25 gennaio 2017

A frusto a frusto (112)



Il mondo d'oggi è così buffo che potrebbe persino succedere che una neonata associazione degli anacoreti decidesse di istituire una propria assemblea mondiale permanente. 

24 gennaio 2017

A cosa servono, oggi, greco antico e latino?

Greco antico e latino sono inopinatamente venuti di moda, come si sa. Tutti a parlarne, molti a scriverne sui giornali, in rete o, addirittura, a dirne in televisione (e, certo, non in trasmissioni come la gloriosa "L'approdo"). In libreria, correlativamente, alcuni libri. Geniale il greco antico, bello il latino, inutili ambedue ma ovviamente solo per antifrasi e via invece con apologie di norma piuttosto stucchevoli o viete.
A scatenare il modesto temporale, la minaccia di misure che ne rendano ufficiale il ridimensionamento nell'insegnamento. Un ridimensionamento che, c'è da sospettare, è in realtà già operante. Si tratterebbe dunque di una semplice resa o di una sorta di presa d'atto: quei provvedimenti che si assumono quando il mondo ha già provveduto da sé e si fa finta di governare i fenomeni, mentre invece li si sta soltanto rincorrendo, senza naturalmente che lo si possa dire, anche perché - e sta lì il paradosso - tutti lo sanno. Con i buoi già fuori delle stalle, si può stare certi che intervenga presto una norma che, per i buoi, preveda prima la possibilità, quindi l'obbligo assoluto di stare fuori delle stalle.
Del resto, greco antico e latino una loro lampante, se pure modesta utilità, in un'Italia come la presente, stanno dimostrando di averla. Servono appunto a vendere qualche libro e a costruire qualche notorietà, si vedrà quanto durevole, nell'odierno bacino d'utenza della cosiddetta saggistica. Come sanno bene gli editori, si tratta d'elezione di quel ceto docente di cui professoresse e professori di discipline umanistiche costituiscono, da sempre, la punta di diamante e di coloro che sono in atto o sono spiritualmente rimasti sotto l'influenza morale di tale ceto e che sono di conseguenza qualificabili estesamente come discenti.
Per un pubblico del genere e secondo i gusti e le mode del tempo, che tendono inesorabilmente all'elegia, quanto all'estetica, all'edificante, quanto all'etica, e alla chiacchiera, quanto alla teoretica, ecco pronti sui media e sugli scaffali delle librerie i prodotti giusti. Greco antico e latino si sono dunque fatti anch'essi temi effimeri e, considerata la loro persistenza millenaria, è un bel paradosso che illustra meravigliosamente lo stato del mondo presente, la cui cultura si nutre solo di ciò che passa da un setaccio siffatto.
Ed è questa, in conclusione, la saporita e loquace condizione alla luce della quale dire che greco antico e latino siano inutili, sul momento, ma esattamente sul momento, proprio non si può. 

13 gennaio 2017

Linguistica candida (43): Perché non ci si può dire chomskiani

Malamente mascherate da uno stile scientifico, sono sempre state e sono ancora lampanti nella prosa e nella parola di Chomsky una rabbiosa voglia di dimostrare di avere ragione e un'ansia, a tratti spasmodica, di procurarsi proseliti. E più che all'oggetto del suo studio o alla sua osservanza disciplinare, Chomsky continua a mostrare di tenere a se stesso, magnificandosi nella sua teoria, appena può: attitudine espressiva che non è difficile cogliere già nei suoi esordi di arrivista inappagato, per quanto subito realizzato.
Tali caratteri dicono da tempo a chi ha saputo vederli e diranno certamente con chiarezza alle generazioni future che, con il pretesto di una disciplina forse non completamente innocente e piuttosto aggressiva e supponente come è stata, dalla sua nascita, la linguistica, in lui si sono espressi, nella modernità tarda, quindi spirata, un profeta o un agitatore più dell'uomo di scienza che in molti ormai da sessanta anni gli fanno credito d'essere.
E dicono che l'avventurato slancio d'avere appunto avuto, infine, una sola idea (geniale o sciocca, qui poco importa precisare: d'una sola si tratta) ha prevalso in lui sulla scettica ponderazione e sulla zetetica cautela raccomandate da un filo di saggezza a chi, in qualsiasi tipo di ricerca, muove i suoi passi sul ponte sempre incompiuto delle proprie ipotesi e del proprio pensiero.
Come si fa, del resto, a prendere sul serio uno che si è sempre preso tanto sul serio? Uno che si sente un genio e che, come non bastasse, dice di continuo e ai quattro venti di esserlo? Uno di cui, malgrado l'inesorabile avanzare dell'età, non si conoscono un'ironica presa di distanza da se stesso, un "ma forse mi sono sbagliato" o uno "scusate, potrebbe essersi trattato solo di uno scherzo", accompagnati da un clemente sorriso sulle proprie umane e stordite fantasticherie? 

11 gennaio 2017

Conclusione e stupidità: chiosa intempestiva a Gustave Flaubert

Da qualche anno, sempre più spesso accade di leggere scritti con pretese intellettuali le cui premesse sono chiare e, talvolta, anche chiaramente presentate. La circostanza invita a procedere ma si scopre che, a partire da quelle premesse, il discorso vi si fa però via via più confuso e si perde vuoi in un intreccio che non riesce a dipanare, vuoi in un'indeterminatezza, in una nebbia che esso stesso contribuisce a rendere più fitta. Sempre che infine giungano a qualche conclusione e non rimangano sospesi (in tal caso, vale l'artifizio retorico di spacciare come pregio il non sapere dove andare a sbattere la testa), tali scritti vengono così a conclusioni che, per rivendicazione di acuto ossimoro o no, sono palesemente sconclusionate. E ne fanno per giunta pretesto per una presunta migliore presa di coscienza della complessità.
Dal post in un portale culturale all'articolo giornalistico, dal saggio scientifico all'opera letteraria, a scritti siffatti indulgono anche penne reputate. E forse perché incapaci di produrne d'altro genere, danno così il tono alla presente stagione culturale. Non concludere né sapere che pesci pigliare, dopo avere fatto un discorso qualche volta bello e vuoto, più spesso vuoto senza nemmeno essere bello, sembra diventato il modo o il surrogato del modo di passare per intelligenti.
È vero: il 4 settembre 1850, da Damasco, Gustave Flaubert, scrisse al suo ex-compagno di scuola Louis Bouilhet che "la bêtise consiste à vouloir conclure". E Flaubert è un faro della critica alla modernità. Sul tema della stupidità, poi, egli fu maestro, fino al limite di praticarla, la "bêtise", per meglio raccontarla dall'interno. A ciò potrebbe persino alludere quel "Madame Bovary, c'est moi" che gli fu attribuito, senza che si sia certi che l'abbia veramente proferito nella circostanza imbarazzante in cui si racconta l'abbia fatto. Soprattutto, senza che si possa escludere che Madame Bovary vi ricorresse banalmente in quell'ideale corsivo che l'orale, se mai ci fu, non rese appunto perspicuo, per le mille gioie future di interpreti che trovarono così occasione di mostrarsi sottili. 
Con la certa sortita sopra stupidità e conclusione, s'era però appunto nel 1850 e la modernità sotto gli occhi di Flaubert viveva la sua prima fase matura. Giunta frattanto la modernità a un compiuto stato di putrefazione, che è stato il suo modo di concludersi, c'è da chiedersi se Flaubert scriverebbe oggi la medesima cosa. C'è da chiedersi se non dovrebbe egli medesimo giungere a una conclusione.
Insomma e per concludere: a modernità in atto, fu ovviamente "bête" l'attitudine a concludere ma, a modernità conclusa, inequivocabili manifestazioni di "bêtise" sono la rinuncia a concludere o, che è lo stesso, l'incapacità di farlo in modo convincente.

10 gennaio 2017

Principio, legge e corollario di Bauman


Principio di Bauman
Un'idiozia, immersa parzialmente o totalmente in una società liquida, riceve una spinta verticale dal basso verso l'alto pari per intensità al volume delle chiacchiere suscitate.

Legge di Bauman
Una società è tanto più liquida, quanto maggiore è il numero dei suoi membri che si sono bevuti il cervello e lo hanno espulso per la via ordinaria.

Corollario di Bauman
Più una società è liquida, più si è certi sulla natura di chi e di cosa vi verrà a galla.


[La riverita Buonanima consentirà queste scherzose ma innocenti estensioni della bella metafora nella quale la sua opera ha finito per annegare (ohibò!): prova appunto lampante, se altra ne fosse necessaria, dell'intelligente correttezza dell'analisi e convalida della legge del contrappasso. A questo tempo, del resto, non si sfugge e ogni parola critica ne viene regolarmente inglobata e liquefatta. La sola speranza è che salti il tappo e che, come nel gorgo di un lavandino, tutto questo liquido vada verso la fogna, come merita. C'è naturalmente il rischio che trascini ogni cosa con sé. Chi è pensoso, se riesce, provveda dunque alla sua arca e salvi qualche specie (ecco, nella cultura fondamentale di Bauman, la probabile fonte ideale della sua parola, ecco il suo invito).]


5 gennaio 2017

Linguistica candida (42): Un latino, oggi, di secoli bui

Ci sono epoche (e possono durare secoli) le cui testimonianze scritte finiscono per attestare solo fenomeni linguistici peregrini o una morta fissità dell'espressione. Per il resto, tali testimonianze hanno scarsa o nulla rilevanza e, bene che vada, forniscono materia a ricerche filologiche il cui pregio formale (che, si badi bene, può essere grandissimo) capita sia inversamente proporzionale alla qualità dell'opera che traggono dalle tenebre di un meritato oblio. 
Chi ha pratica di studio della catastrofe del latino lo sa bene e ci sono peraltro opere sul destino di quella lingua che, a chi l'avesse dimenticato, si sono incaricate di ricordarlo. Anche di recente, con il pretesto di tracciarne una storia sociale, rimestandone meritoriamente l'innumerevole ciarpame.
Ebbene, Apollonio ha l'impressione che sia di tal genere l'epoca che sta vivendo, con un quadro peraltro aggravato dalla gigantesca opportunità di conservare ogni genere di scritto, anche il più effimero. Ma non di questo è qui il caso (e a esserne investito sarebbe ovviamente anche il presente diario). 
Il caso è qui, al contrario, di quelle testimonianze scritte, per esempio nell'area della scienza linguistica, ma anche di altre discipline e della letteratura, che aspirano di diritto a conservabilità e memorabilità. E capiterà, si augura a esse, che tale diritto sia opportunamente rispettato e che divengano testimonianze della fase di una civiltà.
Scritte però in un latino bastardo e universale, Apollonio formula l'ipotesi che, si ponga, tra mille e cinquecento anni, verranno utili agli studiosi (se studiosi di simili sciocchezze ci saranno) non per ciò che dicono (tratto che già adesso pare, a dire il vero, di scarso rilievo), ma, ben che vada, solo perché vi troveranno attestazioni di fenomeni linguistici peregrini o di quella morta e sterile fissità che oggi si riconosce nel latino di secoli bui.