29 settembre 2015

Trucioli di critica linguistica (22): Attaccarsi al tram


Ha spirito chi cura la comunicazione dell'azienda di trasporti pubblici di Zurigo, che di passaggio illustra anche gustosamente, ai suoi utenti di innumerevoli fedi e nazioni, qual si mantengano i rapporti di reciproca considerazione tra tribù germaniche diverse, quando una di queste sia idealmente rimasta libera di esprimersi in proposito e non sia stata ubriacata dai nazionalismi europei del Moderno, la cui stoffa s'è fatta chiara nel Novecento (anche gli Italiani dovrebbero saperne qualcosa).
Sopra uno sfondo immacolato e specchiante (il suo ambiente: l'ambiente cittadino), ecco la vettura tradizionale e rilucente della linea di trasporto pubblico che ha il verde come tratto cromatico d'identificazione. 
E soprattutto lo schiaffo, tanto più ironico perché crucialmente riferito alla lingua, di riportare Volkswagen alla sua natura di nome comune, alla sua schietta referenzialità, alla piana efficienza quotidiana di ciò che designa o dovrebbe o avrebbe dovuto designare, se in un momento sommamente infausto per la storia d'Europa l'espressione non fosse stata ideologicamente innalzata al rango di nome proprio, di marca, di emblema di un sistema in cui la ragionevolezza precipitava. Cosa che la ragionevolezza continua forse a fare, malgrado le apparenze, e su scala planetaria. 
Per cui, vien fatto di pensare a un italofono in libera interpretazione associativa, la sola risorsa che rimane è di attaccarsi al tram.

26 settembre 2015

Caratteri (19): I primi della classe



Lo sanno, i primi della classe, d'essere già a stento tollerabili. E sanno anche che cessano d'esserlo appena s'accostano alla lavagna per fare la lista dei buoni e dei cattivi. Ma l'infame vizio li possiede.

A frusto a frusto (97)





Solo l'ammissione serena dei propri errori e lo spassionato racconto delle proprie sconfitte sono in grado di reggere il peso di un io. Ed è d'uopo ricordarsene quando s'apre bocca o s'impugna una penna.

25 settembre 2015

Trucioli di critica linguistica (21): Testa e mano (e Vasco Rossi col pretesto di Roman Jakobson)


Sta alle cose elementari l'espressione di Vasco Rossi, di cui altre volte in questo diario si è appunto detto - e facilmente - che, come personaggio della sua opera (come essere umano, chi lo sa?), tra tutte le persone grammaticali, sta probamente ancorato a un io. 
Né pretende di dare voce a nessuno, se non a ciascuno che stia appunto ancorato alla sua propria prima persona e, nell'eventualità, senza identificarsi, trovi ragione di prendere a prestito quelle fin troppo semplici parole. 
Una via all'universale, insomma, temperata dalla stretta adesione all'italiano e, di nuovo, a un italiano elementare - ma come potrebbe diversamente, visto che della rivendicazione di un io e della relativa esperienza si tratta? 
Ne consegue un'attitudine che s'astiene ovviamente dalla retorica, principalmente da quella per il bene che inquina talvolta la pur non disonesta vena dell'altro e di un decennio più giovane rocker emiliano, per tale ragione più facilmente nell'orbita del noi e del conseguente difetto d'ironia. Anche sui diversi accostamenti al luogo comune e alla frase fatta dei due ci sarebbe da rilevare contrasti ma Apollonio si riserva di tornarci, ci fosse l'occasione, in un futuro frustolo.
Qui, il tema, anzi, i temi sono testa e mano: tra quelli che i due fedeli lettori di questo diario conoscono già come chiodi fissi di Apollonio forse perché metonimie d'elezione del tratto pertinente di umanità, contro il quale la sua riflessione urta incessantemente, come urta contro un vetro il volo di una mosca attratta da ciò che al suo apparato visivo si presenta come luminosità diurna.
A combinarsi segnicamente con la canzone (a sua volta unione segnica di musica e parole), c'è infatti una narrazione per immagini anch'essa elementare per contenuti e struttura e i cui protagonisti sono appunto, metonimicamente, la testa e la mano, qui e nel séguito al singolare, ma con valore eventualmente collettivo. 
Nella narrazione, testa e mano sono complementari per genere (non grammaticale: l'una è maschile e non è glabra, l'altra non è maschile e non ha peli), per numero (l'una singolare, l'altra, secondo le circostanze, quindi in modo non-marcato, singolare o plurale) e per persona. 
Titolare nell'enunciato dell'enunciazione, la prima (persona, maschile, singolare) canta, appare immediatamente ed è sostanzialmente fissa (pur nel cambiamento dell'inquadratura, in un paio di occasioni di profilo). La seconda (persona, non-maschile, non solo singolare) compare quando la storia ha già preso l'avvio, è in continua e sinuosa agitazione, talvolta è carezzevole ma la sua ultima interazione, con la prima, è uno schiaffo. 
Talvolta sola in scena in funzione di variatio coreografica, per il resto, in rapporto sintagmatico con la testa, la mano, da un lato, fa da muto controcanto, dall'altro, da muto commento. Sopra uno sfondo nero, accompagna per opposizione (come s'intende con chiarezza nel momento in cui si trova a coprirle) due loquaci isole celesti e il loquace andamento rosa delle labbra, disponendo, sopra un opportuno pallore contrastivo, cinque o dieci mobili macchie vivamente rosse, in funzione del momento narrativo.
Quante volte è il titolo della canzone e, del resto, il nesso che, per iterazione se ne fa l'emblema: appunto, a mano a mano. 
E il vaso o i vasi, dai tenui coloriti rosa o celeste, che, in fase di esplosione e per nebulosi frantumi, da un certo momento in avanti occupano, per opposizione paradigmatica, lo spazio figurativo della testa, rivelano, sul limite della conclusione e al ricomporsi dell'immagine, d'esserne la metafora. 
Una metafora, si badi bene, che ironicamente restituisce testa al suo etimo crudo e, al suo tempo, oltraggioso. La restituiscono quindi, in senso proprio, alla sua ironica verità.
E un'ironica verità merita, in fondo, un sorriso sospeso tra la complicità - ovviamente, con la vita - e la sfida.

[Il pedaggio dell'annuncio pubblicitario non è naturalmente Apollonio a imporlo, ma ne chiede venia.]

24 settembre 2015

Punteggiatura del ridicolo e senso del festival


Guardano allo stesso mare, sebbene da due prospettive diverse, la ligure e la toscana, e s'aprono ambedue domani il Festival della punteggiaturaIl senso del ridicolo
Puro e semplice accidente? Carl Gustav Jung lo avrebbe escluso e non avrebbe esitato a parlare, in proposito, di un lampante esempio di sincronicità. Uno di quelli che, a saperli intendere, rivelano qual è il vero valore delle cose che accadono nell'ordine nascosto del mondo (ne sorriderà forse il sodale di Apollonio che è magna pars in uno dei due eventi: buon per lui, quello che pare il più serio). 

Cronache dal demo di Colono (36): Oggettività




Neue Sachlichkeit la chiamarono appunto i suoi esponenti, molto competenti, quanto a ciò che intesero rappresentare con un'incisiva Nuova Oggettività. 
Non stupisce lo stupore di chi, ignorandone l'esistenza o avendone scordata la lezione di critica spietata e preveggente, casca periodicamente dal pero e si stupisce (o, dando la prova oggi più certa dei suoi alti sentimenti morali, si indigna).

[In proposito, anni fa, un truciolo di critica linguistica, nella prospettiva odierna forse un po' più spassoso ma sopra un tema, un'attitudine e forse uno spirito sempre tremendamente inquietanti.]

Indirizzi di metodo, per giovani che non ne necessitano (20): La lingua e il mondo





Bisogna ancora e sempre scacciare dalla riflessione sulla lingua la perniciosa idea di un mondo senza lingua per provare a capire come va la lingua e, a partire da lì, come va il mondo.

20 settembre 2015

Cronache dal demo di Colono (35): In principio, alla fine

Tocca oggi a Stanisław Lec di venire evocato in una gazzetta culturale per la settimanale composizione d'un pettinatissimo fervorino, che nell'occasione olezza inoltre di Santa Inquisizione.
Di Lec Pietro Marchesani scrive opportunamente che, privo di "moralismo didascalico o superbia intellettuale", ebbe inoltre "una repulsione istintiva per i panni del fustigatore o del predicatore". 
Apollonio lenisce la sua pena, ricordando con un amaro sorriso che a Lec capitò di scrivere, presago, "Era un progressista-religioso, concordava sul fatto che l'uomo discenda dalle scimmie, ma da quelle dell'arca di Noè". E, in modo definitivo, "In principio era il Verbo - e alla fine, le chiacchiere".

19 settembre 2015

Cose (2): Poltrone

L'oratore, in piedi. Seduto, chi lo ascoltava. Per rispetto dell'uno verso l'altro. Ma anche per pagare il pegno d'una maggiore scomodità: con la correlata fatica, memento per il primo del fatto che stava godendo di attenzione e pazienza magari donate con entusiasmo ma di cui era sempre anzitutto buona educazione evitare di approfittare troppo. E ammonizione dell'eccezionalità e, al tempo stesso, della precarietà del possesso della parola. Chi parlava aveva da mostrarsi pronto ad andarsene. A svignarsela, dandosi il caso, ove la sua parola fosse stata sgradita. Un tempo...
Oggi, invece, a giro per festival ed eventi culturali, lo si trova di norma in poltrona, l'oratore, o sul sofà. Chiacchiera, comodo e soddisfatto, con interlocutori che si comportano da compari, anche quando fanno sembiante di bisticcio. 
Con il conquiso morbido sotto le terga, è pronto a offrire per ore a chi lo ascolta e a delibare con placida riflessività la sua propria voce, supportata da microfono. Dio non voglia, gli si affatichi anche solo quella. E il pubblico? Su seggiole spesso malferme. Sensibile quindi, anche nel confronto, alla stabile autorevolezza della poltrona, donde appunto i fiati olezzanti promanano.
Poltrone. Un giorno si dirà: fu cultura da poltrone.

[Il format? L'ormai agonizzante talk show televisivo, ovviamente, con i suoi campionari di bizzarrie e ovvietà: esempio lampante di osmosi, con interessante flusso in salita, di pop e middlebrow.] 

18 settembre 2015

Parabole (2): Calvino, Pasolini, Sciascia (come chiosa al frustolo che precede)

Italo Calvino: in funzione della sua vicenda umana, tra Santiago de las Vegas e Siena c'è una parabola che va da un valore alto a uno basso o nullo. 
Il luogo di nascita di Calvino irraggiò aspetti crucialmente sistematici della sua vita e della sua opera. Quello di morte ingoiò l'una e l'altra come il foro oscuro di un accidente: una città come un'altra (e ci sarebbe da stupirsi se Siena ne menasse vanto).
Non va sempre così. Non era andata così, per esempio, dieci anni prima per Pier Paolo Pasolini, per il quale fu il necessario luogo della morte più di quello della nascita, accidentale, a parere coerente col palese ordine sistematico di opera e vita. Morire ad Ostia, quanto a Pasolini, ebbe più significato d'esser nato a Bologna.
Luogo di nascita e di morte furono infine ambedue strettamente convenienti al sistema di Leonardo Sciascia, dei tre, il primo a venire al mondo, l'ultimo a lasciarlo. A un'inderogabile Racalmuto fece da specchio non la Parigi immaginaria ma l'inevitabile Palermo. 

Sommessi commenti sul Moderno (18): Prender casa in Maremma





Le conseguenze degli atti umani? Imprevedibili e, talvolta, definitive. Prendi casa di vacanza in Maremma, per esempio, e ti capita di morire in un'inopinata Siena.

A frusto a frusto (96)





Vittorie che riportano pace nell'animo di chi vince? Da dubitare ne esistano.

14 settembre 2015

Linguistica candida (31): Che figura!

Esprimersi è produrre metafore, nascenti o ormai nate, vive o non più vive e quindi spente. L'hanno osservato molti saggi e da gran tempo. Quintiliano, per esempio, sulla cui opinione in proposito un carissimo e mai dimenticato amico chiamò molti anni fa l'attenzione di Apollonio. E Giacomo Leopardi, sulla cui idea di metafora proprio di recente gli è invece a sua volta capitato di riflettere in compagnia di giovani sodali.
Esprimersi e sperare (o temere) che la propria espressione si sedimenti anche solo il tempo bastevole a renderla menzionabile da qualcuno nel discorso o in modo meno effimero - nel caso dei più cari alla fortuna e per via di supporti strumentali come la scrittura - è però incorrere senza scampo in una metonimia.
Solo in virtù di tale contiguità concettuale tra espressione ed esprimente s'è del resto potuto qui sopra nominare Quintiliano, Leopardi e, adesso, il medesimo Roman Jakobson che rappresentò metaforicamente in tali termini la figura del discorso. 
In questione, naturalmente, non sono loro ma le loro metaforiche parole. Del resto, si è certi che, fuori di tali espressioni, di tutti costoro ci sia qualcosa da dire?
E come si potrebbe del resto parlare o scrivere dell'espressione, si ponga, di un Ludovico Ariosto o di un Primo Levi senza adoperare, nel discorso, l'ineluttabile figura? E i due menzionati (non a caso menzionati) non erano tra i pienamente consapevoli, esprimendosi, di condannarsi a farsi metonimie? Sì, perché ci furono, ci sono, sempre ci saranno anche gli inconsapevoli. Gli ignari, esprimendosi e sovente a sproposito, di andare incontro al destino di figura. E che figura!
Comica condizione dell'espressione umana (naturalmente, non soltanto della strettamente linguistica), unico labile indizio, del resto, dell'esistenza umana: metafora destinata a diventare metonimia.

9 settembre 2015

Indirizzi di metodo, per giovani che non ne necessitano (19): Per divulgare



Come dice il Poeta, a chi si propone di rendere accessibile a molte e molti una saggezza rigorosa, oltre che acutezza e competenza, si domanda imperativamente grande nobiltà di spirito. Se ne manca, procura loro, con l'inganno, non una divulgazione corretta ma un corrotto involgarimento.

Linguistica candida (30): Ferdinand e il teatro della doxa

"I legami tra i suoni delle parole e i loro significati, i loro fantasmi, le loro connotazioni affettive sono instabili perché sono convenzioni del tutto arbitrarie", si legge in una laterale evocazione del pensiero di Ferdinand de Saussure, comparsa sul supplemento culturale di un quotidiano italiano, qualche giorno fa. E proseguendo: "Non c’è nulla nella natura delle cose che corrisponda alle parole che le designano. Se ci dimentichiamo il nome di tante cose, ciò si deve al fatto che non esiste nessuna ragione naturale che imponesse a quelle cose di avere quel nome".
C'è naturalmente da rallegrarsi, come linguisti, che il nome di Ferdinand de Saussure ricorra (arbitrariamente?) in sedi siffatte e da esserne grati all'evocatore. Lo si dichiara subito e a scanso d'equivoci. Come si dichiara che si sbaglierebbe a valutare simili epifanie e a dirne, come fossero quelle eventualmente còlte in saggi scientifici (se ne prepara peraltro un profluvio, per l'anno che viene: ricorre infatti il centenario della pubblicazione del celebre libro di Saussure che Saussure non scrisse: il Cours de linguistique générale). 
In compagnia dei suoi due lettori (quindi, quasi privatamente), Apollonio non sa tuttavia rinunciare all'occasione di riflettere, solo un momento, sulla buffa alternativa tra incomprensione e silenzio che continua a vigere, quanto al linguista ginevrino. 
Se ne tace, di norma: né si può dire che egli in vita, a differenza d'altri maestri del pensiero moderno, fece qualcosa perché il futuro gli accordasse fama. Non scrisse quasi nulla (appunto, nemmeno quel libro che gli fu intestato), non andò in giro a diffondere il verbo, non fondò scuole, non si agitò in modo da attirarsi quelle scomuniche, quegli anatemi, quelle condanne pubbliche che, nel mercato dell'avvenire, sono pregiatissime. Tenne esoterici corsi universitari su temi peregrini: anche quelli che poi gli valsero una notorietà sovente di seconda mano. C'è da chiedersi, infatti, quanti, tra coloro che ne hanno fatto e ne fanno il nome, si siano veramente sottoposti almeno alla prova delle centinaia di pagine di speculazione complessa e noiosa erudizione che conta appunto il menzionato apocrifo.
Se di Saussure si parla, d'altra parte, vengono fuori sequenze come le citate in esordio. Vi capita che il significato si trovi in compagnia di belle e vacue espressioni, come "fantasmi" e "connotazioni affettive". Lo si ribadisce, non se ne vuole qui menare scandalo: è, semplicemente, la vita e come vita va goduta e considerata, non esecrata, in nessuno dei suoi molteplici aspetti. 
Per Saussure, invece, signifié (che, a differenza di significato in italiano, non è in francese parola di tutti i giorni) fu risultato d'una faticosa ricerca di un termine univoco, perché a suo modo straniante, atto a designare ciò che egli proponeva come un concetto radicalmente e paradossalmente nuovo, in linguistica: l'esito superficiale di quel rapporto (lo chiamò "funzione segnica") che, sulla superficie correlata, si manifesta come signifiant. Participio passato l'uno, presente l'altro: come amato e amante.
E capita inoltre che, per ragionare di lingua, si finisca regolarmente per ricadere sul rapporto tra le "cose" e le "parole". Si vada cioè a capofitto proprio nella trappola da cui egli cercò (disperatamente, va detto) di fare evadere almeno la sua disciplina, la linguistica, o quella che immaginò come tale.
La linguistica, non il senso comune, la doxa: questa è sempre stata invincibile. Saussure ne fu consapevole, come sulla sua scorta dovrebbe esserne consapevole chiunque pratichi o dica di praticare la sua regola rigorosa, la sua osservanza.
Prova a esserne consapevole anche Apollonio, come può e sa. E sa che la doxa si è appropriata ovviamente anche di Saussure e di tanto in tanto, con adeguata moderazione, lo usa come personaggio del suo teatro. Alle sue apparizioni sulla scena, Apollonio applaude.

5 settembre 2015

Per i filologi del futuro (1): Curiosi bisticci. Di genere

Gran confusione, sotto il cielo. Qualcosa ne verrà fuori. Per il momento, agli e alle amanti della lingua darà delizia osservare all'opera la plasticità del sistema, in primo piano quando preme il mutamento, abbia questo o no esito felice. 
E li divertirà vedere come sia nel pallone chi non sa proprio che pesci pigliare, trascinato (o trascinata) com'è da istanze diverse e tutte contestualmente legittime: caso tipico di ironia tragica (nello specifico, più ironia che tragedia, naturalmente). 
Non è nel pallone la lingua, ovviamente, che se ne impipa dell'impappinarsi di chi la farfuglia e da qualsiasi bagarre sincronica o diacronica esce inappuntabile come, in un vecchio film, James Bond dalla sua muta (parbleu!).

4 settembre 2015

Lingua nostra (8): "Vivere d'espedienti"

Questo tempo invita a parole, nei fatti spinge e quindi costringe a vivere d'espedienti. Espediente e la locuzione appena menzionata ricorrono però molto di rado, tanto nel discorso pubblico quanto nel privato.
Sono invece le espressioni che definiscono meglio, forse ineccepibilmente, quanto accade oggi materialmente in molti rami dell'attività economica. E moralmente in tutti. Sempre più spesso, chi vuole sbarcare il lunario ha infatti da vivere d'espedienti. E se non lo si ammette, mascherandosi dietro eufemismi foresti e prendendo pose di implausibile sussiego è per pudore, dal lato di chi subisce la temperie, da quello di chi la cavalca, per ipocrisia.
Un esempio: per una questione di decenza, con connessa nascita di un nuovo tabù verbale, il composto affittacamere è ormai fuori dell'uso, quando, andando a spasso per le città italiane, soprattutto per le meno floride, ci si accorge che di nuovi, improvvisati affittacamere, per scelta o per necessità, ce n'è a bizzeffe.
Del resto, questo diario lo ha già detto: più di quelle che ricorrono, sono sovente (forse, sempre) le espressioni che non ricorrono a fare intendere a qual punto sia la notte. Con buona pace dei devoti, peraltro benemeriti, delle ricerche lessicali quantitative e dei promotori di periodici e stucchevoli riti collettivi di scelta della parola del momento.

[Un paio di giorni dopo: voilà]

3 settembre 2015

Linguistica da strapazzo (39): "...l'87,3% è donna"

"Dei 38 mila insegnanti assunti finora - sottolinea il ministro - uno su due ha meno di quaranta anni e l'87,3% è donna": questa dichiarazione - che è di Stefania Giannini, quindi in realtà di una ministra - ha circolato largamente in rete, ieri. 
Qui la si cita esattamente come la riferisce un articolo on-line di un importante quotidiano, dicendo della conferenza-stampa in cui è stata proferita. Per la parte rilevante, la dichiarazione si trova identica anche nel testo che accompagna una breve registrazione videomagnetica diffusa in rete dalla Rai.
Essa non compare in questo diario per via del merito né del metodo. Di ambedue le faccette della faccenda si è fatto e si fa un gran parlare. Niente avrebbe da aggiungere Apollonio, che a suo proposito si consente invece solo un paio di riflessioni nello spirito d'una modesta linguistica da strapazzo.
La parola donna ricorre infatti nella dichiarazione in modo che è pacifico nella comunicazione odierna. Può tuttavia attirare l'attenzione di perdigiorno curiosi del funzionamento della lingua. 
Donna non ha qui il valore di "nella specie umana, individuo di sesso femminile". Considerando la cosa sotto tale prospettiva, dalla dichiarazione della ministra, si evince che gli individui in questione sono infatti circa trentatremila. Decisamente troppi per quel donna al singolare, quando, di individui, ne bastano appena due per avere un opportuno plurale. 
Donna non ha tuttavia nemmeno il valore, definito dai lessici collettivo (con quanta ragione, qui non si discute), di espressioni come la liberazione della donna. In casi del genere, infatti, lo snodo decisivo sta nell'articolo determinativo: ...della donna, appunto. Senza articolo, impensabile. E in "...è donna" di articolo non c'è l'ombra. Anzi, se si prova a mettercelo, l'esito è improponibile.
Con funzione di predicato nominale, nelle parole di Giannini, donna ha in realtà l'aria del nome di massa. Suona come suonerebbe latte, olio d'oliva, zucchero e simili. Per quanto Apollonio ne sappia e malgrado ricorrenze che si possono considerare a questo punto comuni, né lessici né grammatiche si sono fin qui curati di registrare un valore del genere, in riferimento a donna
Peraltro, a volere ancora pedanteggiare (il che, magari, non guasta, se tra i due lettori di Apollonio almeno il 50%, donna o uomo non importa, è pedante), la questione incrocia in modo rilevante il problema relazionale dell'accordo. 
Non ci son dubbi sul fatto che l'espressione 87,3% sia singolare, quanto a categoria grammaticale del numero: un articolo maschile singolare appunto l'accompagna e diversamente non si potrebbe. Ce ne sono ancora meno che, calcolata tale percentuale in funzione delle trentottomila unità di cui è questione, l'espressione singolare l'87,3% designi, come si diceva, una pluralità. A ben vedere, anche se grammatiche e lessici non citano mai casi del genere, è in realtà l'87,3% a essere una sorta di nome collettivo, come follagreggemandriastormo. Quel tipo di nome, formalmente singolare, semanticamente plurale, si dice, per il quale la norma raccomanda un accordo verbale al singolare: è, appunto. A catena, ne sortisce un singolare, donna, anche nel predicato nominale.
La norma è tuttavia in proposito tollerante (difficile non esserlo, visto il comportamento, da sempre, dei parlanti). La ministra avesse detto L'87,3% sono donne, nessuno si sarebbe accorto del mancato accordo (o dell'accordo diversamente orientato: ma con ciò si rischia d'entrare veramente nel complesso). E il commento di Apollonio, col plurale, avrebbe avuto più debole pretesto per osservare che, in fin dei conti e volendo per un momento abbandonare la prospettiva semantico-lessicale, abbracciandone una funzionale, l'espressione "L'87,3% è donna" risulta linguisticamente meglio descritta dicendo che donna assolve alla sua funzione sintattica esattamente come farebbe un aggettivo, eventualmente composto. L'87,3% è di sesso femminile illustra in proposito il caso d'una perfetta commutabilità funzionale: senza articolo che lo qualifichi come nome, donna vale quindi esattamente ciò che qui vale di sesso femminile, che, a volerlo appunto categorizzare, è un aggettivo composto. "L'87,3% è donna" suona tuttavia contestualmente più felice, di questi tempi, di un burocratico e antiquato L'87,3% è di sesso femminile. Tra le due espressioni, nel discorso politico, non c'è partita.
Del resto, se a qualcuno pare strana l'idea che la parola donna, in certe composizioni, valga come nome di massa o, meglio, come aggettivo, pensi che in fondo si tratta non di esseri umani ma di percentuale. 
L'espressione "l'87,3% è donna" è così testualmente comparabile con le indicazioni che compaiono, oggi obbligatorie, sulle confezioni degli alimenti. Tra le righe, lo si è già anticipato. "L'87,3% è donna" e "il 12% è succo d'arancia" (appunto, in ambedue i casi, con predicato nominale senza articolo) stanno nella stessa classe di costrutti. 
"L'87,3% è donna": il fatto che la ministra abbia fatto menzione di questo dato dice che si sta parlando della parte comunicativamente pregevole del composto. Correlativamente, c'è da ritenere che ne sia uomo solo il 12,7%. E, rendendolo infine esplicito, si resta qui intenzionalmente ancorati alle semplici specificazioni anagrafiche. Fare diversamente, di questi tempi, rischia di suscitare un vespaio. 

1 settembre 2015

Linguistica candida (29): Senno di poi



"Funghi in città": l'esordio di Marcovaldo, or sono più di sessanta anni. Nei suoi primi tre capoversi (perché i primi tre son rilevanti, Apollonio lo dirà un'altra volta; chi, curiosa o curioso, ha fretta di saperlo cerchi in proposito un vecchio scritto del suo alter ego), nei suoi primi tre capoversi, si diceva, solo cinque nomi, tra i tanti, cominciano per effe, equilibratamente distribuiti: fieno e fiori, nel primo; funghi, nel secondo, foglia e fico, nel terzo. Hanno qualcosa in comune i cinque nomi, al di là di questo carattere formale, che può parere peraltro puramente esteriore? Sì: designano tutti elementi della flora.
Flora? Fieno, fiori, funghi, foglia, fico. Significante e significato in corto circuito. Effetto ricercato? C'è la ragionevole certezza che non lo si saprà mai. Ma cosa importa? Le cose, nel testo, stanno così. E l'espressione umana - la si chiama lingua, facendone poi bizzarra astrazione - è per intero retta, cioè fatta, da relazioni e da differenze. L'effe, sì. E sonora? La vu: Il vento venendo... Ma guarda: en ed en-en, in rapporto di sequenza. E una nuova differenza, ent ed end: sorda e sonora... Ancora una differenza, da lontano, nella relazione: ent/end e ont...Inutile insistere: curiosi e curiose - si trattasse di raffreddati (o raffreddate) che, sensibili, s'accorgono del fieno - hanno già ricevuto un indirizzo e il fuoco del frustolo non è del resto la caccia a ciò che rende mirabilmente armonico quell'incipit. Alludervi brevemente ne è solo il pretesto. 
Il pretesto per ricordare che chi è immerso nei flussi di tali relazioni e di tali differenze ne ha certo padronanza. Ciò gli consente di nuotarvi, dandosi il caso, appunto, egregiamente. Ma anche se si tratta di un "locuteur" eccezionale, come fu, per paradosso, il silenziosissimo Italo Calvino o, meglio, come fu ed è ancora oggi la tradizione espressiva che circola sotto tale comoda (o imbarazzante?) etichetta, anche quando si tratta di un "écrivain" e non di un "écrivant", tale padronanza è per principio intuitiva e, anche nei casi migliori, anche negli ottimi, corredata solo sporadicamente da una consapevolezza che, ben che vada, interviene come senno di poi. Quello di cui sono piene le fosse, ma, se ne può stare certi, anche e fortunatamente le biblioteche.









[Nella lettura dei tre capoversi qui in questione, Marco Paolini si allontana più volte dal testo e non si può dire lo migliori. Trascurando i casi minori, nel primo capoverso, inverte l'ordine di "in città" e "da lontano": la cadenza ne scapita; sostituisce "anime" col più banale "persone"; forse sempre per vezzo di colloquialità, trasforma, nel terzo capoverso, "che pareva scorrere sulle sabbie del deserto" in un sintatticamente implausibile e semanticamente aberrante "pareva scorrerci sopra come sabbie del deserto". Ecco anche illustrata, in corpore vili, l'ordinaria necessità della filologia.]