25 giugno 2009

Piana. O piatta?

"Ho scritto un libro. Quel che un amico mi rimprovera, con dolcezza e anche simpatia, è che il dettato sia chiaro. Si capisce tutto. «Non devi aver faticato molto» mi dice con indulgenza. Rispondo che, al contrario, ho faticato moltissimo, che ho scritto e riscritto pagine infinite volte, poiché se avessi dato ascolto alla mia natura tutto sarebbe rimasto nel vago e nell’oscuro. «Non ami gli esperimenti» insiste l’altro. «No,» dico «l’operazione sperimentale, ogni italiano, colto o no, la compie sempre naturalmente, ‘parlando’». Non è un mistero che noi, oltre all’accento del dialetto natìo, mai abbandonato, siamo propensi ai modi gergali, agli anacoluti, al rovesciamento delle proposizioni, a creare (secondo il senso che vogliamo dare al discorso: placido, sentenzioso, indignato, perentorio, eccetera) una sintassi particolare. È ciò che fa il sale delle nostre conversazioni, dove spesso cinque o sei persone parlano tutte assieme e «si capiscono». Raramente terminiamo una frase stimando a un certo punto che il resto sia superfluo. Parliamo da impressionisti, sempre esagerando per farci capire meglio, sempre rinculando per saltare meglio l’ostacolo logico, aiutandoci con tutto fuorché con la sintassi."
Sono parole di Ennio Flaiano: del 1970. E sono gustose, come un'acquavite che invecchia bene: ma invecchia e ci dice di tempi dell'italiano e dell'espressione italiana che, a loro modo, sono mutati. Chissà come reagirebbe oggi Flaiano ai Camilleri e ai Baricchi, accorgendosi che, anche a proposito di modi gergali e di sintassi particolare, viene sempre un momento in cui la realtà supera la fantasia del satiro, soprattutto se solitario. E che ci si può pascere, contemporaneamente, di modi gergali, di illogicità compositive e di una sintassi che, col pretesto di diventare piana, ha finito per essere piatta.

23 giugno 2009

Bolle d'alea (7): Benveniste, Bolelli


"Ceux qui découvrent dans d'autres domaines l'importance du langage verront ainsi comment un linguiste aborde quelques-unes des questions qu'ils sont amenés à se poser et ils apercevront peut-être que la configuration du langage détermine tous les systèmes sémiotiques. À ceux-là certaines pages pourront sembler difficiles. Qu'ils se convainquent que le langage est bien un objet difficile et que l'analyse du donné linguistique se fait par des voies ardues". Émile Benveniste apriva così nel 1966 i suoi Problèmes de linguistique générale.
Dodici anni dopo, commemorando tra i Lincei lo studioso francese, Tristano Bolelli ricordava questo passaggio e aggiungeva una nota personale: "Più tardi [Benveniste] dichiarò ad un gruppo di suoi attenti ascoltatori: «La linguistica diventa sempre più difficile»".
Le parole di Benveniste sono un'orgogliosa rivendicazione (in quei frangenti, possibile; oggi, naturalmente, molto meno). La difficoltà, dice Benveniste, esalta l'oggetto di studio e la ricerca. C'è da chiedersi se quelle che gli attribuisce l'attento ascoltatore e se la stessa attribuzione siano sulla medesima vena o se non siano un'insinuante interpretazione à rebours. C'è da chiedersi insomma se il difficile di Benveniste par lui-même e quello del Benveniste di Bolelli abbiano lo stesso valore, dietro il fatto (si direbbe linguisticamente banale) che la parola è la medesima. Qual è il sistema però o, forse meglio, qual è il contesto intellettuale in cui è inserita?
Il problema linguistico che qui si pone sarà difficile nel senso di Benveniste o in quello, ragionevolmente diverso, di Bolelli?

22 giugno 2009

Sprachwissenschaftler


Sprachwissenschaftler: per essere conseguente coi luoghi, interrogato a proposito di se medesimo, così disse un giorno Apollonio, da autentico pivello, a un più maturo e sorridente studioso di storia. Benevolmente didattico, nei tre mesi in cui lo frequentò, costui usò poi la sua ingenua autodefinizione per prenderlo in giro: Apollonio gliene è ancora grato.
Andò poi così, tuttavia, almeno socialmente: e certo c'è del comico in tutto ciò. A sua discolpa Apollonio può solo invocare, confessandola qui, una sua antica convinzione.
Ammirevole, c'è chi è linguista, si sente ed è socialmente reputato tale perché trasmette al mondo l'interiore convinzione che caratterizza l'esperto: la capacità, se opportunamente interrogato (anche da se medesimo), di dare la risposta giusta. Beh! Se non proprio la giusta (che sarebbe dogmatica arroganza) diciamo quella più vicina alla giusta, compatibilmente con lo stato delle conoscenze, rappresentato dalla sua erudizione e dalle biblioteche cui riesce ad avere accesso.
Sin dal dì di quel comico Sprachwissenschaftler, Apollonio sapeva però di non essere destinato a tanto: osava dirsi linguista per la bizzarra opinione (che ha conservato) che è tale chi su lingue e linguaggio si fa di continuo domande e il più delle volte (pretendere sempre sarebbe immodesto) non trova risposte.

14 giugno 2009

La Commedia e un'odissea: antonomasie

Un viaggiatore (che presumibilmente gode di un titolo di viaggio di favore, per via dell'appartenenza a una corporazione) in treno, da Brescia a Milano, con grande ritardo e qualche scomodità. Contributo alla mitridatizzazione dell'espressione linguistica italiana, il giorno dopo scrive sul suo giornale che il suo trasferimento da casa al lavoro (o viceversa) è stato "un'odissea".
È un fatto di lingua e sono fatti di lingua (lo si sa) quelli di cui si diletta questo blog, dove non ci s'indigna e non si stigmatizza. Si sorride, al massimo, perché ci sono poche cose che fan sorridere più dei fatti linguistici (e forse nessuna: ma non val la pena d'essere assoluti in proposito, per non diventare ridicoli). E dove, soprattutto, quando sembra si parli d'altro, è solo per farne pretesto di un rinnovato incontro galante con la musa di Saussure, perché nulla è più divertente di corteggiarla, di tanto in tanto, in modo obliquo.
Se dunque i due lettori di Apollonio chiedessero a un filologo come mai quel viaggiatore s'esprime come fa (muovendoli al sorriso col collasso concettuale di una peripezia decennale ridotta a designare la meschinità oraria che designa), si sentirebbero rispondere che lo fa per via d'antonomasia.
Il nome comune odissea, per dire "viaggio pieno di incomodi e di contrattempi", passa infatti (e giustamente) per un'antonomasia, allo stesso titolo con cui passano per antonomasie un mecenate, un ercole, una messalina e così via.
Sono nomi divenuti comuni a partire dalla qualità di propri. Ed è naturalmente un nome proprio il modo con cui si designa un'opera dell'ingegno, come l'Odissea, sia o non sia tale modo quello decretato come titolo dal suo eventuale autore.
La risorsa, lo si capisce, è preziosa. Alla bisogna, serve a far crescere la dotazione dei nomi comuni di una lingua. La mole dei dizionari parrebbe dire che sono già tanti. Ma, si sa, non sono mai abbastanza, per le esigenze dell'espressione umana, soprattutto per quelle che si pretendono "intelligenti", avrebbe detto Musil: e non è piena di "intelligenza" la prima pagina di un giornale?
E poi immaginino i due lettori la soddisfazione che procura il dire, mettiamo, "Presepe o non presepe, non facciamo per favore di queste feste un nataleincasacupiello", "La vita familiare di quella poveraccia fu un livido seipersonaggincercadautore" o, più piccante, "Ferrando ama Dorabella? Si prepari a vivere un delizioso cosìfantutte".
L'aspetto di gustosa bizzarria della questione su cui Apollonio vuole richiamare l'attenzione non consiste tuttavia nel cogliere, dietro la stantia corrività di antonomasie come un'odissea, il fresco straniamento del nuovo conio antonomastico.
Consiste invece nel fatto che, se di nuovo si interrogasse lo stesso filologo a proposito di la (Divina) Commedia, chiedendogli ragione di questo nome con cui si designa il poema dantesco da molti secoli (ma senza che l'autore si sia mai pronunciato in proposito), ci si sentirebbe ancora una volta rispondere che lo si fa per via d'antonomasia.
È un'antonomasia infatti quel nome comune, come appunto una commedia, che prende le proprietà designative del nome proprio: la Commedia (per antonomasia). E, per passare da un'opera dell'ingegno a un essere umano, è un'antonomasia, per es. , il Cavaliere: il modo con cui (alternandolo col nome proprio) la stampa oggi designa il Presidente del Consiglio dei ministri italiano: da un cavaliere a il Cavaliere (per antonomasia).
Il circuito dell'antonomasia, l'ha chiamato allora Apollonio, in un lavoretto comparso tempo fa, sotto il nome (vero o falso?) con cui egli circola per il mondo.
Col determinante favore della sintassi (lo testimonia la presenza di alternanti articoli), un circuito di nomi propri che diventano comuni (l'Odissea che diventa un'odissea) e di nomi comuni che diventano propri (una commedia che diventa la Commedia). Un circuito, i cui percorsi conversi la scienza del linguaggio designa con lo stesso termine: l'uno e l'altro, antonomasie.
Una terminologia da incoscienti, parrebbe di dovere dire, e senza cura per gli incidenti che procura la contraddizione, che è mortale per chi non sa capirla, feconda altrimenti. Perché nulla ha più potere rivelatore di un'incoscienza e d'una contraddizione terminologica. Apollonio ha il sospetto infatti (e qui lo ribadisce) che la ragione di un termine unico ci sia.
Le converse antonomasie sono infatti e semplicemente le due corsie dell'unica strada su cui, con moto perpetuo, la lingua spedisce i suoi nomi propri verso il destino di comuni e i suoi nomi comuni verso il destino di propri: un'incessante trasformazione di un punto di partenza in punto di arrivo e di un punto di arrivo in punto di partenza. Nel moto e nel processo, crea così (e da sempre) tutti i nomi, propri e comuni, che mette poi in bocca a quell'essere vivente "intelligente" che, senza capirla, la parla.

13 giugno 2009

Lingua loro (13): "odissea"

...ovvero "Torino, Vercelli o addirittura Zurigo".
"Mettete che ci foste anche voi, ieri mattina, sul treno assieme a noi, arrivati a Milano tre ore dopo il previsto (e per fortuna abbiamo perso solo la pazienza e non anche le coincidenze, come è toccato a molti nostri compagni di sventura diretti a Torino, Vercelli o addirittura Zurigo)..."
Il brano è tratto dall'articolo Guasti e 3 ore di ritardo. Odissea sull'Eurostar di Luca Angelini, comparso nell'edizione del Corriere della Sera.it, on-line il 13 giugno 2009. Esso illustra (e meglio non si potrebbe) come tutto sia relativo, lo spazio non meno del tempo, e come sia quindi relativo il concetto di odissea, che discende appunto da un'operina adespota (e solo attribuita) in cui, come è noto, spazio e tempo fecero il loro modesto debutto sulla scena della cultura occidentale.
La vaga Citera di Apollonio, come una deliziosa e leggera île flottante, si è ancorata addirittura a quella città lestrigonia: egli viaggia sovente e sopporta cretinamente (cioè cristianamente, a credere all'etimologia) ritardi italiani e svizzeri (non si creda che non ci siano) e loro conseguenze sulle corrispondenze. Si sente quindi autorizzato a definirsi un ulisside (e non lo sapeva).
Gestisse una società aerea, navale o ferroviaria, chiederebbe però un sovrapprezzo ai viaggiatori che si rivelassero gazzettieri (invece di offrire loro sconti e biglietti gratuiti), come tassa preventiva, in caso di odissea, sulla confezione firmata (e per altri versi, s'immagina, remunerata) delle conseguenti immancabili omeriche sciocchezze (à suivre).

10 giugno 2009

Mehr Platz für die Grössten

Anno accademico

Un'università, una scuola coerenti con la società che le esprime: è ovvio che così sia e sia sempre stato (il sempre relativo delle transeunti istituzioni umane). Da quando esistono, l'università e la scuola realizzano però tale coerenza stando di traverso rispetto all'andazzo della società che le esprime. Più che petizioni di principio ideologiche lo dimostrano aspetti che non si possono chiamare dettagli senza rischiare di far loro torto. Dettagli non sono infatti e sono al massimo tra i fatti imponenti sotto il cui cielo le società vivono senza nemmeno rendersene conto.
Gli storici delle istituzioni e della cultura preciseranno con dottrina le ragioni della bizzarria di un anno accademico, di un anno scolastico che stanno di traverso all'anno civile e ne cavalcano due: 2008-2009, 2009-2010.
Un tanto importante istituto di un'ormai quasi perenta civiltà ha così da sempre una scansione del proprio tempo pratico e ideale (e della formazione giovanile che ne consegue: o ne conseguiva?) che fa finire adesso il suo passo cominciato in un passato che aveva un altro nome e che farà finire in un futuro con un nome ancora diverso il passo che muoverà sotto il presente nome.
Sono infatti nomi propri i numeri coi quali l'Occidente decise un dì di scandire il suo tempo, illudendosi così di addomesticarlo e di familiarizzarselo, chiamandolo per nome. E i nomi propri del tempo accademico e scolastico stanno sempre tra il nome passato e il nome presente, tra il presente e il futuro: 2008-2009, 2009-2010.
Sono appunto simboli residui di uno stare di traverso dell'università e della scuola rispetto alla società, del loro valutare il proprio presente sempre un po' in funzione del passato e un po' in funzione del futuro. Sono emblemi di una doppiezza, di un'ambiguità del loro rapporto con la società che le esprime e che, oggi, quella società sembra non volere più tollerare: comprensibilmente ma non ragionevolmente per i suoi destini, accecata com'è da un presente in cui s'illude di vedere il modello eterno del proprio futuro.

8 giugno 2009

Plagio

Bastassero indicazioni delle fonti e straripante bibliografia, come se ne trovano in certi libri e in certi documenti che accompagnano presuntuose conferenze, per assicurare che non si stia perpetrando un plagio. 
Gonfiate come uragani dalla stupidità di correnti norme di una procedura scientifica presuntamente corretta, virgolette a catinelle e torrenziali bibliografie sono il tartufesco lavacro di chi ostenta di non far mai un plagio per occultare la semplice verità che egli stesso, e fin nelle midolla, è un replicante e un plagio. 

5 giugno 2009

L'enigma del medium marcio

Gli accenti son quisquilie ortografiche, appunto. Come si dice nel post precedente, che ne faccia strame l'inserto culturale di un quotidiano che (a quanto pare) ha nei docenti d'ogni ordine e grado i suoi lettori d'elezione ha però sapore di maligna ironia. Il medium è certo di averli già completamente intronati e si consente con essi aperti segni di disprezzo, che procurano il perverso piacere del dominio nel corrompimento intellettuale.
Lo stesso quotidiano che mostra di non curarsi degli accenti pubblicava tuttavia in prima pagina, or sono quindici mesi, un accorato pezzo di Pietro Citati in dolente estrema difesa, se non proprio in memoria del punto e virgola: "non uccidete il punto e virgola". 
Evidentemente (si noterà a margine), ci sono firme prestigiose che non leggono i giornali in cui scrivono (o che ne leggono solo la punteggiatura?). E uno dei due lettori di Apollonio (il più malizioso) starà sicuramente pensando: "vorrei vedere! sanno che ci scrivono... E ognuno è anche il posto dove scrive". Ma resti solo a lui la responsabilità di tali impertinenze, rivolte poi a personalità culturali di tanto rilievo.
Resta in ogni caso l'enigma di un medium che in apparenza contraddice se stesso. Come mai ciò si verifica? E cosa significa? 
Certo, fatte le dovute proporzioni e mutatis mutandis, la situazione che si sta presentando non è diversa da quella che ricorre quando lo stesso quotidiano lancia filippiche contro l'attuale Presidente del Consiglio dei ministri italiano e leva geremiadi sullo stato penoso in cui egli avrebbe ridotto la nazione, per poi consentirgli sulle sue stesse pagine di portare ad effetto e compimento qualche non marginale dettaglio dell'opera sua (presentata altrove come nefasta), con gli opportuni inserti pubblicitari a pagamento di imprese e aziende in vario modo a lui riconducibili e coerenti col suo vasto programma culturale. Ma la constatazione è lungi dall'essere una soluzione dell'enigma della manifesta autocontraddizione: al massimo ne amplia la portata.
Per accostarsi a una soluzione, la prima ipotesi che viene in mente ha l'aria casereccia. In una nazione cattolica, si tratterebbe in fondo dell'ennesimo caso del predicar bene e razzolare male, dell'ipocrita attitudine pretesca al "fate ciò che dico; non fate ciò che faccio". E certo c'è qualcosa di vero anche in una simile banalità. La laicità di cui si fa tanto sfoggio oggi in Italia è quasi sempre di facciata. Come modello sociale e culturale, la figura del prete resta insostituibile per capire ancora oggi i comportamenti dei ceti intellettuali italiani, a qualsiasi parrocchia appartengano. 
C'è poi da invocare, come al solito, il "mercato". A guidare scelte tematiche e modi di svilupparle di un medium  è (e giustamente) un criterio di richiamo commerciale. A proposito di quisquilie para-linguistiche, si potrebbe pensare che, in fondo, far piangere Citati in prima pagina sulla punteggiatura si combina perfettamente col lasciare calpestare l'ortografia alla Urbinati nell'inserto culturale. Con l'uno si acchiappa la citrullaggine un po' rétro, snob e in punta di forchetta, con l'altra quella up to date, rilassata e informale. 
Anche combinate, spiegazioni del genere paiono tuttavia ad Apollonio di respiro affannoso. Il corto circuito, nelle stesse pagine, tra un esplicito cantore della punteggiatura perenta e un'implicita spregiatrice dell'ortografia vigente (a parte la differenza di genere) gli fa balenare nella testa altri collegamenti. E ha inoltre la sensazione che tali collegamenti siano svelatori di cose diverse dai caratteri eterni della nazione italiana e dalle regole transeunti del mercato culturale. Gli pare che in essi balugini addirittura una circostanza storica e, con essa, l'essenza medesima degli odierni mezzi di comunicazione di massa. Tanto più perché il lampo di luce viene proprio da quisquilie, da dettagli in apparenza tanto moralmente neutri quanto socialmente irrilevanti. I due lettori di Apollonio si armino allora di pazienza e lo seguano, se amano il brivido che può dare l'accesso al mondo misterioso e inquietante che si spalanca con l'enigmatica contraddizione di una storia in cui si combinano accenti perversi e l'assassinio del punto e virgola. 
Si cominci dalle generali: i mezzi di comunicazione di massa. Nati nella modernità in forme embrionali o ancora acerbe, essi sono oggi oggetti culturali più che maturi. Alcuni sono tanto maturi che Apollonio li vorrebbe definire marci, in pura ipotesi di determinazione sperimentale e senza connotazioni moralistiche di sorta. A suo parere, i mezzi di comunicazione marci sono anzi quelli che caratterizzano la fase che attraversa oggi la civiltà occidentale. Tale fase è appunto una modernità putrefatta, in riferimento alla quale il concetto di post-moderno (qualificazione peraltro essa stessa già marcita) è stato solo un make-up.
Si venga allora alla definizione sperimentale di medium marcio. Un medium marcio è un medium in cui si trova tutto (per es., la critica feroce al modello culturale proposto dall'attuale Presidente del Consiglio dei ministri italiano) e il contrario di tutto (per es., la giuliva pubblicità del modello culturale proposto dall'attuale Presidente del Consiglio dei ministri italiano). 
A questo punto, penseranno i due lettori, Apollonio s'è messo nei guai: sarà costretto a tirare in ballo categorie gigantesche e controverse, la politica, la morale, roba da "intellettuali", da cervelloni, da gente che scrive appunto sui giornali: tutte cose che un modesto compilatore di sintassi come lui non sa nemmeno cosa siano. Miserello, sarà pure costretto a tirarle in ballo in un blog dove, al massimo, si discute di virgole e che ha due lettori. Ma si sbagliano. Apollonio è sì un testone ma conosce i suoi limiti ed è modesto. Per i suoi ragionamenti, per le sue dimostrazioni, il minuscolo dominio del linguistico e quello ancora più piccolo del para-linguistico gli bastano e gli avanzano. Si accomoda davanti al suo microscopio e osserva. E cosa osserva, nel caso specifico? Osserva appunto un caso lampante di ciò che ha appena definito un medium marcio: un medium in cui trova la lode in memoria del punto e virgola e lo scempio dell'ortografia italiana corrente.
Il diavolo e il buon Dio, si dice, stanno nel dettaglio. D'accordo, diranno i due lettori ad Apollonio, a modo tuo e coi limiti che ti conosciamo, mettiamo pure che tu abbia capito. Puoi uscire soddisfatto dal tuo lindo laboratorio e lasciar perdere. Non sanno che, a questo punto, gli balena improvviso per il capo un collegamento. 
E pensa: ho approntato una definizione di medium marcio; l'ho verificata nel modo più neutro che ci sia su accenti e punto e virgola. Ciò facendo, non mi s'è per caso parato chiaro e in corpore vili quale fosse il sogno di Joseph Goebbels? Definito e sperimentato su accenti e punto e virgola, un medium marcio non è forse un'adeguata realizzazione di quel sogno, emblematicamente rappresentato nella formula della rivoluzione conservatrice? 
In fondo, un medium marcio è uno strumento culturale e sociale che ingoia tutto e il contrario di tutto e, dopo averlo ben ruminato e ridotto in poltiglia, lo sputa e lo dà in pasto a una folla ebete e contenta di non dovere fare la fatica di cercare, di percepire, di valutare differenze. 
E nella povera testa di Apollonio, che parrà pure un teorico da strapazzo ma che alla fine vuole solo sapere praticamente con che razza di gente si trova vivendo ad avere a che fare, si verifica il passaggio finale. L'aiuta a farlo l'arte del linguaggio che va sotto il nome di letteratura. Per continuare a pensare, non gli si presentano infatti allo spirito le memorie di dotti saggi di teoria della comunicazione o di storia contemporanea (ammesso che li abbia mai letti). Gli si presenta, semplice e modesta, una sentenziosa definizione della parola tedesca Gesindel, 'gentaglia'.
"Gesindel ist immer auch guter Regungen fähig, denn das eben macht es ja zum Gesindel, dass es zu allem fähig ist": parole di Gertrud von Le Fort. Vogliono dire più o meno quanto segue: la gentaglia è sempre capace anche di buoni sentimenti: perché ciò che la rende appunto gentaglia è proprio l'essere capace di tutto. 
Da quando conosce tali parole, è sempre sembrato ad Apollonio che esse illuminino d'una luce dolente l'insondabile mistero di vicende umane in generale ma, in particolare, di dolentissime vicende storiche novecentesche. 
Col pretesto di un punto e virgola e di un accento, gli pare adesso però che con esse si possa anche passare, quasi per gioco e provocazione, da una farsesca tragedia a una tragica farsa. Gli pare che diano la migliore e la più icastica immagine sociale di cosa sia un medium marcio. E di cosa siano, vogliano o non vogliano,  le persone che lavorano all'esistenza di un medium marcio. Gentaglia, appunto. Gentaglia che certo dice di sé che ciò che fa è in fondo ciò che tutti sognano oggi di fare e che non è affar suo capire cosa veramente fa e sapere se è giusto o sbagliato, se è (culturalmente) morale o immorale. E di nuovo da una tragica farsa a una farsesca tragedia: è appunto quanto dissero a cose fatte molti connazionali di Gertrud von Le Fort quando si chiese loro ragione di loro azioni e inazioni. 
Alla gentaglia che alacremente lavora all'esistenza multipla del medium marcio, sospetta Apollonio, mai nessuno però chiederà ragione. Se del caso, potranno scrivere libri risentiti in cui si impancano a censori morali e fustigano con rigore catoniano quotidiani e televisioni, per poi finirci dentro, a portare così quel loro piccolo contributo alla confusione, all'annebbiamento delle menti che (Apollonio capisce) era alfine la sola cosa che, censurando e fustigando, volevano fare, per la loro medesima sopravvivenza. Confusione e annebbiamento delle menti sono infatti l'habitat ideale in cui prospera la gentaglia.
La modernità putrefatta, pensa Apollonio, è dunque solo il quintessenziale prodotto della modernità matura andata a male. Il medium marcio, ovunque si depositi, è il farsesco liquame che, per decomposizione, viene fuori dal tragico e mostruoso cadavere di Joseph Goebbels.
Conclusione e soluzione dell'enigma del contatto tra la lode del punto e virgola e lo scempio degli accenti. Apollonio sa adesso che non ha da stupirsi se un medium marcio è sempre capace di proporgli anche roba che pare buona ma che venendo da dove viene è sempre avvelenata. Gertrud von Le Fort, che di gentaglia evidentemente se ne intendeva, gliel'ha spiegato für ewig: certo che un medium marcio ne è capace. Come das Gesindel che lavora alla sua esistenza, esso è appunto capace di tutto.

PS. ...è un medium marcio il medium sul quale i due lettori di Apollonio hanno appena finito di leggere del medium marcio? E Apollonio e loro medesimi, cosa sono?

3 giugno 2009

Muta d'accento


Piccola inchiesta volante sullo stato dell'ortografia italiana, sulle cause e sui valori dei possibili mutamenti cui essa sembra andare incontro, sotto la pressione delle dinamiche sociali.  
Data e àmbito d'indagine: 2 giugno 2009, le pagine 34 e 35 di R2Diario di Repubblica, inserto culturale del più venduto (absit iniuria verbis) quotidiano italiano. Il tema che vi è trattato è qui irrilevante: ne parlano tre corposi articoli, uno di Edmondo Berselli, uno di Filippo Ceccarelli, uno di Nadia Urbinati, l'unica a essere presentata, in un riquadro: "insegna Teoria politica alla Columbia University". 
Oggetto e pretesto dell'indagine: l'accento posto sulla terza persona singolare del presente indicativo del verbo essere, senza riguardo alla funzione grammaticale
Numero totale delle ricorrenze nelle due pagine: 32. 
Numero delle è, con accento grave (grafia corretta, secondo la norma): 22. 
Numero delle é, con accento acuto: 10. Tutte nell'articolo della Urbinati e tutte quelle che ricorrono in tale articolo: "si é imposta"; "é la caccia"; "é certo fortissima"; "é più centrata"; "é comunque cruciale"; "é cucita"; "é impossibile"; "é costretto"; "é il candidato"; "é anzi la parte più appetitosa". Nel titolo e nel sommario dello stesso articolo, certo redazionali, due ricorrenze corrette, come le altre delle due pagine: "è la videopolitica" e "si è imposta".
Come la buona educazione, l'ortografia è certo una futile convenzione, che concerne la lingua, però, cioè un istituto di portata almeno bi-nazionale, italiana e svizzera. Essa non è perciò più futile né più convenzionale delle questioni politiche che tanto affannano i commentatori delle cose pubbliche e che si può immaginare la professoressa Urbinati sia adusa trattare anche negli articoli destinati a la Repubblica, certo non con la medesima nonchalance che in essi pare invece riservare all'ortografia. O sì?
Un tempo si sarebbe data infatti la colpa al proto. Oggi, con la rivoluzione tecnologica, si stampa di norma ciò che esce caldo dal computer del suo autore, nelle condizioni (ortografiche) con cui ne esce. Per questa ragione, date le norme della buona educazione, primo, la Repubblica (che pubblica a quanto pare ciò che capita e senza doverosa revisione editoriale) dovrebbe delle scuse all'autrice. Secondo (e non necessariamente in alternativa), l'autrice dovrebbe delle scuse al lettore italiano. 
Come al solito, tuttavia, la questione non è di scuse né di ignoranza (come si potrebbe mai pensarlo?). E il cielo guardi Apollonio dalla stupida attitudine di impancarsi a censore dei comportamenti linguistici di chicchessia. In un libro pubblicato anni or sono sotto il nome con cui circola pel mondo, un un' maschile occhieggia maligno e ancora, di tanto in tanto, non lo lascia dormire e, se una cortese amica non fosse intervenuta a trattenerlo sull'orlo del precipizio, un rivelatore lapsus dello stesso tipo sarebbe addirittura comparso in questo medesimo post.  
Se qualcosa accade, però, c'è ragione che accada e non c'è ragione (ortografica) che tenga. L'importante è capire come mai accade e non stare a perdere tempo, dicendo che non sarebbe dovuta accadere, per farsi facilmente belli col mondo di chi fa sembiante d'intendersene. 
Pare allora ad Apollonio che un dettaglio come quello appena messo in luce consenta a chi ha naso di annusare ancora una volta l'aria che tira. Perciò lo sta offrendo alla riflessione olfattiva dei suoi due lettori. 
Non sentono anche loro in questa minuzia l'inconfondibile aroma che emana dall'aspirazione di parte di ceti intellettuali italiani a una (in fondo sana, si pensa e si dice) semplificazione degli arzigogoli e delle specificità culturali, come appunto si presenta una bizzarra ortografia nazionale? Non vi intravedono, come lui, l'influsso che, a sostegno di tale aspirazione, esercitano materialmente una tastiera priva di lettere accentate e la noiosa, conseguente ricerca, tra i caratteri speciali, delle buffe lettere che domanda la scrittura in lingue desuete? 
Impressioni: e Apollonio non saprebbe dire di più. Quelle dieci é danno però allo scritto in cui compaiono (e senza riguardo alle tesi che vi vengono prospettate) un sapore profondamente e irrimediabilmente ascaro. 
È da ascari del resto la temperie culturale che globalmente oggi si vive: non da meticci, come qualcuno afferma pomposamente e per darsi un tono. Con gli scritti di rappresentanti dei ceti intellettuali italiani, lo spirito ascaro dilaga ormai nelle pagine degli inserti culturali dei maggiori quotidiani. Lo rivelano (senza nemmeno volerlo) le loro piccole pecche ortografiche, annunciatrici, come le prime rondini, del radioso futuro d'una cultura, d'una lingua.

PS. È tuttavia un po' inquietante (Apollonio lo confessa) leggere in una nota, disponibile in rete, che la professoressa Urbinati "É Nell and Herbert Singer Professor of Contemporary Civilization at Columbia University e Professore di Teoria Politica nel Department of Political Science della Columbia University", "ed é tra i fondatori della rivista Reset", "é stata lettrice alla Princeton University", "Negli Stati Uniti é stata membro di due importantissime istituzioni di ricerca", "ed é inoltre consultata da tutte le maggiori universitá del mondo e accademie scienfiche per casi di promozione di altri docenti", "Nel 1980 é stata eletta Consigliera comunale". Originale, involontaria sfragis, rivelatrice della natura autobiografica, non biografica della nota [Accadesse che la pagina cui qui si rinvia scomparisse dalla rete, se ne trova una registrazione di fortuna qui].