28 luglio 2021

Lingua nostra (12): Acchiappacitrulli (2)


Nelle Avventure di Pinocchio, il loquace nome proprio di Acchiappacitrulli spetta a una città, non a un paese (qui ci si riferisce a paese come sinonimo di nazione, di stato, naturalmente). La sua popolazione è descritta come segue: 

"Dopo aver camminato una mezza giornata [Pinocchio, il Gatto  e la Volpe] arrivarono in una città che aveva nome «Acchiappacitrulli». Appena entrato in città, Pinocchio vide tutte le strade popolate di cani spelacchiati, che sbadigliavano dall'appetito, di pecore tosate che tremavano dal freddo, di galline rimaste senza cresta e senza bargigli, che chiedevano l'elemosina di un chicco di granturco, di grosse farfalle, che non potevano più volare, perché avevano venduto le loro bellissime ali colorite, di pavoni tutti scodati, che si vergognavano di farsi vedere, e di fagiani che zampettavano cheti cheti, rimpiangendo le loro scintillanti penne d'oro e d'argento, ormai perdute per sempre.
In mezzo a questa folla di accattoni, di poveri vergognosi passavano di tanto in tanto alcune carrozze signorili con dentro o qualche volpe, o qualche gazza ladra o qualche uccellaccio di rapina".

Di "paese", nell'opera di Collodi, c'è invece quello "dei Balocchi", celeberrimo. E sarà per analogia che, in una gazzetta, capitava per esempio di leggere: "Nel Paese dei Balocchi, che di norma va alle urne insieme al limitrofo Paese di Acchiappacitrulli...". Una grossolanità comprensibile in quella sede.
Meno trascurabile, per lo spirito del filologo, è che il fantasioso toponimo Acchiappacitrulli abbia sì, come merita, una voce nel prezioso Dizionario dei luoghi letterari immaginari, ma vi sia lemmatizzato come "Acchiappacitrulli, Paese di.". Nella voce si legge poi che "Carlo Collodi [...] nel romanzo Pinocchio descrive con questo nome un immaginario paese nel quale Pinocchio denuncia il furto..." e, più avanti, che "Il giudice del paese di Acchiappacitrulli [...] dà ordine di catturare Pinocchio e di metterlo in prigione".  
Quanto alle registrazioni lessicografiche, Apollonio non è invece riuscito a trovarne una di acchiappacitrulli come nome comune o come aggettivo né sul Grande dizionario della lingua italiana né sul Grande dizionario italiano dell'uso. Sua insipienza? Forse: è sempre più anziano e i caratteri con cui sono composte opere siffatte non sono comodi per i suoi occhi. Sarà grato a chi lo correggerà, fosse il caso, o gli segnalerà un'opera lessicografica soddisfacente in proposito. Non va taciuto d'altra parte che una registrazione di acchiappacitrulli potrebbe mancare in tali opere perché per i lessicografi rimarrebbe un regionalismo. In effetti, esso è tale in origine: l'attestazione letteraria lo dice chiaramente. Sottigliezze che chi ha le competenze è eventualmente invitato a definire.
Ambedue gli usi menzionati, il sostantivale e l'aggettivale, sono in ogni caso ben presenti in italiano e non mancano oggi di attestazioni difficilmente qualificabili come regionali. Ecco un caso di uso aggettivale e di funzione attributiva: "Dunque sono cittadini indifesi da tutelare con sanzioni più alte. In sovrappeso e perciò più vulnerabili, tendenzialmente più creduloni, più inclini ad affidarsi al rimedio miracoloso e al prodotto acchiappacitrulli". Ed eccone uno di uso sostantivale: "A Siracusa, ci vuol poco a capirlo, di Archimede se ne fottono. Al massimo lo usano come «acchiappa-citrulli», per intitolar convegni sull'energia pulita e sulle pale eoliche". 
Si aggiunge qui un'annosa testimonianza personale. Apollonio ha vissuto luoghi un tempo desueti e tempi ormai andati e ricorda come, in quei tempi sulle pubbliche piazze di quei luoghi, arrivassero venditori ambulanti. Pratica commerciale consueta di costoro era che offrissero a titolo gratuito qualcosa di strabiliante a chi ne acquistava la mercanzia, pagandola profumatamente. Il padre di Apollonio definiva sardonicamente un acchiappacitrulli l'oggetto di quella simulata liberalità. Di acchiappacitrulli, si serviva insomma come approssimativo sinonimo di specchietto per le allodole. Si precisa ad abundantiam che non era toscano. Aveva però un autentico culto per Le avventure di Pinocchio.  
Accade così che, forse per riflesso di una pietas filiale, ad Apollonio paiano a pieno titolo acchiappacitrulli, per fare un esempio, le pubblicazioni accessorie, sovente millantate come gratuite o quasi, con le quali, non da ieri, i quotidiani allettano i loro potenziali clienti (ormai molto scarsi, va detto). Se non è vero il contrario ed è il quotidiano il velato acchiappacitrulli che serve a fare commercio del resto. È un caso tra mille, naturalmente, e nemmeno dei più clamorosi e malandrini tra le pratiche economiche, sociali, politiche oggi correnti. 
Se di acchiappacitrulli non c'è però traccia sui dizionari (così risulta ad Apollonio, lo si diceva), la circostanza complessiva acquista un'inattesa morale per chi dell'espressione prova a fare ricognizione critica. Ribadisce infatti come latitino talvolta da strumenti ritenuti affidabili per conoscere una temperie le espressioni che meglio la qualificherebbero. In effetti, i presenti sono tempi di acchiappacitrulli e lo saranno ragionevolmente vieppiù i futuri, in una città di Acchiappacitrulli fattasi ormai villaggio globale.

[L'immagine è tratta da un'edizione delle Avventure di Pinocchio, illustrata da Franco Jacovitti e pubblicata da "La Scuola" nel 1960.]

26 luglio 2021

Lingua nostra (12): Acchiappacitrulli (1)

Derubato che fu delle sue monete dal Gatto e dalla Volpe o, per essere precisi, privato che ne fu dalla sua dabbenaggine, Pinocchio corre a denunciare a un giudice scimmione la frode di cui si è fatto vittima, seppellendo le monete perché fruttificassero, dietro suggerimento e alla presenza dei due malfattori. 
Dopo averlo ascoltato, il Gorilla spedisce in prigione il burattino. Decisione ineccepibile: del misfatto porta per intero la colpa. 
Pinocchio passa in carcere quattro mesi; ne esce per un'amnistia. Vinti i suoi nemici, l'Imperatore ne ha decretata una, aggiungendola a "grandi feste pubbliche, luminarie, fuochi artificiali, corse di barberi e velocipedi". 
Per approfittarne, Pinocchio si vede costretto a millantare d'essere anche lui un malandrino. Il provvedimento è destinato ai malandrini e lui, al carceriere, non era parso tale, quindi, come non malandrino, da trattenere in galera. La parola di Pinocchio gli basta però e apre le porte anche a lui. Solo quando si menziona l'amnistia il narratore ricorda a chi legge dove avviene tutto ciò: è la città di Acchiappacitrulli. 
Per il dettaglio della vita sociale che a Collodi parve pertinente evidenziare, la città di Acchiappacitrulli non è il rovescio del mondo com'è. Credono così i citrulli. È il mondo proprio com'è, soltanto rivelato a se stesso. Si parva licet..., la città di Acchiappacitrulli è come la Buna-Monowitz descritta da Primo Levi: il mondo come esso è condotto alle sue conseguenze estreme, per tragica o comica ironia. 
Delle conseguenze estreme dei modi con cui va sempre il mondo, di norma non si parla. Non è buona educazione farlo e le si lascia implicite. Ma ci sono fasi della vita associata in cui, chissà come, chissà perché, le conseguenze estreme vengono crudamente in chiaro e s'impongono come pratiche quotidiane. 
Con educazione, tra il serio e il faceto, la buona letteratura prepara all'evenienza. Chi la intende ha quindi strumenti per capire quando quei momenti si preparano. E quando sono arrivati (perché prima o poi capita), ha il modo di soccombere, dandosi il caso, come chiunque altro, ma perlomeno senza fare la figura del citrullo. Di quel citrullo che, quando le conseguenze estreme se ne stanno acquattate e invisibili, s'illude che esse non ci siano e gli pare così di vivere nel migliore dei mondi possibili.   

13 luglio 2021

"Tout se tient": Flaubert, Saussure, Meillet, Jakobson

Attribuita volgarmente a Ferdinand de Saussure e, in ambito linguistico, adoperata in realtà da Antoine Meillet (che di Saussure, come si sa, si proclamò allievo, senza mai ricevere conforto in proposito dal presunto maestro), l'espressione "tout se tient" ricorre perlomeno due volte nella corrispondenza di Gustave Flaubert: in una lettera ai fratelli Goncourt del 15 luglio 1861 e in una indirizzata a Sainte-Beuve, lunga come un saggio e scritta il 23 e il 24 dicembre 1862. Si dice qui "perlomeno", perché nulla esclude che si trovi anche altrove. Apollonio non è uno specialista. L'osservazione gli viene da una sua ormai antica, dilettevole e molto formativa lettura di una scelta delle lettere dello scrittore francese, proposta da Bernard Masson nel 1975 per folio classique, collana economica di Gallimard. 
Che "tout se tient" si sia trovato sotto una penna siffatta non stupisce. Ricorrendo a casaccio alla medesima fonte di informazione, ecco cosa Flaubert scrive a più riprese a Louise Colet, un decennio prima delle lettere che si sono citate, quindi dal cantiere di Madame Bovary: "Ce qui me semble beau, ce que je voudrais faire, c'est un livre sur rien, un livre sans attache extérieure, qui se tiendrait de lui-même par la force interne de son style, comme la terre sans être soutenue se tient en l'air, un livre qui n'aurait presque pas de sujet ou du moins où le sujet serait presque invisible, si cela si peut. Les œuvres les plus belles sont celles où il y a le moins de matière; plus l'expression se rapproche de la pensée, plus le mot colle dessus et disparaît, plus c'est beau"; poco più avanti, nella stessa lettera, "le style [est] à lui tout seul une manière absolue de voir les choses"; in un'altra lettera: "J'en conçois pourtant un, moi, un style; un style qui serait beau, que quelqu'un fera à quelque jour, dans dix ans, ou dans dix siècles, et qui serait rythmé comme le vers, précis comme le langage des sciences, et avec des ondulations, des ronflement de violoncelle, des aigrettes de feux, un style qui vous entrerait dans l'idée comme un coup de stylet, et où votre pensée enfin voguerait sur des surfaces lisses, come lorsqu'on file dans un canot avec bon vent arrière"; e ancora, per concludere: "Une bonne phrase de prose doit être comme un bon vers, inchangeable, aussi rythmé, aussi sonore". Il corsivo è naturalmente nell'originale e la qualificazione anticipa di un secolo la celebre formalizzazione che Roman Jakobson procurò genialmente della cosiddetta funzione poetica.   

9 luglio 2021

"...parce qu'il me blesse ou me séduit"

Di quanto scriveva Roland Barthes non si è sempre convinti. Sorvolando però sopra un qualche suo abuso dell'intelligenza, va detto che ebbe sortite di stupefacente efficacia. Molte a proposito di se stesso, come prove di una consapevolezza riflessiva. 
Tra queste, l'osservazione che il suo interesse per la lingua non fosse soltanto e banalmente effetto di seduzione, ma anche di ferimento. La cosa è forse altrettanto ovvia, ma solo dopo che ci si sia appunto riflettuto. 
Quando ferisce, la lingua merita perlomeno la stessa attenzione che merita quando seduce. C'è dolore a interessarsi alla lingua che ferisce, ma è un prezzo che si deve essere disposti a pagare. Sempre che, come pare appunto accadesse a Barthes, provochi diletto professare professionalmente un'attività dello spirito rivolta alla lingua.
Una disposizione naturalmente molto diversa da quella, con cui viene spesso confusa e che si può dire opposta, di chi del proprio dilettantismo nei confronti della lingua, come peraltro nei confronti di parecchio altro, capita faccia una professione.