20 dicembre 2016

Bolle d'alea (22): Dürrenmatt

"Non è mai lecito smettere di figurarsi il mondo come fosse il più ragionevole".

È un concetto di Friedrich Dürrenmatt (le sue parole: "Man darf nie aufhören, sich die Welt vorzustellen, wie sie am vernünftigsten wäre"). Con esso, Apollonio indirizza quest'anno il suo augurio a chi ne frequenta il diario benevolmente.
Una regola per l'immaginazione: è bello averla e condividerla, anche se è un po' amara. Qui si prova a praticarla, come si può e con un sorriso.

17 dicembre 2016

Scienziati e sacerdoti


Forse perché di gente che gioca a fare Dio, come i sacerdoti, ce n'è sempre già stata a sufficienza. Non dicevano così gli scienziati? O si è stati sciocchi a prenderli in parola e ciò che volevano era infine solo sostituire i sacerdoti in quel gioco?

14 dicembre 2016

Numeri (8): ...e generi


"Ogne scarrafone è belle a mamma soja", dice il motto napoletano. A credere ai numeri che mettono in evidenza le reti sociali, i generi presenti nell'adagio (se fosse possibile) andrebbero invertiti. 
Nelle reti sociali, infatti, sono assenti o quasi assenti le mamme che magnificano le doti dei loro pupi. Le pupe, invece, per i loro papà sono oltremodo geniali. Si tratti d'arte o di parola o d'arte della parola, esprimono se stesse in modo di norma memorabile. Di lì, in quadretti famigliari ad alto tasso di complicità, foto dimostrative e citazioni fulminanti. 
Tutte Atene nate da teste di Zeus, per dire così.
Se l'impressione è affidabile, se ne possono allora trarre due conclusioni paradossalmente concordanti, quanto alla prospettiva di genere. 
Primo, il numero di bimbe prodigiosamente intelligenti, almeno al momento, supera, e di gran lunga, quello dei bimbi intelligenti.
Secondo, il numero di papà irreparabilmente cretini supera, sempre al momento e ancora una volta di gran lunga, quello delle mamme cretine.
Sul medio periodo e probabilmente anche sul lungo, la combinazione dice ineluttabilmente segnato, quanto alle doti dell'intelletto, il futuro dei generi. 

12 dicembre 2016

Cronache dal demo di Colono (50): Il mestiere di Bob Dylan

"But, like Shakespeare, I too am often occupied with the pursuit of my creative endeavors and dealing with all aspects of life's mundane matters. «Who are the best musicians for these songs?» «Am I recording in the right studio?» «Is this song in the right key?» Some things never change, even in 400 years. 
Not once have I ever had the time to ask myself, «Are my songs literature?
So, I do thank the Swedish Academy, both for taking the time to consider that very question, and, ultimately, for providing such a wonderful answer».
Uno splendido explicit, di verità ironica e irridente, per il Banquet Speech inviato da Bob Dylan in occasione della cerimonia di consegna del Premio Nobel. 
Ironico riflessivamente, con la sbardellata menzione del Bardo, e irridente, per la medesima ragione, non tanto nei confronti del pur paludato contesto, quanto in faccia all'uragano di chiacchiere che l'assegnazione del premio ha suscitato tra i letterati e i critici. 
E poi vero con il richiamo al mestiere e alle cose che non cambiano: le corvées di un mestiere e di chi un mestiere ce l'ha, profondamente radicato nel suo animo e inscritto nella sua vita. 
Cose autentiche, faccende pratiche. Sarebbe piaciuto a Primo Levi, il richiamo al mestiere. E gli sarebbe piaciuta oltremodo quella chiusura personale, d'ora in avanti memorabile: "Non ho mai avuto il tempo di chiedermi se ciò che ho scritto fosse letteratura".

Linguistica candida (41): Benessere e self help

Doveva succedere, prima o poi, ovvero The Medium is the Massage:







5 dicembre 2016

Cronache dal demo di Colono (49): L'Italia, un intero fatto di minoranze


La maggioranza degli Italiani, anzi, a essere precisi, la totalità degli Italiani è fatta di minoranze.
E tutte le minoranze italiane sono da sempre piuttosto soddisfatte, se non proprio felici d'essere tali.
È un dato antropologico di lunga durata, di cui il dato linguistico, come già Dante sapeva, costituisce la prova migliore. 
Oggi, nella placida Citera interiore di Apollonio, ne giunge una conferma approssimativa (come sono sempre quelle perturbate dalla vita pubblica, di norma molto fastidiosa, nelle sue manifestazioni). 
Sopra il dato linguistico e antropologico varrebbe ancora la pena di riflettere. Sembra però che non ce ne sia più il tempo, perché il mondo banale, quello in cui ci sono minoranze e maggioranze semplicemente distinte, si è messo in modo da non tollerare le eccezioni. 
E, sia detto senza compiacimento, ma come un lamento trattenuto, l'Italia è un'eccezione da qualche millennio. Quindi non solo è un'eccezione la sfoglia sottile dell'Italia politica (un'eccezione sin dal principio molto mal concepita), ma lo è anche e soprattutto l'Italia come l'hanno fatta (Italiani inclusi) storia e geografia, con un lavorio appunto millenario. 
Di tale eccezione italiana, quando è d'umore dubbio, Apollonio pensa che saranno gli storici ormai ad occuparsi, almeno quelli con interessi per culture scomparse (e per essi prova a provvedere le piccole testimonianze che sa e può, perché non prendano fischi per fiaschi). 
Quando è di buon umore, invece, pensa, sorridendo, che un mondo che non tollera le eccezioni è talmente cretino, come mondo, da non avere speranze di un qualsiasi futuro, malgrado ne millanti di magnifici e progressivi. E che quindi a un mondo cretino del genere mancherà il tempo di cancellarle, le eccezioni, che in maggioranza sono anch'esse cretine, ma hanno il pregio di non esserlo proprio tutte. Insomma, che, come sempre, un'eccezione ci salverà. 
Così andasse, la dolce sofferenza che gli Italiani provano nell'essere ciò che sono, il loro vizio assurdo d'essere, in maggioranza o, forse meglio, nella loro totalità, italiani di minoranza, continuerà a deliziarli in molti futuri presenti.

3 dicembre 2016

Scuola e società, ma solo per ischerzo e su richiesta di un lettore affezionato

La scuola (dire moderna suonerebbe ridondanza: quella precedente non ha qui pertinenza) aderiva ovviamente alla società utilitaristica che l'aveva espressa, come istituto correlato ma separato. Le forniva infatti un supporto importante alla formazione delle competenze necessarie all'operare dei suoi diversi strati (dai mestieri alle professioni, dai ceti burocratici a quelli dirigenti). Un supporto importante ma non esclusivo. Bimbe e bimbi, adolescenti e giovani, si pensava, avrebbero avuto in seguito il loro tempo per vivere la società e alla loro vita dopo la scuola si riteneva spettasse (come è indubitabile) il resto della loro formazione. Dura formazione. Ed eventualmente contraddittoria. Ma la contraddizione, appunto, era ancora messa nel conto e che la scuola stridesse un po' con il resto della società veniva tenuto come inevitabile.
In quella società, la scuola era insomma una sorta di "epochè", con la correlata sospensione del tempo (sospensione pedagogicamente adatta alle età umane coinvolte). Si trattava, ovviamente, di un'ideologia. Ma c'è istituto che non sia retto da un'ideologia? L'esistenza della scuola era pertanto considerata un valore in se stessa. La scuola era sì utile, ma era esempio lampante di quella eterogenesi dei fini che un pensiero maturo correla sempre all'attività umana. 
In essenza, la scuola era posta, appunto ideologicamente, al di là del criterio di utilità. Pur imponendosi largamente in quella società, questo lasciava ancora spazio a disomogeneità, almeno di pensiero. La scuola viveva in questo spazio di parziale disomogeneità. Operava nell'area del progresso generale dell'umanità, così si credeva o si faceva sembiante di credere, e la faccenda era regolata. Anche l'animo del capitalista più rapace era sedato, in proposito, magari dalla prospettiva di un'utilità differita.
In tutto ciò, c'era naturalmente quel fondo di ipocrisia che fu tratto tipico della borghesia tanto montante quanto montata in sella, quando pensò che bastasse demistificare la rappresentazione che reggeva l'antico regime per accedere a un universo di fatti autentici. La paideia che veniva praticata nella sua scuola valeva tuttavia ancora in parte come rappresentazione e ciò, di nuovo, la faceva un po' discosta dalla società, mondo dei crudi fatti e delle utilità. Con il suo essere una parentesi, la scuola riusciva allora a prospettare valori eventualmente disomogenei (dire alternativi, sarebbe troppo) a quelli della società che l'aveva generata e la nutriva, come monito e sottile contraddizione.
Fosse consapevolezza dei limiti di tali valori e quindi del fatto che essi non esaurissero l'umano, fosse al contrario segno che li si teneva come abbastanza forti da sopportare che altri ne circolassero (pur in limiti temporali ristretti ma decisivi, come quelli dell'infanzia, dell'adolescenza, della giovinezza), fatto sta che alla scuola (come del resto a non pochi altri istituti sociali) non si chiedevano rendiconti estranei alla sua separatezza, in un regime di relativa autonomia. Tutto ciò, sempre più stancamente, fino verso la fine del Secolo breve, quando la contraddizione tra scuola e società, divenuta un po' troppo stridente nell'Occidente capitalista, produsse un'esplosione effimera ed essa stessa contraddittoria. Fu il cosiddetto Sessantotto, con i suoi cascami, in maggioranza deteriori (ancora un esempio di eterogenesi dei fini, in senso opposto a quello precedentemente menzionato).
In Italia, si parla tanto, in questi ultimi tempi, del liceo classico e della sua sorte. Esso fu a lungo esemplare del quadro pedagogico e ideologico che si è appena tratteggiato (né stupisce se si pensa a chi ne tracciò le linee educative). Non ne era il solo esempio, tuttavia. Un po' di liceo c'era infatti in scuole di ogni ordine e grado, dalle elementari all'università e al di là delle caratterizzazioni anche specificamente professionali delle didattiche che vi venivano praticate. C'era tutte le volte che di un impegno di studio non ci si chiedeva appunto a cosa servisse, se fosse utile o inutile, ma lo si prospettava come iscritto in un sistema diverso da quello dettato dall'utilità, secondo il principio appunto che l'umano (anche l'umano applicato alle tecniche, senza escludere le filologiche) trascende l'utile. 
Del resto, per venire al caso specifico del greco e del latino, indurre conoscenze filologicamente fondate di un passato, peraltro remoto o remotissimo, non era forse un modo per relativizzare il presente e le sue utilità, qualsiasi presente sociale e ogni idea correlata di utilità, e per porre ogni cosa sul metro di ponderate  e sagge valutazioni millenarie? Per i commentatori più pensosi, latino e greco sono invece ridotti ad "asticelle". Con altri contenuti didattici (ma didattici, a questo punto?), "asticelle" da innalzare (ma se ne è appunto all'altezza?) per essere sicuri che gli stupidi da inserire nei cicli di riproduzione ideologica e di produzione materiale siano i più bravi a saltare a comando, come bestie da circo.
Ora dica ad Apollonio, affezionato Lettore che gli ha chiesto d'essere meno implicito in proposito, se l'odierna società Le pare adatta a tollerare un'attitudine diversa da questa, dalla scuola cui peraltro lesina i mezzi. Dica se il becero utilitarismo sociale che impera (venduto talvolta come divertimento, anzi, in questa fase, soprattutto come divertimento) Le pare compatibile con disomogeneità e contraddizioni. Dica se, dietro i vacui moraleggiamenti con cui si stordiscono gli sciocchi e gli sciocchi si stordiscono, è oggi possibile concepire (anche ipocritamente) l'esistenza di una scuola che trascenda il criterio di utilità e di un'utilità immediata e si incardini in quello di umanità. "Spendibile" è l'attributo che ormai si correla d'elezione alla formazione scolastica, cui si chiede appunto d'essere "spendibile".
Una società che subordina la scuola all'utilità, che chiede alla sua scuola di dimostrare di essere utile perché, diversamente, non può permettersela, è però perlomeno onesta. Dice le cose come stanno, di se stessa e della sua scuola. Se una scuola diversa, modicamente diversa da se stessa, una società del genere non può permettersela, vuol dire che semplicemente non la merita. E una scuola umana, come la voleva Wilhelm von Humboldt, una scuola non da "caporali", produttrice di bestie ammaestrate, creda ad Apollonio, non è la sola promessa che il Moderno nascente fece a se stesso e che, al di là di molte cattive o cattivissime riuscite, il Moderno putrefatto dice o dimostra di non potersi permettere, neppure come promesse. La sola domanda che sa fare, in proposito, e che delimita il suo orizzonte miserabile è infatti "A cosa serve?". Passando da tale porta, si spinge persino a dire, per voce di suoi esponenti molto illuminati, che ci sono, utili per questo, anche belle cose inutili. Non la sfiora nemmeno il pensiero però ci sia qualcosa in funzione della quale la stessa opposizione tra utile e inutile possa non essere pertinente.
La società che ci sta capitando di vivere è del resto solo una società di poveracci e di servi, servi e poveracci di gran successo inclusi. 
Si continuerà a chiamarla come si vuole, la scuola utile di questa società di servi e di poveracci, anche liceo classico, ma la si è già completamente perduta. I nomi restano (Apollonio altre volte l'ha osservato) a designare, nel mondo, cose diverse.

2 dicembre 2016

Vocabol'aria (18): "Post-truth"

Propalata di continuo in modo malandrino e quasi universalmente accolta senza il minimo vaglio critico, se fosse già post-verità la credenza non solo che la verità esista (cosa di cui è invece lecito dubitare) ma che, come verità indiscutibile, stia lì, unica e fresca, pronta a essere colta, facile e a portata di mano? 
Con logico candore, che la balla per eccellenza sia proprio questa lo rivela il nome stesso, post-truth, che si è dato al fenomeno. Basta che si osservi tale designazione controluce, per vederne la trama. Se non si fosse avuta la faccia tosta di spacciare qualcosa come verità, se non si fossero assuefatti i clienti a tale credenza, con dosi sempre più massicce di verità acquisite, il post non sarebbe mai venuto. Tutti si sarebbe ancora alla ricerca. E fanno sorridere i commenti pelosi e interessati che alla questione vanno adesso dedicando non pochi tradizionali confezionatori professionisti di tale post-verità. 
Nuovi venditori prosperano oggi nel mercato in cui si vende la verità, cioè nel luogo materiale e morale in cui della verità si è fatto e si fa mercato. Accusano i vecchi venditori d'essere truffaldini e i vecchi ricambiano l'accusa. Palesemente, i nuovi sono dei contaballe e degli scalzacani. Per paradosso, sono più autentici, come falsi. 
L'ormai molto usurato doppiopetto, il camice bianco piuttosto bisunto coprono male l'ipocrisia dei vecchi, ammesso l'abbiano mai fatto. E appunto non c'è più monopolio nell'uso dell'avverbio "oggettivamente" o di espressioni equivalenti ("lo dicono i fatti", "lo dimostrano i numeri", "il dato è inequivocabile", "serve per...", "bisogna senza ombra di dubbio...", "misure inderogabili" e così via). 
Della spudorata post-verità della verità, questa panoplia lessico-sintattica fu un dì spia e consacrazione, al tempo stesso. Continua a esserlo ancora adesso, solo che è abusivamente impugnata e maneggiata dal primo che passa, con scandalo di chi ne deteneva l'uso né si peritava di farne abuso. 
D'altra parte, distrutto, con la scusa che bisognasse modernizzarsi, l'arcaico bisogno di verità, che non si vuole certo dire fosse commendevole ma, fuori di certi àmbiti, era almeno contenuto, uno nuovo ne fu creato, qualche secolo fa. Tanto immane quanto vano, come bisogno, e di verità quasi sempre più che vane. 
Se non fosse stato creato tale bisogno e se alla creazione non avessero provveduto l'inganno da un lato, la dabbenaggine, dall'altro, chi si darebbe oggi pena di disporre sul tappeto le proprie mercanzie da quattro soldi nella piazza della sedicente (in)formazione?
La post-verità non è altro che la verità, tutta la verità del Moderno che, maturando, è giunta al suo stato di putrefazione. Non da oggi, però. Da gran tempo, anche se da oggi i tartufi, non essendo più i soli a produrla, fanno sembiante di accorgersene e ne menano scandalo.