Ci sono epoche (e possono durare secoli) le cui testimonianze scritte finiscono per attestare solo fenomeni linguistici peregrini o una morta fissità dell'espressione. Per il resto, tali testimonianze hanno scarsa o nulla rilevanza e, bene che vada, forniscono materia a ricerche filologiche il cui pregio formale (che, si badi bene, può essere grandissimo) capita sia inversamente proporzionale alla qualità dell'opera che traggono dalle tenebre di un meritato oblio.
Chi ha pratica di studio della catastrofe del latino lo sa bene e ci sono peraltro opere sul destino di quella lingua che, a chi l'avesse dimenticato, si sono incaricate di ricordarlo. Anche di recente, con il pretesto di tracciarne una storia sociale, rimestandone meritoriamente l'innumerevole ciarpame.
Ebbene, Apollonio ha l'impressione che sia di tal genere l'epoca che sta vivendo, con un quadro peraltro aggravato dalla gigantesca opportunità di conservare ogni genere di scritto, anche il più effimero. Ma non di questo è qui il caso (e a esserne investito sarebbe ovviamente anche il presente diario).
Il caso è qui, al contrario, di quelle testimonianze scritte, per esempio nell'area della scienza linguistica, ma anche di altre discipline e della letteratura, che aspirano di diritto a conservabilità e memorabilità. E capiterà, si augura a esse, che tale diritto sia opportunamente rispettato e che divengano testimonianze della fase di una civiltà.
Scritte però in un latino bastardo e universale, Apollonio formula l'ipotesi che, si ponga, tra mille e cinquecento anni, verranno utili agli studiosi (se studiosi di simili sciocchezze ci saranno) non per ciò che dicono (tratto che già adesso pare, a dire il vero, di scarso rilievo), ma, ben che vada, solo perché vi troveranno attestazioni di fenomeni linguistici peregrini o di quella morta e sterile fissità che oggi si riconosce nel latino di secoli bui.
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