Stabile...".
"Gieseking, Cortot, Kempff, Haskil, Backhaus, Milstein, Fischer, Benedetti Michelangeli, nonché Bruno Walter".
"Non mancava Piero Manzoni [...]. Né Mario Dondero, Né Carlo Bavagnoli".
"Mino Maccari, Giovanni Comisso, Henry Furst [...] Giovanni Urbani, 'Duddù' La Capria, Giulia Massari, Sandro Viola...".
"Tavolate con la Callas, Marlene Dietrich, Elsa Morante, la Mangano, la Bosé, la Girardot, la Cardinale".
"Che divertimento intellettuale vero, con Marcel Raymond... Jean-Pierre Richard... Georges Poulet... Jean Rousset... Jean Starobinski [...] Roland Barthes".
"La saga dei Gioele Solari, Santorre Debenedetti, Ruffini, Jannaccone, Benvenuto Terracini. La costellazione dei loro successori Bobbio, Abbagnano, Passerin d'Entrèves, Mila...".
"E dunque Pino Pascali, Giosetta Fioroni, Mario Schifano, Mario Ceroli, Franco Angeli - nonché Pietrino Bianchi e Ugo Mulas e Piero Manzoni e Mario Dondero e Franco Berutti".
Questi elenchi sono tratti dal primo quinto del recente Ritratti italiani di Alberto Arbasino. Non sono tutti quelli che, sotto varie forme, ricorrono nel centinaio di pagine e si limitano a esemplificare solo il caso degli antroponimi. 
Agli antroponimi è del resto dedicato unicamente l'"Indice dei nomi" che chiude il volume, impegnandone quasi trenta pagine. Vi si fossero aggiunti altri tipi di nomi propri, come, per menzionare classi ben rappresentate nel libro, i toponimi, i nomi di istituzioni culturali (teatri, musei e così via), i nomi di locali pubblici, i nomi di opere dell'ingegno, i nomi di eventi, l'"Indice", oltre che ancora più imponente, ne sarebbe venuto più aderente alla natura dell'opera che correda. 
Dal punto di vista linguistico, il nome proprio è così il tratto caratterizzante del libro di Arbasino, per giunta, come si vede, spesso sotto l'impressionante forma testuale dell'elenco. La lista non argomenta, non spiega, non attribuisce ruoli semantici e sintattici. Proferisce il nome per sé. Enuncia l'esistenza di ciò cui dà nome. Ne fonda il valore assoluto in modo paradigmatico. 
Che il nome proprio caratterizzi lo scritto di Arbasino dal punto di vista linguistico, non tanto nella sua organizzazione macroscopica (si tratta infatti di una serie di ritratti di importanti personalità nazionali), quanto nel suo tessuto espressivo e nella sua costruzione sintattica, vuol del resto dire che le funzioni che la categoria del nome proprio riveste marcano tale scritto concettualmente e stilisticamente. Vuol dire insomma che, se non si ha un'idea di cosa sistemicamente è il nome proprio, intendere cosa sia e cosa valga l'opera è difficile. Ogni giudizio resta infatti esteriore. Donde una qualche utilità di modesti indirizzi di critica linguistica. 
C'è anzitutto da chiarire che il nome proprio, malgrado l'etichetta categoriale, non è funzionalmente un nome. È una sorta di aggettivo: la riduzione di una predicazione attributiva, di carattere metalinguistico, che dice più o meno "quello (o quella) chiamato (o chiamata) Gianni Agnelli (o Anna Banti)". Lo dice con la concisione tipica dell'espressione umana, donde i brevi e sommari Gianni Agnelli, Anna Banti; o Gianni, Maria, Mimì. L'espressione si perita giustamente di mettere a nudo tutti i fili che tesse, sull'opportuno fondamento che agli esseri umani, che tanto si vantano della loro intelligenza, sia sufficiente il poco.
Per dirla grossolanamente, allora, il nome proprio non è sostanza. È accidente. Una prosa con molti nomi propri parrebbe dunque una prosa non di sostanza ma di accidenti. Come tutti gli accidenti, il nome proprio funge del resto alla perfezione da luogo comune, in ogni testo che lo contiene e in ogni società (o sua parcella) che se ne serve. 
Per rendersene conto, basta cogliere la facile differenza di valore di due espressioni come Dudù (attenzione! non Duddùha fatto popò sul tappeto e Un cane ha fatto popò sul tappeto. Il nome proprio parla a chi sa, per chi non sa, tace. Forse in maniera diversa (ma c'è da chiederselo) da come fa il prologo dell'Agamennone di Eschilo, dal momento che una parola oscura non può fare a meno di alludere al mistero (minaccioso?) di quell'oscurità. E, fuori del cerchio degli iniziati al suo uso, il nome proprio, oscuro, lo è senza dubbio. 
Un cane è democratico: chi parla italiano, capisce di cosa si parla. Dudù (o Duddù, qui proprio non importa) fa subito differenze. C'è chi sa e chi non sa chi sia. Una prosa che fa largo uso di nomi propri pare dunque una prosa che si atteggia come esclusiva e che si fonda sull'idea che la popò di un cane e quella di Dudù (o di Duddù) non sono, proprio grazie all'uso del nome proprio, le medesime. Con il corollario che della seconda vale la pena di interessarsi, meno appunto della prima. E non c'è dubbio che sia proprio così: non tutte le popò sono eguali.
Del resto, Don Tanu mi ha detto di non avere gradito... ha valori espressivi e comunicativi molto diversi da Un anziano signore mi ha detto di non avere gradito... anche per chi, anzi soprattutto per chi, magari proprio non sa chi sia il misterioso evocato e viene così sollecitato a informarsene, per adeguare opportunamente i suoi luoghi comuni a quelli della società di cui mira forse a fare parte e nella quale può anche capitare che l'amico del menzionato Don Tanu voglia tenerlo sottomesso.  
Per ragioni di chiarezza sperimentale (e di luogo comune), l'esempio è connotato socio- e topologicamente: ma basta avere frequentato qualsiasi consorzio umano minimamente strutturato per ricondurlo alle dimensioni domestiche di chiunque lo legga. 
Il nome proprio ha quindi molto da spartire con il potere, vero o millantato, e gli elenchi di nomi propri sono panoplie, in modo allusivo e non troppo mascherato. Sono cataloghi di armi e di forze, come lo era peraltro, anche letterariamente, il catalogo delle navi di omerica memoria: lì, armi anche per la costruzione del testo. 
Per altri versi e allontanandosi da quel modello, tanti nomi propri nell'espressione di qualcuno sono così esibizione di potere se non di potenza. Non fosse altro, della potenza che dà il possesso di tali nomi, che solo a farli, ci si dà tanta importanza. Nomi propri, stavolta, nel senso di fatti propri, nella parola. Una prosa che ne fa largo uso autorizza il sospetto d'essere esibizionista. Si badi bene, nel senso proprio che ne esibisce il possesso e col possesso del nome allude, esibizionisticamente, a quello della cosa nominata.
Ecco adempiuto, si spera utilmente anche per i due lettori di questo diario, il compito meramente servile del frustolo, in vista di una valutazione non esteriore della scrittura di Alberto Arbasino. Ovviamente, da parte di chi se ne intende.

1 luglio 2015

Linguistica candida (28): Il grammatico e il linguista

Ridotta all'osso, come si è costituita nel Moderno, la differenza tra il grammatico e il linguista è di disarmante semplicità. 
Quanto alla lingua, il primo ha risposte. Il secondo, domande. Il primo sentenzia, il secondo ipotizza.
Oggi, anche riguardo alle faccende più futili, come sono le linguistiche, l'epoca vuole risposte e sentenze. Delle domande e delle ipotesi, ha paura. E ha fastidio per tutti i pensieri che la interrogano. Succede sempre così quando la temperie volge, umanamente, al peggio. 
E la temperie volge al futile peggio, quanto alla lingua, anche perché, sotto la maschera sociale del linguista, circola chi, montando in cattedra, pretende di avere e di dare risposte, ed è quindi un grammatico.