23 dicembre 2008

Bolle d'alea (6): Bontempelli

"Il piacere fisico più grande e pieno (nessuno ci fa caso: provateci) è respirare. Il piacere spirituale più grande è pensare. Due operazioni che l'uomo non ha bisogno di procurarsi, e che non interrompe mai (neppure nel sonno): lo accompagnano di minuto in minuto fino all'ultimo, stanno a fondamento continuo dell'intera vita. E sono due piaceri che si fanno più perfetti con l'accorgersene": una nota di "ottimismo" (così la definì Massimo Bontempelli).
Il periodo è propizio e Apollonio la gira ai suoi due lettori: fausto voto che almeno per intermittenza godano con consapevolezza di respirare e di pensare (come del resto egli vorrebbe di se medesimo).

9 dicembre 2008

"Uomo del passato"


Per i sottili canali sociali su cui scorre l'espressione, inarrestabile come l'acqua, Apollonio apprende che c'è chi, tra i sopravvissuti a Edoardo Vineis, liquidandone con malagrazia qualche segno del passaggio accademico, l'ha definito "uomo del passato". Vero, vivaddio. Qualunque sia la misura di Edoardo Vineis (anche minuscola, che importa?), egli era proprio un "uomo del passato": consapevole di quel passato moderno della linguistica cui appartengono für ewig coloro che la linguistica l'hanno appunto costruita e consapevole di quell'antico passato cui appartengono für ewig coloro che hanno costruito la civiltà occidentale.
La stupidità, quando vuole offendere, loda.

12 novembre 2008

Nomen, non me! (4)

Si tratta solo dell'ennesima esca e, nell'oceano delle comunicazioni di massa, ci si sta facendo ancora una volta prendere all'amo?

A mar, abbocca

Anche perché, tra gli osanna, qualcuno inascoltato potrebbe ragionevolmente dire

Ma Bacco, bara!

L'azzardo è grande infatti e il ticket si definisce da solo:

Ambo baccarà

[L'invenzione di un anagramma è giustappunto una scoperta
(c = k)]
[cfr., nel giardino di Kublai Kan, il post del 14.11.08: "...un uomo attraente, sa parlare e vien bene alla TV"]

10 novembre 2008

Sulla catena evolutiva accademica (I)

Qui si parla di una cosa che non c'è più da gran tempo, l'università. E ammesso che qualche relitto ancora ci sia, non ci sarà più in futuro. Chi trovasse in ciò che segue una vena d'elegia, perdonerà il vecchio Apollonio d'indulgervi: si rassicuri però, nessuna nostalgia.
Secondo una nota e antica teoria sulla catena evolutiva accademica, caratteri d'inarrestabile decadenza e di continua rinascita erano inscritti nel codice genetico dell'istituzione universitaria del moderno Occidente.
Si era già (come si è oggi) in epoca post-accademica e Apollonio era solo un ragazzo. Sentì enunciare tale teoria a un ancora giovane studioso che in potenza era all'epoca "il più famoso linguista italiano" e tale sarebbe poi diventato in atto, come ha di recente testimoniato, sulle pagine dei giornali, la pubblicità di un dizionario cui egli ha dato il suo nome.
Scolaro d'illustre maestro e maestro illustre di numerosa scuola, la teoria gli affiorò alle labbra (ricorda Apollonio) durante la cena che seguiva una conferenza. Alla cena, come alla conferenza, era presente una folta e rapita rappresentanza della menzionata scuola. Apollonio vi era stato ammesso eccezionalmente e ascoltava da un angolo nel fondo della lunga tavolata.
La teoria non era forse farina del sacco di chi in quell'occasione la riferiva. Se lo faceva, era per perpetuare una nobile tradizione. Apollonio ne fu sicuro già allora e ancora oggi crede che essa si sia in realtà tramandata eguale da generazioni: testimonianza dell'attitudine un po' canaglia che rese amabili un tempo i professori d'università, con il loro innocente cinismo. Cose oggi disperse nel conformismo della correttezza politica e che, già all'epoca di quella cena, erano agli estremi riflessi dei loro quasi spenti bagliori.
Ecco comunque, qui di seguito brevemente riferita, la teoria sulla catena evolutiva accademica, come Apollonio ricorda di averla udita.
Bastava che fosse furbo anche solo un po', un professore d'università non avrebbe mai eletto a suo scolaro e successore un giovane studioso in sospetto d'essere più intelligente, più bravo, più capace di lui. Per tema d'essere messo in ombra, avrebbe sempre preferito chi egli credeva meno intelligente, meno bravo, meno capace. Ciò condannava naturalmente l'università a rovinosa decadenza. E la storia dell'università fu in effetti sempre storia di decadenza rovinosa: c'è bisogno di esempi?
Come mai, tuttavia, nella sua secolare vicenda, giunta comunque da tempo al suo termine, l'istituzione universitaria riuscì a sopravvivere e le riuscì talvolta di dare persino qualche buona prova di sé? Presto detto.
Da maestro a scolaro più scemo, poi maestro di scolaro più scemo, poi maestro di scolaro più scemo e così via, si giungeva a un livello di scemenza tale da non consentire al suo titolare nemmeno di rendersi conto di scegliere come scolaro e successore uno meno scemo di lui. E il ciclo poteva così ricominciare.
Come si comprende, per la sua lucidità, il relitto culturale è prezioso. Riferendolo, Apollonio ne elegge a gelosi custodi i suoi pochi lettori. E confida loro ciò che, tra il compiacimento di chi enunciava la teoria e le risate complici dei commensali, a lui apparve chiaro già quella sera di estremi riflessi di ormai quasi spenti bagliori, mentre ruminava silenzioso altre osservazioni ed integrazioni, di cui magari un'altra volta dirà.
Della catena evolutiva accademica, concluse, i più benemeriti dunque furono sempre i più scemi, coloro la cui idiozia fu tanto grande da interrompere il declino cui invece i meno scemi davano il loro continuo fattivo contributo.
Paradosso? Ma cosa non è paradosso nel mondo? E, per l'intelligenza della storia calamitosa dell'istruzione superiore dell'Occidente moderno, un paradosso è incomparabilmente più efficace delle tartufesche invocazioni al merito e all'eccellenza dei presenti e altrimenti calamitosi tempi post-accademici.

3 novembre 2008

Lingua loro (9): "barone"

Dopo quaranta anni, “barone” torna a risuonare forte: designa spregiativamente chi ha raggiunto nelle università italiane il gradino più alto nella funzione di docente.
Non lo fa nell'isolato titolo di un articolo giornalistico dedicato a presunte circoscritte malefatte di un “barone”: per persistente endemia, così è di tanto in tanto accaduto negli ultimi quaranta anni.
Come allora, lo fa invece in modo generale, virulento ed epidemico e serve a indicare un'intera categoria professionale, tra i ranghi della quale si conta ovviamente la stessa percentuale di imbecilli e di lestofanti che si conta in ogni altra, dai ciabattini ai poeti laureati.
La malefatta dei “baroni” è nuovamente assoluta. Consiste nella loro stessa esistenza. Vanno tolti di mezzo. E i luoghi dove si annidano vanno bonificati.
C'è tuttavia una differenza rispetto a quel passato. Stavolta “baroni” non ricorre sulle bocche e negli striscioni dei “sovversivi”, sospettati anzi di essere oggi in combutta coi “baroni”. Ricorre nell'espressione di rappresentanti del potere politico-mediatico. È sufficiente aprire un giornale e accendere la TV per averne prova: “Basta con i baroni”, gridano in coro.
L'illusione lessicale ci fa ritenere una parola sempre eguale a se stessa. Si concede al massimo che cambi nei tempi lunghi della storia e quaranta anni potrebbero essere un'inezia. Ma non è così. Una parola cambia invece anche istante dopo istante, in funzione del discorso in cui sta e di chi se ne sta servendo.
Un vice-ministro, un esponente del governo-ombra, il direttore di un telegiornale che, nella loro espressione pubblica, si riferiscono a chi ha raggiunto il gradino più alto nella funzione di docente chiamandolo “barone” dicono una cosa completamente diversa da quella che direbbe al megafono un redivivo studente sovversivo, se adoperasse la stessa parola incitando i suoi compagni di studio a una manifestazione di piazza.
Sulla bocca di chi ha potere, sulla bocca di chi serve il potere e usa demagogicamente “barone” con derisorio spregio, la parola rischia di tornare, come per incanto, ai suoi fasti etimologici. Invisa a imbecilli e lestofanti, comunque mascherati e a qualsiasi categoria appartengano, rischia insomma di tornare a valere semplicemente 'uomo libero'.

31 ottobre 2008

L'Eco balla

Qualche giorno fa, Umberto Eco ha conversato con il giornalista Michele Fazioli a Lecco, in occasione del conferimento al famoso semiologo del premio Manzoni. L'incontro è stato mandato in onda il 26 ottobre scorso dalla Televisione della Svizzera italiana ed è adesso in rete, dove l'ha trovato Apollonio, che ne consiglia la visione ai suoi sparuti lettori (sotto, l'opportuno link). Esso smentisce tra l'altro chi afferma che al medium tocca la responsabilità del suo attuale stato. Come si sapeva (ma ci si è scordati), anche la televisione consente infatti di seguire una conversazione tra persone argute e ben educate, col disteso diletto con cui si seguirebbe una danza.
Con disteso diletto anche perché Eco (che diventando anziano si è privato della barba) appare ciò che in maniera finemente mascherata (dalla barba?) è sempre stato: un moderno sciamano, consolatore dell'angosciosa inquietudine culturale della (post)modernità, depositario di quegli strumenti eruditi e teorici (sconosciuti ai più) coi quali il caos e il disordine in cui pare di essere ormai irrimediabilmente piombati ritornano alle certezze di un ordine tolemaico e aristotelico.
«Non capisco più nulla di ciò che mi succede intorno, il mondo, la storia mi paiono solo una favola raccontata da un idiota, piena di strepito e di furore» pensa l'everyman cólto d'oggidì «ma c'è qualcuno che sa, capisce e mette in ordine: Umberto Eco» e può così tornare al suo tornio quotidiano e poi a casa, a dormire, senza che gli incubi della perdita del senso (di sé, del mondo) lo tormentino troppo.
In quest'opera fortunata e benemerita, la visione che Eco ha della letteratura (tanto come teorico, quanto come critico e come scrittore) gioca un ruolo fondamentale: Eco inquieta quel tanto e quel giusto che rende molto ben accolto il lieto fine che egli dispone. E il lieto fine da concettuale si volge sempre in morale.
Nella conversazione con Michele Fazioli, priva (merito anche del giornalista) della supponenza dell'attitudine divulgativa, la circostanza emerge con cristallina chiarezza. Ed è questo soprattutto il motivo per il quale Apollonio ne raccomanda la visione.
Acuto, Fazioli provoca Eco sul tema della relazione tra realtà, messaggio di autore misterioso e indefinibile, e finzione narrativa, messaggio di autore definibile (anche quando fosse ignoto) ed Eco di rimbalzo balla: “...io sostengo che una delle funzioni principali della narrativa è di fornirci un modello di verità... cioè, è vero che madame Bovary si è uccisa e non c'è santi che tengano, questo non cambierà mai [...] la narrativa ci offre un modello di verità incontestabile che è utile per muoversi nella vita”.
L'esempio è ben scelto, perché è certamente ciò che del fattaccio di Yonville-l'Abbaye direbbe oggi (e disse) il positivo Monsieur Homais. Proprio quel Monsieur Homais alla cui acutezza di spirito la povera suicida (ne avrà memoria il lettore) dovette la dettagliata ed esauriente indicazione della presenza dell'arsenico nel cafarnao.
Ciò che è vero è vero e i fatti sono i fatti, diamine, almeno nella pagina letteraria, e guai a pensare che la loro rilevanza risieda nella relazione narrativa che li fa divenire tali in funzione di un punto di vista, tanto (per dirla con nozioni e terminologia care a Eco) nell'intenzione dell'autore (di cui in verità poco importa), quanto in quella del testo.
Del resto, anche Renzo Tramaglino concorderebbe con Eco: “Il bello era a sentirlo raccontare le sue avventure: e finiva sempre col dire le gran cose che ci aveva imparate, per governarsi meglio in avvenire [direbbe Eco “utili per muoversi nella vita”]. - Ho imparato, - diceva, - a non mettermi ne' tumulti: ho imparato a non predicare in piazza [...] - E cent'altre cose”. Non concordava con Renzo, e forse non concorderebbe con Eco, la candida Lucia. E Apollonio, lo confessa, sta con lei: “Lucia, però, non che trovasse la dottrina falsa in sé, ma non n'era soddisfatta; le pareva, così in confuso, che ci mancasse qualcosa. A forza di sentir ripetere la stessa canzone, e di pensarci sopra ogni volta, - e io, - disse un giorno al suo moralista, - cosa volete che abbia imparato? Io non sono andata a cercare i guai: son loro che sono venuti a cercare me. Quando non voleste dire, - aggiunse, soavemente, sorridendo, - che il mio sproposito sia stato quello di volervi bene, e di promettermi a voi”.
Ma Eco era a Lecco per ritirare appunto il premio Manzoni, giustamente conferitogli.

Umberto Eco intervistato da Michele Fazioli.

13 ottobre 2008

Lingua loro (8): "lingue storiche"

Tra un paio di giorni comincia a Palermo il solito annuale convegno di un'associazione italiana di studiosi del linguaggio (se non la più seria, la più pedante, si diceva un giorno). Ha per titolo «“Usare il presente per spiegare il passato”. Teorie linguistiche contemporanee e lingue storiche». La prima parte è una citazione: Apollonio non ha tempo (adesso) per dire da dove viene e perché combinarla con quel séguito non pare appropriato. Tant'è: ognuno decide di esprimersi come meglio gli pare. Ma c'è qualcosa che ha maggiore rilevanza pubblica, in quel titolo, ed è “lingue storiche”. È una novità.
Gli attributi, si sa, sono pericolosi. Fino a ieri, peraltro, attribuire storica a lingua non usava, in italiano. O almeno, non usava col valore che si può immaginare abbia pensato chi ha dettato quel titolo. Si poteva dire, per esempio, “arabo e greco sono state lingue storiche della Sicilia”, per dire che nel corso della storia, in Sicilia, ci fu chi parlò arabo e chi parlò greco. Ma “lingue storiche”, in assoluto, come lascia intendere quel titolo, non se ne conoscevano. Tutte le lingue (e tutte quelle cui si è da sempre dedicata quell'associazione) sono storiche, del resto, ed è da escludere che a quel "lingue storiche" si volessero contrapporre in quel titolo le "artificiali" (che, a loro modo, peraltro, sono storiche anch'esse). E del resto, annunciare di fare un convegno sugli “uomini mortali”, non lascia intendere che se ne può fare un altro sui "non mortali"? Nell'orizzonte culturale di quell'associazione ci sarebbero quindi anche "lingue non storiche"? E quando si prevede di parlarne? Sarebbe un avvenimento sensazionale. In giro, c'era ovviamente la linguistica storica, qualificata dal metodo e storica per questa ragione. Oggetto di studio della linguistica storica però non si era mai pensato potessero essere delle fantomatiche lingue storiche.
Col convegno palermitano, nascono invece in italiano “le lingue storiche”: chi vuole, festeggi. A Citera, Apollonio non lo fa e mette il lutto: gli pare un'inquietante sciatteria. Chi ha dettato quel titolo voleva dire semplicemente forse “lingue antiche” (e così si diceva in italiano e così si diceva in quell'associazione scientifica che era la più seria e la più pedante e spesso dedicava i suoi convegni alle lingue antiche). Si è vergognato di dirlo? “Antico”, si sa, non usa più. Storico e antico non sono sinonimi, però. O forse, ed è più grave, chi ha dettato quel titolo semplicemente non sa ciò che dice. E, per mostrare di avere gli attributi, ha preso il primo che gli è passato per la testa e l'ha esibito. Per una associazione nazionale di linguisti, un giorno la più seria, la più pedante, non è proprio una bella esibizione.

Lingua loro (7): "disponibile"

I due lettori di Apollonio (in breve fuga da Citera) l'avranno già notato. La gente di mondo non dice più “Vorrei essere eletto alla carica di...”, “Mi candido alla carica di...”. Dice: “Sono disponibile a coprire la carica di...” o ancora “Mi metto a disposizione per la carica di...”. Hanno cominciato politici e sindacalisti. Tra i professori d'università (un tempo razza eletta di snob, oggi tristemente al traino) è tutto un fiorire di disponibilità, adesso. Ne sortisce però un piccolo problema di coerenza. Quando ci si candidava per una carica e si voleva coprirla, si chiedeva voto e sostegno. Oggi, che si è soltanto “disponibili”, quale sarà l'espressione più adeguata per sollecitare un voto? Memore del personaggio di un film di Federico Fellini, Apollonio ha un suggerimento per chi è “disponibile”: si rivolga al suo potenziale elettore con un appropriato “Gradisca”.

3 settembre 2008

Cythère

Pazientino i suoi due lettori: Apollonio è a Citera (pel mondo, s'affanna il suo alter ego). Per colmo di disutilità, sta ancora componendo una sintassi. Potrebbe fare altro, del resto?

11 giugno 2008

Idiomi (2): Bersi il cervello

Chi si beve il cervello, da sempre, se lo beve giovane, come il Beaujolais. A questa regola eterna si ispirerà di certo un'odierna pubblicità che, fintamente giuliva, in realtà intimidatoria, invita a berselo, domandando: "Che età ha il tuo cervello?" "Il mio? Invecchia bene, grazie." verrebbe fatto di rispondere "Ha la stoffa per farlo. Non ho fretta di bermelo".

3 giugno 2008

Idiomi (1): Farci il callo


Se Apollonio ha capito bene, Alessandro Baricco sostiene che il futuro è quel radioso momento in cui si finisce per fare il callo a ciò che oggi pare intollerabile.
Ha ragione e dice (potrebbe essere diversamente?) un'ovvietà. A tutto si fa il callo. Lo si è già quasi fatto anche ad Alessandro Baricco.

2 giugno 2008

Il professor Aristogitone

Ognuno fa il suo mestiere. Apollonio lo sa. Lui un mestiere non ce l'ha e se ne sta acquattato in uno dei pochi angolini del mondo in cui non non gli si chiede ancora (ma fin quando?) di far mostra di una specifica professionalità. Di conseguenza, si guarda bene dall'impancarsi a giudice del benfatto e, soprattutto, del malfatto di chi un mestiere ce l'ha, come coloro che scrivono sui giornali. E che duro e difficile mestiere!
Come ad osservatore distante ma, tutto sommato, forse perciò amichevole e comprensivo, ci sono tuttavia circostanze giornalistiche che gli muovono domande, più che ispirargli critiche o disdegni. E una domanda, che gli piace condividere coi suoi due lettori, ha il fondamento seguente.
Apollonio legge di norma i quotidiani solo quando è in viaggio ma viaggia relativamente spesso. Ebbene, non gli capita più di aprire un quotidiano senza imbattersi in qualche scritto (non solo per esempio di Pietro Citati ma persino, e inopinatamente, di Massimo Gramellini) che non deprechi la barbarie culturale del tempo presente e che non faccia lodi degli anni ormai andati (ritenuti spesso non troppo lontani: di norma quelli della gioventù dell'estensore dello scritto). A quel tempo, vi si argomenta, gli studenti studiavano, la scuola formava cittadini colti e coscienziosi, le librerie erano piene di libri che valeva la pena leggere, le terze pagine dei giornali ospitavano firme di solido e autentico valore, l'italiano non veniva quotidianamente macellato in TV ma, anche lì, coltivato come prezioso fiore in splendida serra, la pervasività della Rete non aveva ancora trasformato tutto lo scibile in un'informe melassa, la gente sapeva distinguere tra l'insulto e l'ironia, i lettori leggevano i giornali in punta di forchetta e i tifosi discutevano al Bar dello Sport, argomentando di fioretto sul modulo.
Non si tratta di falsa impressione di Apollonio. Non è una sua scorretta prospettiva a fargli credere di incontrare sovente scritti giornalistici di vena nostalgico-deprecatoria. Lo dimostra inoppugnabilmente (e non per paradosso) l'impegno pubblicistico e propagandistico di Alessandro Baricco. Fiutata l'aria, Baricco s'è messo opportunamente a cavalcare l'opinione opposta e a cantare a sua volta le lodi non tanto del presente (scemo non è) quanto del futuro. In esso, a parere dell'ispirato aedo, ciò che i Citati (e, inopinatamente, i Gramellini) disdegnano come melassa, lingua macellata, perdita del senso dell'ironia, insulti, rutti, spazzatura e violenza (ivi comprese le sue opere), si costituirà come nuovo canone culturale, per vitale energia d'inarrestabile progresso. E magari il tempo, che è un gran figlio di buona donna, gli darà ragione.
Ma la questione che agita lo spirito sonnolento di Apollonio non sta qui e poco gli cale se i tempi sono culturalmente calamitosi o provvidenziali. Altre volte deve averlo confidato ai suoi due lettori: considera infatti autenticamente calamitosi (e mai vorrebbe trovarseli come compagni a tavola) tanto coloro che li vedono calamitosi quanto coloro che li vedono provvidenziali.
La questione consiste nel fatto che, a petto di questa valanga di disdegni e deprecazioni giornalistiche (e delle correlative “magnifiche sorti e progressive” di Baricco) , molto meno e quasi nulla nella sua esperienza di vita egli ne registra ormai presso coloro (e qualcuno privatamente ne conosce) che, al tempo della sua gioventù (e ci risiamo!), erano i titolari ufficiali del biasimo culturale dei tempi: i professori delle superiori.
Tanto ne erano titolari, da avere ispirato, or sono quasi quaranta anni, una figura antonomastica ad uno dei comici della banda di “Alto Gradimento” (che per la seconda volta viene così menzionata in questo blog): “ne prendo uno, gli metto uno, gli do uno schiaffo e lo schiaffo fuori”. Ineluttabilità dei riferimenti socio-culturali: il professor Aristogitone.
Ecco allora la domanda: che sia oggi il giornalista ciò che un tempo fu il professore delle superiori? Che sia quella del giornalista la figura antonomastica di chi oggi è culturalmente reazionario? Che sia il giornalista l'ideale Aristogitone del tempo presente? E che sia il lettore il suo Armodio?
Se così fosse (e Apollonio lo sospetta), che bizzarra metamorfosi tanto della scuola quanto dei giornali. Che indispensabile correzione di tiro per chi cura o frequenta l'una. E che figura da imbecille per chi, aristarcheggiando, fa le pulci agli altri e li critica come se nulla fosse frattanto successo.
Per un eventuale pensoso commento, ci si rivolga tuttavia a Citati, Gramellini e Baricco.

PS. Un ideale compendio letterario per i licei del futuro, comparabile col già intollerabile Sapegno del tempo che fu, e i suoi irrinunciabili aggettivi deonomastici (che si affiancheranno a dantesco, ariostesco, manzoniano, leopardiano): il mondo citatiano (o citatesco?), la visione gramelliniana (o gramellinesca?), e, soprattutto, visto che di futuro si tratta, la prosa baricchesca (o baricchiana?). Implausibili? No. Questione, come tutto, di farci il callo.

Mehr Licht!

E se Goethe avesse vissuto la sua non breve vita, attraversato in lungo e in largo il suo mondo, composto la sua opera monumentale solo perché gli si potesse dubitativamente attribuire, a chiuso compimento del suo percorso, l'effimero lampo d'uno zolfanello nominale?

19 maggio 2008

"Linguaggio e cervello"

Si avvicina a grandi passi la stagione 2008 dei convegni delle società scientifiche: piante i cui frutti maturano soprattutto in autunno, come ognun sa. In gemma, se ne cominciano a conoscere i temi, che sbocceranno poi come programmi e consentiranno infine ai convenuti di nutrirsi a sazietà di relazioni e comunicazioni.
La Società di Linguistica Italiana si riunisce alla fine del prossimo settembre a Pisa. Il tema del convegno suona impressionante: "Linguaggio e cervello".
Che una società di studiosi del linguaggio si occupi di linguaggio non stupisce. Quanto a cervello, si sa, è parola alla moda e l'epoca pare favorevolissima alla sua evocazione. Non sarà Apollonio a ricordare ancora una volta ai suoi due lettori che, quando una parola comincia a ricorrere sovente nei discorsi di un'epoca, è perché, in un modo o in un altro, essa vive una situazione critica e le arti (in apparenza sottili, in realtà brutali) del Newspeak l'hanno già designata a propria vittima. Forte è il sospetto che sia oggi il caso anche di cervello. A ciò si aggiunga che, magari, c'è oggi qualcuno che crede che, a forza di parlarne, gli cresca.
Comunque sia, a chi s'è a fatica costruito un modo di (s)ragionare in un'epoca che pare ieri ed è invece irrimediabilmente lontana, una coordinazione come la si vede in quel titolo non può non ravvivare una libido: la classificazione per tratti e per opposizioni, disusato malvezzo che si contraeva leggendo Jakobson.
"[±Linguaggio] e [±Cervello]", allora, e quattro combinazioni possibili. Per definizione, relazioni e comunicazioni, tutte, saranno marcate positivamente quanto al primo tratto. Potrebbe essere istruttivo e divertente (per aver cura dell'utile e del dilettevole) sapere quante, invece, lo saranno anche per il secondo. Quante, insomma, non saranno chiacchiere.
I convegni, si sa, nutrono gli spiriti ma possono essere noiosi come, nutrendo i corpi, lo sono (e calamitose, e interminabili) le relative cene sociali. Per passatempo, Apollonio propone così l'esercizio classificatorio a chi si troverà ad essere presente al convegno di Pisa e alla consustanziale cena sociale. Mal che vada, tra uno sbadiglio e l'altro, tra una comunicazione e una relazione, tra una portata e l'altra, gli servirà "a ragionar per isfogar la mente".

20 aprile 2008

Sanzionare "reazionare"?

Come milioni di telespettatori, Apollonio ha assistito qualche sera fa ad una telecronaca sportiva con commento tecnico affidato a Beppe Dossena, il campione del mondo ’82 e ex-centrocampista del Torino. Durante tale telecronaca Dossena si è servito del verbo reazionare, coniugandolo a più riprese: uno degli aspetti più spassosi della serata, per Apollonio, contento di sentire l’italiano, come ogni lingua viva, farsi in diretta (televisiva). Due parole di spiegazione, per chi quella sera faceva altro. Per Dossena, reazionare stava per ‘avere una reazione’, ‘reagire’. Incassato un gol, la squadra soccombente esitava a “reazionare”, secondo Dossena.
I tempi, si sa, sono calamitosi per definizione. Quelli della lingua, lo sono di più. Tempi calamitosi producono censori di (mal)costumi e loro pubblici fustigatori. C’è calamità peggiore? Ed è così che, per esempio, sulla prima pagina della Repubblica, tra le notizie d’altre disgrazie, una firma prestigiosissima si è lanciata qualche settimana fa in lodi, a suo dire, postume per il “punto e virgola”: un autentico coccodrillo, come si dice in gergo giornalistico. Il segno d’interpunzione vi era decretato deceduto o in coma irreversibile, a far così compagnia al congiuntivo, buonanima, la cui morte ha, nei discorsi degli specialisti di congiuntivi, un numero di menzioni inferiore solo a quello che la scomparsa delle stagioni ha nelle conversazioni in ascensore. Questo è l’andazzo e non ci si può far nulla.
Non ci si stupirà perciò del fatto che reazionare non sia passato inosservato. Il 18 aprile (ancora una volta, la Repubblica: ma non è rilevante) Stefano Bartezzaghi dedica la sua quasi quotidiana rubrica a quel che considera un “neologismo” e racconta ciò che qui si è già riferito. La chiave del pezzo è d’amara e rassegnata condiscendenza. Vi si presuppone anche nel lettore la sanzione della sconvenienza di reazionare e la ripugnanza per il degrado linguistico. Sono sentimenti che vanno da sé, non vale la pena neppure di renderli espliciti: “…è l’italiano bricolage, amici; e non ci si può far nulla”.
Sul fatto che non ci si possa far nulla, è difficile dissentire. Non ci si può fare nulla soprattutto perché reazionare per ‘avere una reazione’, ‘reagire’ (abbia o no un futuro) sembra fatto apposta per confermare la fondatezza di un principio del mutamento linguistico individuato da gran tempo: l’analogia. Reazionare è costruito a partire da reazione. Basta un attimo per rendersi conto che (un esempio per tutti) reazione sta a reagire proprio come sanzione sta a sancire. Qualche Dossena del tempo che fu deve essersene impipato dell’esistenza di sancire, verbo peraltro irregolare. E lavorando di taglio e cucito anche con i significati, da sanzione deve avere rifatto un verbo regolare: sanzionare. Oggi a Bartezzaghi ciò torna comodo nella sua sanzione di reazionare, che non è certo l’atto con cui egli lo sancisce.
Ci si scandalizzerà allora se, oggi, un Dossena se ne impipa di reagire (anch’esso irregolare) e da reazione fa un regolare reazionare? Lavorando in futuro di taglio e cucito con i significati, chissà che ciò non venga comodo ad un Bartezzaghi di domani. Anzi, a dirla tutta, viene già comodo al Bartezzaghi d’oggi, perché gli dà modo (direbbe Beppe Dossena) di “reazionare” a reazionare, sconsolato.
Sconsolato, poi, perché? Ammesso che Dossena sia responsabile dell’uso intransitivo di cui s’è detto, reazionare non è affatto un “neologismo”. Primo, se ne conosce un uso tecnico nella lingua specialistica dell'elettronica (una ricerca con Google e se ne trovano esempi in rete). Secondo, lo scrittore Riccardo Bacchelli si servì del suo participio passato, reazionato, per qualificare (pensa un po') ciò che 'è bilanciato da una reazione contraria' (e il Grande Dizionario della Lingua Italiana gli consacra una voce). L’idea del bricolage non è malvagia, dunque, ma forse si tratta anche di un bricolage d’autore.
In conclusione, la vicenda lascia in Apollonio due dubbi, uno particolare e uno generale, e chissà se uno dei suoi cinque lettori può aiutarlo a scioglierli.
Il dubbio particolare: lingua-bricolage di chi parla e scrive o linguistica-bricolage di chi censura e fustiga?
Il dubbio generale: non saranno per caso troppo aristocratici, non avranno troppo la puzza al naso gli intellettuali italiani, per capire una cosa semplice, popolare e democratica com’è il continuo e sistematico farsi della lingua, tanto sotto la penna di un Riccardo Bacchelli quanto sulla bocca di un Beppe Dossena?

15 aprile 2008

Da un papa a un altro

"Il cervello non è relativista" strilla il titolo principale della sezione Cultura del Corriere della Sera del 14 aprile 2008. Massimo Piattelli Palmarini (professore di Scienze Cognitive all'Università dell'Arizona e autore di un libro in uscita per Einaudi, precisa un riquadro) intervista Noam Chomsky (professore emerito di Linguistica al MIT e autore di un libro recentemente riedito da Baldini Castoldi Dalai, precisa lo stesso riquadro). Il titolo - redazionale, certo - riassume per i lettori il pensiero di Chomsky, "il Galileo delle scienze cognitive e il Copernico della linguistica" di cui Piattelli Palmarini si fa ancora una volta araldo sulle pagine dell'importante quotidiano.
Su cosa significhi relativista capiterà una volta o l'altra ad Apollonio di fare qualche modesta riflessione. Mentre il giornale andava in stampa, però, Benedetto XVI atterrava per una visita pastorale nel paese da cui il verbo di Chomsky s'è diffuso nel mondo e in cui insegna Piattelli Palmarini. E non c'è personalità della cultura occidentale che negli ultimi anni abbia condotto una battaglia contro il relativismo più inflessibile di quella del capo della Chiesa Cattolica.
La casuale coincidenza temporale s'incarica così di evocare un parallelismo forse irriverente (decidano i due lettori di Apollonio per chi) e si svela, occasionalmente, qualcosa che, a ben vedere, sorprende poco chi sa un po' di linguistica e ha seguito negli ultimi decenni gli sviluppi di tale disciplina.
Del resto che un papa, qualsiasi papa di qualsivoglia chiesa non ami il relativismo è ovvio ma è altrettanto ovvio che, senza l'occasione della battaglia contro il relativismo, un papa che ci starebbe a fare? È la relazione reciproca che garantisce l'esistenza (morale e intellettuale) dei papi come del relativismo. Finché ci saranno papi, ci sarà relativismo. Finché ci sarà relativismo, ci saranno papi. E il finché non è certo un modo per dire che un radioso giorno sarà diversamente. Papi e relativismo, pensa Apollonio, non scompariranno mai. Sta appunto alla scienza, a quella quieta, scettica e priva di enfasi (si dirà alla scienza vera?) schivare tanto gli uni quanto l'altro.
I lettori diranno che il paragone tra Chomsky e il papa è un'esagerazione e che non hanno mai visto il primo ma solo il secondo con mitra (scherzi delle omonimie...) e abito bianco. A smentirli, nella sostanza (perché l'abito non fa il monaco), provvede Piattelli Palmarini, genuflesso. Anzitutto egli disegna per brevi tratti il suo personale percorso di catecumeno: "Prima di dargli [a Chomsky] la parola... vorrei citare solo alcuni dati di fatto [altrimenti, senza l'evidenza dei "dati di fatto", Palmarini che scienziato sarebbe?]. Da molti anni leggo i lavori di grammatica generativa..., ho a suo tempo seguito dieci interi corsi semestrali di Chomsky al Mit e circa altri dieci di linguisti suoi colleghi e collaboratori. Ciò nonostante, non ho problemi ad ammettere che molti dettagli tecnici ancora mi sfuggono". Con un paio di osservazioni, egli qualifica poi il carattere labirintico del credo chomskiano e la sua indiscutibilità (se non interna al credo medesimo): "Il messaggio, qui, è che si tratta di una scienza immensamente complessa e profonda e che ogni ritocco a un'ipotesi, a un teoria, riverbera con inevitabili ritocchi su molte altre ipotesi e teorie e su dati già noti per varie lingue. Sbalordisco quando vedo criticata con sicumera la grammatica generativa da chi, con ogni evidenza, ne sa poco o niente". E finisce per disegnare il quadro perfetto di una chiesa: "Un altro dato, diciamo [ma sì, diciamolo], demografico: hanno contribuito a questa scienza, nel corso di mezzo secolo, circa duemila studiosi, in vari Paesi. Importanti ricadute della teoria e notevoli conferme sono venute anche da altri campi come la genetica, le neuroscienze, le simulazioni su calcolatori, le patologie del linguaggio, la psicologia animale. Formidabile è stato il potere di attrattiva di questa scienza su menti [o su cervelli? La questione non è priva di senso] di straordinario calibro, su studiosi di matematica, fisica, ingegneria, scienze di calcolo e biologia."
Dal lato della parte rappresentata da Benedetto XVI, gli anni non sono cinquanta ma più di duemila, le folle di tributari sterminate e, quanto a menti somme, solo per far tre nomi, ci sono quelle di Paolo, di Agostino, di Tommaso. Dopo di che, c'è qualcuno che, secondo gli scientifici e non relativisti criteri di Piattelli Palmarini, potrebbe osare mettere in dubbio il fatto che il papa, campione come Chomsky della lotta contro il relativismo, ha senza dubbio ragione?
E infatti qui si è lungi dal volerlo mettere in dubbio: scherza coi fanti e lascia stare i santi. Su Chomsky, però, sul "Galileo delle scienze cognitive", sul "Copernico della linguistica", Apollonio - il cui spirito è sonnolento e si sveglia di cento anni in cento anni - propone di riaprire la discussione tra qualche secolo. Allora, forse, si capirà meglio se di un Galileo, di un Copernico si è trattato o di uno dei tanti falsi profeti periodicamente osannati da molti fedeli autentici, che per evidenti problemi d'incontinenza non riescono a trattenere l'iperbole ("immensamente complessa", "importanti", "notevole", "formidabile", "straordinario calibro") e, appena s'accostano al loro idolo, se la fanno addosso, non peritandosi (come usa adesso) di raccontarlo a tutti sul giornale (sul relativismo segue un commento di Altan).

11 aprile 2008

Del merito (e del metodo)

Da qualche tempo – delle ragioni di questa contingenza cronologica magari si dirà un’altra volta – capita spesso, anzi sempre più spesso di sentir parlare o leggere del merito, con l’articolo determinativo.
Non c’è discorso o scritto di chi si presenta pensoso delle sorti italiane (sia esso uomo politico, imprenditore, editorialista, accademico e così via) che non riservi al merito il posto d’onore che si dà alle parole-chiave, ai concetti che contano, alle idee da cui oggi non si può prescindere e meno, si dice, lo si potrà domani.
Ci si faccia caso. Le espressioni pubbliche delle menzionate categorie (tutta classe dirigente e intellettuali: destra o sinistra non fa differenza) hanno sempre l’impronta del dovere e quella, correlata, del futuro. Ammoniscono. Profetizzano. Lusingano e minacciano.
E la minaccia ad ogni generico concittadino presuntivamente non-meritevole, come la lusinga a ogni ancor più generico presuntivamente meritevole è la seguente. In società – dalla scuola all’amministrazione, dalla politica all’azienda – tutto andrebbe fatto in funzione del merito. E presto del resto lo sarà. Chi merita o meglio chi ha il merito andrà premiato, pagato di più, lodato, promosso, gratificato, messo in grado di operare, di dirigere, di comandare. C’è niente del resto di più ovvio nel mondo?
Chi merita merita insomma il paradiso, o almeno quel surrogato di paradiso che è in grado di fornire l’approvazione sociale umana che va sotto il nome di successo. E dal successo di chi merita, il bene del merito si riverbererà di necessità sul bene di tutti. L’impianto, come si vede, è quello dell’utopia: l’utopia del merito.
Parlare del merito, con l’articolo determinativo, del resto, dà lustro e merito a chi ne parla e, assodato che sono i meritevoli a parlare del merito, darsi il merito di parlarne è appunto già premiarsi, lodarsi, promuoversi, gratificarsi etc.
Anche l’utopia del merito (l’“andrà meglio domani” che essa contiene) è però un’utopia. Ed esperienza moderna insegna che le utopie assicurano da subito qualche vantaggio a chi se ne propone come realizzatore. Diverso è il caso di coloro che le subiscono. All’eventuale incasso dei vantaggi, costoro sono invitati a passare sempre dopo avere dato, e con larghezza. Se non possiedono altro, col credito all’utopia avranno almeno rinunciato alla propria libertà di pensare (che non è ricchezza da poco).
S’aggiunga che, quando d’improvviso una parola che è un nome comune prende stabilmente l’articolo determinativo e comincia a ricorrere su troppe labbra, ragionevolezza critica vuole che se ne cominci a diffidare. Non solo perché la ragionevolezza critica non santifica niente e nessuno: e non si farà un’eccezione col merito. Ma anche perché una parola che ricorre su troppe labbra è sospetta e chiama di necessità una domanda. E se si trattasse di uno degli infiniti travestimenti dell’ineluttabile stupidità umana? D’una stupidità furbastra però, e declinata nei soliti modi delle classi dirigenti italiane.
Il merito, naturale oggetto di valutazione, è infatti quanto di più opinabile e qualsiasi discorso ne tratti incorpora la necessaria premessa dell’espressione di un punto di vista relativo. A coloro che oggi (prima cioè della supposta nascita dell’erigenda città del merito) sono premiati, pagati di più, lodati, promossi, gratificati etc. non fa e non ha mai fatto difetto un merito. Il merito è in fondo sempre un merito ed è certo un merito (e forse la sua migliore realizzazione ideale) il merito di capire come acquisire privilegi in una data situazione. Il merito migliore è insomma l’adeguatezza a luoghi e tempi: quanto di più variabile.
Che ci creda o no, che ci sia o ci faccia, chi oggi parla del merito con articolo determinativo in termini di nuova utopia (e gode del privilegio di farlo) pretende invece di stare sull’assoluto, almeno quanto ad un altro aspetto cruciale della questione: il proprio indiscutibile titolo a presentarsi come araldo del merito, quindi a perpetuare il proprio privilegio. Il suo modello è insomma, come sempre, il prete.
Tematizzare il merito, perché pensosi del futuro della scuola, della nazione, del mondo, è porsi fuori della mischia – in fondo volgare – di chi del merito non è investito per elezione o per eredità e deve, poverino, eventualmente dimostrare di possederlo.
Il tanto parlare che oggi si fa in Italia del merito è allora una guisa del solito costume intellettuale della classe dirigente: porre se stessa al riparo dalle tempeste della vita, costituendosi come ceto mandarino di chierici, cui s’accede perché prima chiamati, quindi eletti. E nessuno dirà che sapere fare ciò non sia un merito.
Orbene, quando è singolare e conduce a gesti singolari, vocazione (e pretesa di elezione) è follia individuale: ridicola, magari, e raramente pericolosa per gli altri. Quando però è plurale e collettiva e riguarda un ceto (o un partito o una chiesa o un popolo), una vocazione (con la pretesa d’elezione) fa ridere pochissimo, perché è il modo più sofisticato e perverso di realizzare una tra le attitudini umane peggiori: il conformismo.
Un ceto che riconosce per se medesimo un merito elettivo è peraltro intrinsecamente destinato ad essere conformista. Va ancora peggio se merito e privilegio non riguardano la sfera materiale ma la sfera morale, del pensiero e della conoscenza.
Si sbaglia infatti a credere che il conformismo colpisca le minoranze cosiddette intelligenti meno delle masse di comuni mortali. E non è vero, per stare alla scuola e alla formazione, che gli studenti qualunque di una qualunque università “di massa” siano destinati a essere mediamente più conformisti e meno creativi di coloro che frequentano una scuola di eccellenza, di quelle tradizionali come di quelle che oggi nascono in Italia come funghi (sia detto a margine: eccellenza, eminenza sono parole che in Italia hanno fascino eterno!).
Al contrario, il conformismo è uno dei tratti distintivi dell’habitat naturale delle cosiddette minoranze intelligenti come ceti mandarini. E il già menzionato proliferare di iniziative didattiche di presunta eccellenza, in Italia e nel mondo, a scapito del perseguimento in buone condizioni di una leva culturale generale produce già in proposito gli attesi effetti negativi. Senza il salutare effetto prodotto dal caso di una continua nuova ricombinazione ideale, il conformismo cresce e non basta l’eventuale efficacia sociale a fare della stupidità coltivata in tali serre-laboratorio una forma d’intelligenza.
Si aggiunga che gli esiti del conformismo investito di una (vera o falsa) missione di redenzione (non si dimentichi quanto si diceva su dovere, futuro e articolo determinativo) sono di norma i più biechi e, talvolta, anche i più dolenti per la massa degli altri: nel caso qui in discussione per la povera umanità di (presunti) non meritevoli da piegare alla logica del merito, con articolo determinativo.
Insomma, non sarà l’utopia del merito a far vivere meglio l’umanità, tanto meno l’Italia. Per muoversi in tale direzione (ammesso che ne valga la pena), la condizione fondamentale è infatti che si abbia coscienza vera e profonda che non del merito si tratta ma, come sempre, di molti meriti diversi e delle loro relazioni sistematiche, armoniche o conflittuali che esse siano.
Conclusione, modesta. Ci si vuole mantenere vigili e critici? Si pensa che l’obiettivo da perseguire in classe e tra i banchi sia la formazione di ciascuno come un libero essere umano, non come un utile idiota né come una replica conformista di un’imperante stupidità (fosse anche la stupidità di maggior contingente successo)? Si prenda allora coscienza del fatto che meritano pochissimo d’essere ascoltati i discorsi di chi parla del merito con articolo determinativo come nuova regola per la vita sociale di tutti. Ragionevolmente, è un (in)consapevole imbroglione. Il merito di cui parla è quello che attribuisce a se medesimo. Si sta solo lodando e, con tali lodi, mira a perpetuare le condizioni che consentono il suo immeritato privilegio.

9 marzo 2008

Cruciverba

Uno schema di parole crociate è “un sistema di contrainte[s] primarie in cui la lettera è onnipresente ma da cui il linguaggio è assente”: sono parole di Georges Perec e stanno quasi in conclusione del libro di Stefano Bartezzaghi, L’orizzonte verticale. Invenzione e storia del cruciverba, Einaudi, Torino 2007, di cui Apollonio ha avuto il piacere di discutere a Palermo il 23 febbraio scorso, alla presenza dell'autore.
Per Bartezzaghi, le parole di Perec sono “una definizione di impareggiabile pertinenza”, degna (c’è da pensare) di stare tra quelle proposte in un cruciverba per la sequenza di lettere “CRUCIVERBA”.
Il linguaggio, assente dal cruciverba? Più che un paradosso, sembra una voluta falsità, messa lì solo per stupire. Invece Perec ha ragione e Bartezzaghi fa bene a citarlo.
Cos’è un cruciverba? Un insieme di assi cartesiani interconnessi. Ciascuna coppia verifica al suo incrocio, quindi in corrispondenza dello zero, l’appropriato valore combinatorio di una lettera. Ovviamente, non si tratta minimamente di una proprietà specificamente linguistica. Si tratta (ed è ovvio che sia così) dell’effetto di una convenzione ludica. Tale convenzione sfrutta la scrittura e la scrittura (contrariamente a quanto si è indotti a credere in un modo di alfabetizzati) è anch’essa ben lungi dall’essere una proprietà intrinseca del linguaggio. Quella alfabetica (che è, in ultima istanza, l’invenzione fondamentale cui fare rimontare l’invenzione del cruciverba) rappresenta i suoni, che in modo impercettibilmente continuo si susseguono variando sulle labbra dei parlanti, segmentandoli in unità arbitrarie disposte serialmente.
Nel cruciverba, si decide convenzionalmente di proiettare queste serie di rappresentazioni di una realtà linguistica ricondotta a una serie discontinua di relazioni combinatorie da sinistra verso destra (ed è l’orizzontale) e dall’alto verso il basso (ed è il verticale). Il tipo di relazione (si badi bene) è esattamente il medesimo (ed è quello istituito dalla scrittura alfabetica, appunto) ed è solo l’orientamento arbitrario del cruciverba che ne istituisce l’ortogonalità.
In linea di principio, dato un insieme di lettere, costruire un insieme interconnesso di coppie di assi cartesiani del genere sarebbe un’attività infinita e quindi di nessun interesse, se appunto (come dice Perec) non intervenisse la contrainte. Ed è questa restrizione che avvicina il cruciverba non al linguaggio ma alle lingue (i due concetti infatti non coincidono affatto), anzi ad una specifica lingua: l’inglese, l’italiano, il francese e così via.
La verifica del valore appropriato della lettera che si trova all’incrocio dei due assi cartesiani si fa infatti in funzione di due entità che travalicano ovviamente la singola lettera: di due parole, due parole riconoscibili come parti del lessico di una lingua.
Ora, per un linguista, sapere che cosa sia una parola è veramente un problema. Anzi, la natura della parola è per il linguista un autentico mistero, uno dei tanti del linguaggio umano (e a chi non è linguista ciò potrà sembrare prova della pazzia o piuttosto della stupidità dei linguisti: non si saprebbe dargli torto).
Per intuire la portata della questione, però, non serve tediarsi con l’elenco anche approssimativo della miriade di aporie che ciascun tentativo di catturare un concetto di parola provoca nei trattamenti scientifici e tecnologici del linguaggio. Basterà riflettere un momento sul fatto che il normale comportamento linguistico umano è lungi dall’essere costituito da semplici parole e, a pensarci bene, le parole sono il risultato di un processo di astrazione, consapevole, che prende determinati pezzi dai discorsi che continuamente gli esseri umani producono per esprimersi e per comunicare e, riconosciuta a tali pezzi una qualche stabilità, li colleziona. L’operazione, a dire il vero, è in sé tutt’altro che facile e immediata. Lo si capisce quando si tenta di farla ascoltando l’eloquio di chi parla una lingua a noi ignota: riconoscervi le parole è impresa disperata. Il vocabolario è nella nostra cultura l’oggetto più immediatamente e intuitivamente associabile alla lingua. In realtà, esso è un oggetto tecnologicamente e ideologicamente molto complesso e per nulla immediato, dal punto di vista linguistico.
Si lascino tuttavia tali astrusità e si torni al cruciverba. Cos’è allora una parola nel cruciverba (e, in fondo, anche fuori di esso)? E’ un luogo comune linguistico, un cliché, qualcosa che (senza che si sappia il come e il perché) si riconosce come appropriata e familiare. Insomma ciò cui si è accostumati, uno dei tanti solchi in cui giace e si agita la nostra mediata consapevolezza, inconsapevole di essere mediata e, di conseguenza, inconsapevole di sé.
La contrainte del cruciverba, insomma, non è una di quelle contraintes di cui di tanto in tanto si mettono a caccia le scienze dell’uomo quando sognano di fare della ricerca fondamentale: quelle contraintes, insomma, che, limitandolo, fanno di un essere umano un essere umano (senza contrainte, lo si capisce, si sarebbe dio o, più probabilmente, il nulla). No, si tratta della banale contrainte sociale che ammette certe cose e ne esclude altre in funzione di una normalità scambiata, normalmente, per la sola possibile, ma che la sola possibile non è mai.
La prova di quel che si sta dicendo?
“Sono buoni soltanto in Svizzera”: ALBERGHI.
“Celebre per la coda del suo cane”: ALCIBIADE.
“Al solo vederla deve batterci il cuore”: BANDIERA.
“Dea della castità”: DIANA.
“Non accordava mai il violino”: PAGANINI.
No. Non si tratta delle definizioni (con le relative soluzioni) di un cruciverba che Apollonio si è trovato sottomano. Si tratta invece di alcune sottises (tra le centinaia ben appropriate) tratte allo scopo e solo dopo un minuto di consultazione dal Dictionnaire des idées reçues di Gustave Flaubert. Con qualche decennio di anticipo (non si è intelligenti per nulla, del resto) sull’invenzione del cruciverba negli Stati Uniti, lo scrittore francese individuava così (e solo a margine della sua titanica impresa di rappresentare la stupidità moderna) la contrainte di cui parla Perec.
E la contrainte della parola come luogo comune e della definizione come studiata variatio nei modi di alludere alle proprie ed altrui sottises è quanto nel Novecento avrebbe fatto diventare fenomeno di massa, fenomeno comunicativo e di costume di primaria grandezza il gioco, in sé deliziosamente demente, di combinare parole su assi cartesiani, valorizzandone le lettere in incrocio sulla base di un lessico: facendolo diventare, per dirla con Robert Musil, una rappresentazione perfetta di “stupidità sostenuta” o “intelligente”. In altre parole, una prova dell’adeguatezza personale ad un opportuno livello di gestione del luogo comune. E allora, quale secolo più appropriato al cruciverba del Novecento? Le invenzioni non avvengono a caso: quando arrivano, vuol dire che sono mature.
La storia dell’epifania e dell’affermazione di questa faccetta dello spirito del tempo è quanto racconta appunto il bel libro di Stefano Bartezzaghi, che diverte istruendo chi, come Apollonio (che non ha onta ad ammetterlo), non s’era mai fermato a riflettere su quegli schemi di quadratini bianchi e anneriti se non per risolverli riempiendoli di lettere. E perciò non sospettava nemmeno che essi nascondessero una vicenda tanto rivelatrice, tanto socialmente rilevante come quella presentata da Bartezzaghi, con capacità di narratore e storico puntiglioso e preciso.
Su un tema in apparenza così futile e disteso, l’autore compone un autentico controcanto della storia culturale dell’Occidente nel Novecento. Rivela così un intreccio nascosto, il cui scenario non sono campi di battaglia, stanze dei bottoni, biblioteche o laboratori scientifici, ma tinelli piccolo-borghesi e vagoni di metropolitane colme di pendolari, come Bartezzaghi sottolinea con acutezza e puntiglio. Luoghi emblematici delle sorti della nostra civiltà.