24 maggio 2014

Vocabol'aria (9): "grammatico"

Da un po', l'aria che tira non è favorevole alla sopravvivenza nell'uso comune di grammatico e questa parola, un dì nobile, rischia di procedere sulla stessa strada di speziale e di cerusico: voci che Apollonio non ha certo necessità di illustrare ai suoi cinque lettori. Un tempo, esse erano largamente adoperate, ora non più.
Fatti salvi alcuni ridotti dialettali, speziale e cerusico non sono uscite dall'uso perché i mestieri che designavano sono scomparsi. Questo è il caso di carbonaio, di lavandaia, di stagnaio, di spadaio. Sono invece divenute rare perché, permanendo i mestieri tanto di speziale quanto di cerusico, né a coloro che li esercitano né a chi ne utilizza i servizi quelle designazioni sono più parse conseguenti coi tempi. Così, sono state in qualche modo tabuizzate. Cerusico, a dire il vero, più di speziale. La prova? Dare del cerusico al chirurgo che si prepara a praticarvi una colecistectomia e osservare cosa succede.
Difficile, insomma, sentir dire, oggi, "Passa a prendermi un'aspirina dallo speziale, per favore" o "Sono andato a farmi vedere da un cerusico: mi ha detto che, per l'intervento, posso ancora attendere".
Allo stesso modo, la parola grammatico diviene sempre più rara, nell'uso, ma non è scomparso il mestiere di grammatico né sono scomparsi i grammatici. Anzi, grammatici, oggi, ne circolano a iosa e scrivono valanghe di grammatiche e opere similari, che talvolta son esplicitamente "grammatiche" anche nel titolo, talaltra no ma poco importa. E non stanno più chiusi, i grammatici, nelle loro tradizionali riserve: le dotte accademie, i ginnasi e i licei, in misura minore, a dire il vero, le università. 
Nell'Italia del villaggio globale, di grammatici, se ne incontra infatti uno a ogni angolo. E vedranno i cinque lettori di Apollonio che, un giorno o l'altro, la corporazione dei grammatici, con la creazione di un apposito ordine professionale, come è appunto uso nazionale, dirà necessaria (se necessaria non l'ha già detta) l'istituzione di una conseguente condotta grammaticale, di modo che anche chi non può permettersi un grammatico privato possa usufruire delle cure del grammatico della mutua.
Condizionale pesante e vita sociale che ne risente? Ansia da prestazione con le principali? Subordinate finali in disordine? Stitichezza nella consecutio? Niente paura: la visita d'un grammatico rimette le cose a posto.
Dopo averti raccomandato di fare con regolarità un po' di esercizi di congiuntivo in palestra, dopo averti prescritto un paio di volumi terapeutici (naturalmente, da assumere, in pillole di tre pagine o di cinque paragrafi, ogni sera prima di andare a dormire), dopo averti fatto notare che, comunque, quanto a disgiunzioni, stai messo maluccio, ma che per il momento brutta brutta non è e, tranquilli, tra un mesetto o due - o magari a primavera - ci si fa un piccolo controllino specialistico, mai che riconosca, il grammatico, d'essere ciò che è: un grammatico. Del resto, nel villaggio globale, non c'è più nessuno che lo tenga per tale o che lo designi così. Insomma, grammatico non si può più dire. 
Meglio: se si è filologi, lo si può dire (negli asettici laboratori della scienza storica, dove di ogni antica sconcezza si fa materia di freddo studio) di Prisciano, di Cherobosco, di Vaugelas (oltre che di Apollonio, l'autentico); gente, appunto, d'altri tempi, dalla professione d'altri tempi, designabile con una parola che oggi è meglio non provarsi a rivolgere a nessuno. Qualcuno ha più sentito parlare di spazzino? Lo stesso con grammatico.
Come si sa, nell'espressione umana, a un tabù corrisponde però sempre un eufemismo: sarà necessario ricordare, in proposito, il celebre caso di escort? Anche per grammatico, parola ormai difficilmente proferibile, si è provveduto così con un eufemismo: linguista. E la circostanza fa anche un po' sorridere, perché (messa da parte, di grazia, ogni facile volgarità), in italiano, un dì lontano, di qualcuno che, come questo Apollonio, pretendesse di occuparsi dell'espressione umana, linguista era detto quasi per ischerno e il dirlo sfiorava l'insulto.
Ecco allora come, per tabù, grammatico sta lentamente uscendo dall'uso. Faccia di conseguenza attenzione chi ha cura di seguire le guise del mondo. La presente, lo si sa, non è epoca che usi e osi dire pane al pane e vino al vino. Non dia del grammatico a colui che ha appena finito di controllare lo stato delle sue congiunzioni, di verificare tempi e modi dei suoi verbi, auscultando i relativi accordi. Non ne sarebbe per nulla contento. Se non per cortesia, almeno per convenienza e per evitare che, adontato che se ne sia, alla prima occasione, quel grammatico procuri di fargli male non solo ai predicati ma anche agli attributi, si tenga a un comportamento espressivo politicamente corretto. Lo appelli linguista. Lo tenga per linguista. È un linguista.

A frusto a frusto (86)




Forse il mondo sarebbe migliore (ancora adoperabile, senza sarcasmo, tale comico comparativo?), se al posto del così comune "è sbagliato" si sentisse di tanto in tanto un più semplice (e più onesto) "non mi piace". 

23 maggio 2014

Linguistica da strapazzo (29): Testo, un po'; testa, niente

Metafora spenta è una metafora. Anzi una doppia metafora, perché metafora è già a suo modo una metafora, per giunta spenta, per vertiginosa mise en abyme. Ed è a sua volta una metafora anche spenta ma non ancora completamente spenta. Metafora spenta è di conseguenza la combinazione di due metafore, una spenta e una non spenta.
In italiano (e in varietà sorelle), testa è una metafora spenta esemplare. Per dir la medesima cosa, chi parlava latino diceva caput (e qualcuno deve aver continuato, visto che di caput qualche resto c'è ancora). Gli spiritosi presero però a commutare caput con testa, 'vaso di terracotta', col pretesto di alludere per figura allo scarso pregio e alla vuotaggine del caput così designato: un'attitudine certo non benevola per il suo titolare.
Poi andò evidentemente come oggi si può dire con certezza sia andata. La metafora piacque tanto e piacque a tanti che, testa oggi, testa domani, testa a destra, testa a sinistra, non ci fu quasi più caput che non fosse divenuto testa. C'è ancora chi si stupisce se Apollonio ribadisce qui la convinzione, sua e del suo alter ego, che il cambiamento linguistico coincide, per certi suoi non trascurabili aspetti, con l'ineluttabile prevalere del cretino?
La metafora testa pian piano si raffreddò e, infine, si spense. Da allora, testa è parola, cui, volendo far gli spiritosi, bisogna trovare un sostituto metaforico, che di un traslato abbia ancora il calore: zucca, pera, coccia, cocuzza. Ed è parola che può persino essere usata per esprimere proprio il contrario di ciò che valeva agli esordi della sua fortunata estensione figurata. Oggi, si loda e non si spregia colui a proposito del quale si dice (per metafora metonimica) che "è una testa". Ascoltassero l'espressione gli antichi spiritosi promotori della metafora, si terrebbero la pancia dalle risa! Ma la natura è clemente e non espone gli eredi al ludibrio che, ne fossero osservati, meriterebbero certo da parte dei loro antenati.
A proposito di cause di buonumore, anche testo è una metafora: una metafora spenta nelle teste dei parlanti comuni, che hanno tutto il diritto di non tenerci troppa roba accesa, nelle loro teste. Spenta, pare lo sia, adesso, anche in quella di chi, apprende Apollonio, dichiara di procedere, da specialista, "sul filo del testo".
Testo è 'tessuto, intreccio': ormai celata ai più, è questa la ratio analogica della sua natura metaforica. A differenza del discorso, cioè del 'correre qui e là', alla cui pratica - per non perdersi - può eventualmente bastarne uno solo, di fili, un testo, non può che averne più d'uno. Altrimenti, che intreccio è?
Monstrum vel prodigium, allora, un testo dal filo singolare e con articolo determinativo. Così almeno lo percepisce, per via d'una incoerenza testuale sottile come un filo, il torpido spirito del vecchio Apollonio, al quale pare che, a differenza di testa, dove ormai non c'è appunto più niente di acceso, c'è ancora un po' del fuoco di un tropo sotto la cenere di testo.
Ne segue che chi vuol metterci dentro le mani per rovistarvi, deve curare di non farlo incautamente: c'è il rischio che se le ustioni.

18 maggio 2014

Pastorello, Lo Nigro e il principe Fabrizio

Come omaggio a Fabrizio Corbera, principe di Salina, Pastorello e Lo Nigro sanno solo portare fetidi formaggi e bestie sanguinose, perché crudamente sgozzate. Formaggi fanno, del resto, col latte delle loro pecore, non profumi. E le loro pecore figliano agnelli da sgozzare, non cherubini.
Il principe Fabrizio non manca tuttavia del tatto reticente di non palesare in loro presenza lo schifo che gli ispirano i loro formaggi e il suo ribrezzo per il sangue. Li gratifica, al contrario, di un'accoglienza fin dove può magnanima non perché, come direbbe un bottegaio, "a caval donato non si guarda in bocca" (i "carnaggi", per via dell'affitto delle sue terre, non sono un dono e gli sono contrattualmente dovuti) ma perché così impone il doveroso contegno del suo rango.
Questa scena del Gattopardo, minima e certo irrilevante, si è presentata allo spirito lunatico e privo di qualsiasi controllo di Apollonio, quando è oggi caduto sopra la pagina Web ufficiale d'un professore d'università e sulla perentoria dichiarazione che vi campeggia:
Per una ragione che non mette qui conto di specificare, ma che avrebbe avuto qualcosa da spartire col dinamismo della variazione e del cambiamento, egli avrebbe voluto entrare in contatto con la persona che così ammonisce chi aspira ad avviare una corrispondenza.
Dubitando di padroneggiare adeguatamente e come richiesto il canone delle formule (evidentemente escluso, esso canone, dal dinamismo di cui sarebbe stata appunto questione), Apollonio ha rinunciato.
Per timidità. E forse col sentimento di uno studente, cioè di un Pastorello o di un Lo Nigro cui il gran principe Fabrizio avesse manifestato già sull'uscio il fastidio, per il fetore dei formaggi e il sangue delle bestie sgozzate, procuratogli dalla sua non canonica visita.

16 maggio 2014

Linguistica candida (17): "Laggiù nell'Arizona..."

Prove della putrefazione del Moderno? A bizzeffe e dappertutto. La linguistica, disciplina, tra le umanistiche, moderna per antonomasia (con due o tre sorelle), ne fornisce ogni giorno gran copia, nella sua piccola aia. Qualcuna di tali prove è effetto di trovate tanto sbardellate che la sua eco, per pochi attimi, rimbomba anche fuori. Capita così qualche giorno fa, addirittura sulla prima pagina di un autorevole quotidiano italiano.
Si sa: la lingua, come ogni altro mistero, si presta felicemente a qualsiasi chiacchiera. Questo medesimo diario ne è dimostrazione né si saprebbe qui menarne scandalo: da qual pulpito, del resto, e con quale autorità? 
I buoni, vecchi linguisti del Moderno, però, provarono a porre dei limiti a quella chiacchiera, per cura che la loro disciplina, gracile anche perché da poco nata, non ne avesse a patire e con la pretesa inoltre di far di tale mal fornita creatura una robusta scienza positiva. 
Uno dei limiti che allora posero e si posero fu che non fosse da considerare cosa seria e fosse dunque da bandire la chiacchiera sull'origine del linguaggio - chimera seducente come poche altre per chiunque si sia fermato a riflettere sulla natura umana anche solo specchiandosi in un bicchiere di vino all'osteria, ci si figuri per chi in proposito vede la sua immagine riflessa, come la celebre regina di Biancaneve, nello specchio di biblioteche, laboratori e cattedre universitarie. 
Ora è un secolo e mezzo, un sodalizio di linguisti fece addirittura del divieto parte del suo statuto: era evidentemente il più esplicitamente preoccupato della cosa e di conseguenza il più bacchettone, forse anche in funzione della città in cui nasceva, vivace e, al tempo, propizia a ogni avventura.
Ora è un secolo e mezzo, appunto. E c'è fatto umano che, da allora a oggi, sia rimasto il medesimo? Nessuno. Anche se per l'inerzia dell'espressione parecchi (forse quasi tutti) continuano a portare il nome con cui li si designava a metà Ottocento. 
Così, come fatto umano per eccellenza, è capitato alla scienza e, ovviamente, alla linguistica come scienza. Ciò che si chiama scienza oggi, al tempo del Moderno putrefatto, è cosa parecchio differente da quella che si chiamava al medesimo modo al tempo del Moderno maturo. 
La prova? Armati di tutti i potenti mezzi assicurati dallo sviluppo di molte discipline convergenti e, soprattutto, di "dati neurobiologici, genetici, paleontologici, etnografici e naturalmente evoluzionistici", fior di scienziati si son gettati a capofitto, oggi, sul tema dell'origine del linguaggio. Certi, certissimi di non passare per ciarlatani, come li avrebbero invece giudicati i loro colleghi parigini, or sono quindici decenni, e con loro l'intera comunità scientifica. Anzi, certi, certissimi di essere i più scienziati di tutti.
Ha provato invece a farli passare (ancora e di nuovo) per ciarlatani l'ormai vecchissimo Noam Chomsky, forte della sua fama di "massimo linguista vivente". Lo ha fatto in associazione con un altrettanto vecchio "massimo evoluzionista vivente" e con altri scienziati assortiti, meno anziani ma non tutti esenti, come scienziati, dall'essere incappati (proprio quanto a ciarlataneria, se Apollonio non si sbaglia) in qualche spassosissima disavventura. Da che pulpito, allora?
In tema di come siano relative e mutevoli le figure umane e le loro accidentali vicende, d'altra parte, è certo un bel vedere, per Apollonio, il passaggio tra i difensori del buon tempo antico e di antichi tabù disciplinari quel sedicente rivoluzionario che ha riempito la sua disciplina d'ogni sorta di paccottiglia speculativa (come la bufala del numero infinito delle frasi o l'innatismo, sotto forma di petizione di principio), combinandola con l'ipostasi di una modesta procedura di scoperta, quale era l'analisi per costituenti immediati di Bloomfield, e creando così un prodotto conseguente coi miti della Modernità nella sua fase più ciecamente meccanicista. Così, appunto, voleva la linguistica il gusto di quel tempo in cui Chomsky ebbe a godere della sua rampantissima gioventù. E oggi, forse, il tempo, semplicemente, la vuole diversa.
Come insegna del resto la storia del Moderno e di tutte le sue rivoluzioni (le politiche, ma non solo), aperto il vaso di Pandora e una volta che se ne è fortunosamente venuti fuori, è mera illusione pensare di essere gli ultimi ad averlo fatto e ritenere che lo si richiuderà prima che ne sortiscano altri più violenti, più matti, più stupidi, in breve, più adeguati al sempre mutevole andazzo. 
E così l'addolorato agiografo di Chomsky racconta, da "bandolero stanco", come delle confutazioni del suo "gigante" nessuno se ne impipi più, nemmeno in Arizona. E non basteranno l'anatema del vecchio papa né la sua bolla di scomunica ad arrestare il procedere delle nuove guise di quella dotta stupidità che passa sotto il nome di scienza da qualche secolo; e in modo accelerato e parossistico in tempi recenti e oggi. Come non bastarono quelli altrui d'un tempo andato a proposito del Chomsky medesimo e delle antiche trovate cui ancora oggi fa appello, quali fossero articoli di fede.
Insomma, in una linguistica che, come l'Arizona, è "terra di sogni e di chimere", ancora un giro di tango. Naturalmente, delle capinere:

13 maggio 2014

A man grama (1): Sia nel bordello


"La gran sagra culturale torinese, invece, va in controtendenza, rimarcando, ancora una volta, che i libri si possono vendere se sono collocati in un contesto allegro e ricco di proposte che vanno oltre il libro medesimo": Salone del libro.

[L'invenzione di un anagramma è giustappunto una scoperta.]

6 maggio 2014

Zurigo, il mare, la decadenza


Incapace, ritiene, di produrla al momento da sé, Zurigo importa un po' di ruggine dalla Germania, l'Orientale. Da Napoli, sarebbe stato solo ribadire un luogo comune; così è sottile ironia. 
Pone il teatrale oggetto, privato del suo scopo, in un contesto verisimile, per dare enfasi allo straniamento del salmastro e dell'ossidazione. 
Gioca ad avere ciò che è indispensabile, come valore di vita, e che ritiene le manchi: il mare, la decadenza.
Si diverte a scherzare col fuoco, perché (e lo sa) può rassegnarsi solo quanto al primo.

La torre del Carburo

"La torre del Carburo, che sorge in mezzo alla Buna e la cui sommità è raramente visibile in mezzo alla nebbia, siamo noi che l'abbiamo costruita. I suoi mattoni sono stati chiamati Ziegel, briques, tegula, cegli, kamenny, bricks, tégak, e l'odio li ha cementati; l'odio e la discordia, come la Torre di Babele, e noi così la chiamiamo: Babelturm, Bobelturm; e odiamo in essa il sogno demente di grandezza dei nostri padroni, il loro disprezzo di Dio e degli uomini, di noi uomini.
E oggi ancora, così come nella favola antica, noi tutti sentiamo, e i tedeschi stessi sentono, che una maledizione, non trascendente e divina, ma immanente e storica, pende sulla insolente compagine, fondata sulla confusione dei linguaggi ed eretta a sfida nel cielo come una bestemmia di pietra.
Come diremo, dalla fabbrica di Buna, attorno a cui per quattro anni i tedeschi si adoperarono, e in cui noi soffrimmo e morimmo innumerevoli, non uscì mai un chilogrammo di gomma sintetica".
L'accostamento proposto da questo passaggio del più celebre scritto di Primo Levi è suggestivo e paradossale. 
La "favola antica" procede da una lingua unica, assoluta, alla sua dispersione in una pluralità di idiomi, tutti relativi: a tenervi il ruolo di maledizione è l'irrompere della differenza, con cui Dio vanifica l'impresa umana dissennata.
La differenza delle espressioni è invece la condizione di partenza della nuova Babele, che non è favola, peraltro, e si verifica nella storia. E "il sogno demente" è di percorrere a ritroso, con una "bestemmia di pietra", la via della maledizione divina. Si procede così alla Vernichtung, all'annientamento della molteplicità, non solo espressiva, nella direzione dell'unità e di un assoluto "cementati dall'odio". 
D'altra parte e a dire il vero, neanche nella "favola antica" l'amore pare determinare l'attitudine del protagonista né dei comprimari: così, almeno, nella lettura tradizionale. Sulla favola forse varrebbe però la pena di gettare uno sguardo diverso (e, dal suo punto di vista, Paolo Fabbri lo suggeriva acutamente, or sono un paio di decenni).
La torre del Carburo è opera inane, com'è evidente a tutti, vittime e carnefici, ma testimonia lo sconsiderato tentativo di restauro della lingua pre-babelica. Sarà la mitica lingua delle cose e dei fatti? Quella che, per ricorrente mistificazione, si pretende univoca e in cui tutti i conti si dice tornino? Eternamente rimpianta, sempre invocata e contrapposta alle lingue delle parole, dove capita invece che, umanamente, mattoni siano Ziegel, briques, tegula, cegli, kamenny, bricks, téglak e ancora molto altro: tutto ciò che si progetta appunto di annientare.
Anche la lingua in cui pretende di esprimersi la torre del Carburo è tuttavia una lingua né la salva la mira blasfema d'essere di cose e di fatti. La torre ha la sua funzione in un sistema di segni: vi vale come figura di un discorso. Vi vale da allegoria. Esattamente la funzione che restituisce al lettore il dettaglio d'una narrazione di indiscutibile veridicità, di stupefacente accuratezza, di non ancora cessata attualità.

4 maggio 2014

Rotazione funzionale




In senso orario, fàtica, emotiva, conativa, referenziale, metalinguistica, poetica...
Apollonio, per una critica di se stesso.