23 ottobre 2021

Onomastica cinematografica: "France de Meurs"

Non c'è œ nella resa grafica del cognome della protagonista del film France di Bruno Dumont (a Cannes di recente e in questi giorni nelle sale. Deserte: Apollonio incluso, due spettatori, un venerdì sera alle 20.30, in un vecchio cinema da quattrocento posti). Non c'è œ, si diceva, perché, se ci fosse stato, l'esito sarebbe stato smaccato. Già così in France de Meurs si riconosce in effetti un nome parlante, fin troppo facilmente. 
La pellicola declina con insistenza per iscritto le generalità della sua protagonista, che nell'orale è emblematicamente sempre solo France. Come se Dumont fosse preoccupato che a spettatori e spettatrici il dettaglio sfuggisse e che, di conseguenza, non cogliessero tra l'altro l'invito a rovesciare l'ordine della sequenza intorno alla preposizione: France de Meurs -> Mœurs de France, 'Costumi di Francia'.
Forse sta in questa attitudine il maggior limite di un film per altri versi con qualche pregio, che tuttavia cela appunto poco efficacemente di essere garrulo ed esplicito o, se si vuole, rivela palesemente di volere essere allusivo e implicito. E la televisione, che è uno dei temi dell'enunciato, non per mimesi narrativa pare così contagiare con i suoi modi ridondanti e grossolani l'enunciazione cinematografica.

7 ottobre 2021

Svagarsi, scherzando, con Italo Calvino (1)

Città
, significato e significante, è parola che costituisce uno dei temi d'elezione dell'espressione di Italo Calvino, come si sa. 
Nei primi anni Cinquanta, città compare emblematicamente come singolare e indefinita, più che indeterminata: ha insomma carattere di precisa vaghezza. Così nelle favole che dicono quale sia in proposito l'Erlebnis del manovale Marcovaldo. 
In quelle favole, città è vaga e visibile, forse fin troppo visibile, come insegne, semafori e vetrine e, per un contrasto che si rivela ambiguo, funghi in città. Città umana, troppo umana, per lo spirito naturale del manovale. Naturale e natura, si badi bene, con un valore molto diverso da quello oggi divenuto corrente. Ma di ciò eventualmente un'altra volta.
Venti anni dopo nell'espressione di Calvino, città si fa plurale, come è noto, e si definisce, proprio nel momento in cui interviene la qualificazione di invisibili. Può parere un paradosso. È invece la determinazione di un requisito per una definizione descrittiva: ciascuna ha il suo nome. Proprio. Una diversa Erlebnis, quella di Marco Polo, ne offre il catalogo in ordine narrativo a una sistematica speculativa. La esercita Kublai Kan, quasi sempre silente, nel suo giardino.
A margine, è spassoso come un gioco osservare che invisibili è una parola mono-vocalica, proprio perché la sintassi la vuole al plurale e la morfologia ne consegue. Così, le sue cinque sillabe contengono il medesimo apice: [i]. E sono [i] le vocali che in Ìtalo Calvìno hanno l'enfasi dell'accento e che dunque, per il loro rilievo, caratterizzano nome e cognome.
Forse, l'accidente ecciterà la fantasia di chi ha un debole per il fonosimbolismo: l'acuta altezza di [i], in funzione dell'opera e del suo autore, non mancheranno di dirgli o di dirle qualcosa. Come è a sua volta cabalistico osservare che, a livello grafico, c(ittài(nvisibili) rovescia l'ordine delle iniziali di I(taloC(alvino). 
Ma appunto nell'intenzione espressiva dello scrittore, un titolo (non solo quel titolo) era d'elezione definito, evidentemente, come definito (e definitivo: ne varietur) era il testo cui esso era apposto: un'opera chiusa. Il pedaggio fu un articolo determinativo che ad Apollonio piace di tanto in tanto immaginare si dilegui: "Città, tutte e solo quelle, Ìtalo, invisibili? E se putacaso, fuori della tua alta fantasia, città parimenti invisibili, ce ne fossero altre?"