Sta alle cose elementari l'espressione di Vasco Rossi, di cui altre volte in questo diario si è appunto detto - e facilmente - che, come personaggio della sua opera (come essere umano, chi lo sa?), tra tutte le persone grammaticali, sta probamente ancorato a un io.
Né pretende di dare voce a nessuno, se non a ciascuno che stia appunto ancorato alla sua propria prima persona e, nell'eventualità, senza identificarsi, trovi ragione di prendere a prestito quelle fin troppo semplici parole.
Una via all'universale, insomma, temperata dalla stretta adesione all'italiano e, di nuovo, a un italiano elementare - ma come potrebbe diversamente, visto che della rivendicazione di un io e della relativa esperienza si tratta?
Ne consegue un'attitudine che s'astiene ovviamente dalla retorica, principalmente da quella per il bene che inquina talvolta la pur non disonesta vena dell'altro e di un decennio più giovane rocker emiliano, per tale ragione più facilmente nell'orbita del noi e del conseguente difetto d'ironia. Anche sui diversi accostamenti al luogo comune e alla frase fatta dei due ci sarebbe da rilevare contrasti ma Apollonio si riserva di tornarci, ci fosse l'occasione, in un futuro frustolo.
Qui, il tema, anzi, i temi sono testa e mano: tra quelli che i due fedeli lettori di questo diario conoscono già come chiodi fissi di Apollonio forse perché metonimie d'elezione del tratto pertinente di umanità, contro il quale la sua riflessione urta incessantemente, come urta contro un vetro il volo di una mosca attratta da ciò che al suo apparato visivo si presenta come luminosità diurna.
A combinarsi segnicamente con la canzone (a sua volta unione segnica di musica e parole), c'è infatti una narrazione per immagini anch'essa elementare per contenuti e struttura e i cui protagonisti sono appunto, metonimicamente, la testa e la mano, qui e nel séguito al singolare, ma con valore eventualmente collettivo.
Nella narrazione, testa e mano sono complementari per genere (non grammaticale: l'una è maschile e non è glabra, l'altra non è maschile e non ha peli), per numero (l'una singolare, l'altra, secondo le circostanze, quindi in modo non-marcato, singolare o plurale) e per persona.
Titolare nell'enunciato dell'enunciazione, la prima (persona, maschile, singolare) canta, appare immediatamente ed è sostanzialmente fissa (pur nel cambiamento dell'inquadratura, in un paio di occasioni di profilo). La seconda (persona, non-maschile, non solo singolare) compare quando la storia ha già preso l'avvio, è in continua e sinuosa agitazione, talvolta è carezzevole ma la sua ultima interazione, con la prima, è uno schiaffo.
Talvolta sola in scena in funzione di variatio coreografica, per il resto, in rapporto sintagmatico con la testa, la mano, da un lato, fa da muto controcanto, dall'altro, da muto commento. Sopra uno sfondo nero, accompagna per opposizione (come s'intende con chiarezza nel momento in cui si trova a coprirle) due loquaci isole celesti e il loquace andamento rosa delle labbra, disponendo, sopra un opportuno pallore contrastivo, cinque o dieci mobili macchie vivamente rosse, in funzione del momento narrativo.
Quante volte è il titolo della canzone e, del resto, il nesso che, per iterazione se ne fa l'emblema: appunto, a mano a mano.
E il vaso o i vasi, dai tenui coloriti rosa o celeste, che, in fase di esplosione e per nebulosi frantumi, da un certo momento in avanti occupano, per opposizione paradigmatica, lo spazio figurativo della testa, rivelano, sul limite della conclusione e al ricomporsi dell'immagine, d'esserne la metafora.
Una metafora, si badi bene, che ironicamente restituisce testa al suo etimo crudo e, al suo tempo, oltraggioso. La restituiscono quindi, in senso proprio, alla sua ironica verità.
E un'ironica verità merita, in fondo, un sorriso sospeso tra la complicità - ovviamente, con la vita - e la sfida.
[Il pedaggio dell'annuncio pubblicitario non è naturalmente Apollonio a imporlo, ma ne chiede venia.]
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