L'oratore, in piedi. Seduto, chi lo ascoltava. Per rispetto dell'uno verso l'altro. Ma anche per pagare il pegno d'una maggiore scomodità: con la correlata fatica, memento per il primo del fatto che stava godendo di attenzione e pazienza magari donate con entusiasmo ma di cui era sempre anzitutto buona educazione evitare di approfittare troppo. E ammonizione dell'eccezionalità e, al tempo stesso, della precarietà del possesso della parola. Chi parlava aveva da mostrarsi pronto ad andarsene. A svignarsela, dandosi il caso, ove la sua parola fosse stata sgradita. Un tempo...
Oggi, invece, a giro per festival ed eventi culturali, lo si trova di norma in poltrona, l'oratore, o sul sofà. Chiacchiera, comodo e soddisfatto, con interlocutori che si comportano da compari, anche quando fanno sembiante di bisticcio.
Con il conquiso morbido sotto le terga, è pronto a offrire per ore a chi lo ascolta e a delibare con placida riflessività la sua propria voce, supportata da microfono. Dio non voglia, gli si affatichi anche solo quella. E il pubblico? Su seggiole spesso malferme. Sensibile quindi, anche nel confronto, alla stabile autorevolezza della poltrona, donde appunto i fiati olezzanti promanano.
Poltrone. Un giorno si dirà: fu cultura da poltrone.
[Il format? L'ormai agonizzante talk show televisivo, ovviamente, con i suoi campionari di bizzarrie e ovvietà: esempio lampante di osmosi, con interessante flusso in salita, di pop e middlebrow.]
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