28 gennaio 2015

Trucioli di critica linguistica (17): Balle di Scienza


Quando, qualche mese fa, sul piazzale della stazione di Pisa, Apollonio apprese di "Balle di Scienza" mancavano pochi minuti alla partenza del suo treno e pochi giorni alla definitiva chiusura dell'esposizione. Se ne rammaricò. Vie più, documentandosi in proposito. Oggi, nella modernità putrefatta, scienza è parola pronta a qualsiasi uso, come lo furono, un dì, patria, nazione, famiglia, classe, ancora oggi, razza e, di recente sperimentata, la parola Dio, il cui numero singolare è certo stimolante per il pensiero, ma forse esageratamente per l'azione, come si sa da parecchi secoli e, a ben vedere,  non prevalentemente per esperienza passiva (ma la memoria, è noto, è facoltà selettiva). 
Scienza è così diventata parola pericolosissima e pare un'iniziativa didattico-divulgativa di salutare demistificazione associarla in modo diretto e provocatorio a balle, nel titolo di un evento pubblico promosso da un'istituzione scientifica prestigiosa e che ha titolo a farne uso.
Visitando l'esposizione, Apollonio ne è certo, ne avrebbe tratto piacere e profitto. Confida così in una riapertura, eventualmente in altra sede (la comoda Milano? O lì, per tutto l'anno corrente, ci si occuperà solo di pappardelle e connesse bellurie?). 
Nell'attesa, egli scorre la piccola brossura illustrativa. La sua introduzione è un breve testo rivolto naturalmente a un pubblico di non specialisti. Proprio per questo, però, delicato: porta la responsabilità di fornire a chi non è un chierico la chiave interpretativa di un'esposizione che, con quel titolo, promette una demitizzazione.
"Scienza - vi si legge - deriva dal latino scire che significa sapere o da sciens che significa avere conoscenza. Ci rivolgiamo agli scienziati come esperti e ci fidiamo di ciò che è “scientificamente provato”, ma anche gli scienziati sbagliano e guai a pensare il contrario. Quando vanno in laboratorio portano con sé convinzioni filosofiche o religiose e le loro assunzioni riguardo alla natura profonda della realtà. In realtà, però, gli errori sono una delle molle del progredire della scienza. Come diceva Richard Feynman (premio Nobel per la Fisica nel 1965): «la scienza è fatta di errori, che sono utili perché, piano piano, sono proprio questi errori che ci guidano verso la verità». Il metodo galileiano ci insegna quindi ad autocorreggerci, e fa sì che la scienza avanzi soltanto quando riconosce i propri errori precedenti".
L'avvio è un pot pourri di parti del discorso che dà luogo, a volere essere pedanti, a qualche pressappoco etimologico. Sono sciocchezze, però, e insistervi sarebbe soltanto ingeneroso. D'altra parte, si è fuori dal cuore del testo. Il cuore sta nel resto e il resto non ha per materia quisquilie da parolai. È però un testo che vien subito voglia di portare nella sgangherata officina d'un parolaio, per un'analisi, come sempre, molto veloce e molto alla buona.
"..anche gli scienziati sbagliano", vi si concede. Pare lo facciano (e più che un'asserzione, è - va detto - un'allusione) portando nel laboratorio le "convinzioni filosofiche o religiose" o "le loro assunzioni riguardo alla natura profonda della realtà": debolezze umane, insomma, e roba che è foriera di errori, come impurità, rispetto alla scienza. 
Niente paura, tuttavia. Il laboratorio alberga un fuoco purificatore. Gli errori vi si sublimano e, diversamente da quanto fanno in ogni altra teoresi e in ogni altra prassi umana, non producono altri errori (così direbbe forse una millenaria esperienza) ma "guidano" verso "la verità": numero singolare e articolo determinativo.
"Il metodo galileiano ci insegna quindi [quindi?] ad autocorreggerci", con insistita quarta persona e ridondanza nella marcatura della riflessività. L'una con valore impegnativo, per chi legge, e in ogni caso diverso da quello, piacione e bonariamente inclusivo, che ricorreva in apertura: "Ci rivolgiamo agli scienziati... ci fidiamo...". L'altra atta a mettere in chiaro, caso mai a qualcuno, visto il titolo dell'esposizione, frullasse qualcosa per il capo, una circostanza data in ogni caso come indiscutibile. Da secoli, la scienza si abilita a correggere gli altri e ogni cosa. Si conceda pure che faccia, come ha fatto, degli errori. A nessuno venga in mente, tuttavia, di correggerla, perché la scienza si corregge da sé. Si autocorregge.
Un fervorino, insomma, per un pubblico di già credenti, nutriti da pubblicazioni che si vendono come scientifiche e da pagine di supplementi culturali di quotidiani che, con la scusa di divulgare, spacciano quasi sempre conformismo. E "Balle di Scienza", si potrebbe facilmente concludere. Sarebbe però una pessima conclusione. L'esposizione sarà certamente migliore del testo che la presenta e che è difficile dire le faccia un buon servizio, forse solo per eccesso di zelo.
E poi Apollonio - lo sanno i suoi cinque lettori - non riesce a smettere di cercare i preziosi segni che, quando era giovane, lo innamorarono del grandioso Moderno da cui nacque ciò che da qualche secolo si chiama, approssimativamente, scienza (e chissà come la si chiamerà tra cinquecento anni: forse in nessun modo).
Ora è vecchio. Lo si perdonerà se, prendendo a pretesto simili inezie, si chiede se a quel transeunte Moderno, di cui la scienza è appunto un transeunte prodotto, non mancò quel filo di modestia, quel filo d'ironia che avrebbe potuto fare della scienza ciò che essa oggi non è certamente: una forma delicata e magari migliore di una saggezza umana per altri versi perenne.

21 gennaio 2015

Linguistica candida (25): Varietà linguistica e mutamento climatico, della scienza

I frustoli di questo scombiccherato diario sono più di seicento. Apollonio non ricorda, di tutti, temi e dettagli, donde ripetizioni, lacune, cambi di programma, imprecisioni e tutto ciò che si associa di norma alla logorroica espressione governata da una senilità che inclina alla demenza.
Che di sua senilità sia ormai esclusiva questione, Apollonio ha del resto prove a iosa. 
Pensino i suoi cinque lettori: egli ha vissuto (e di ciò, come di altre vicende infantili, conserva memoria) un'epoca in cui, con preteso argomento di scienza, reputati specialisti della sua disciplina gli additavano derisoriamente come dilettantesche e cervellotiche le sortite di chi pretendeva che, per esempio, agli abitanti di certe aree del pianeta, per via del freddo intenso, poco si addicesse di tenere aperta la bocca, donde, nelle relative lingue, penuria di vocali, riccamente presenti invece in lingue di popolazioni esposte a climi temperati o caldi.
Quell'epoca è ormai perenta e lui, come un relitto, è invece ancora qui, quando non si sa il clima del pianeta, ma certamente il clima della scienza è parecchio cambiato. 
Con rigore di metodo e affidabilità di risultati, la scienza d'oggi dimostra infatti che, come per la stagionatura dei salumi, è l'aria fine e il clima secco dell'alta montagna a favorire la presenza nelle lingue di segmenti eiettivi. Dimostra poi che mettersi a parlare una lingua tonale in un clima arido è proibitivo almeno quanto vendere frigoriferi agli eschimesi.
Il mutamento climatico della scienza è lampante e, apprendendo di queste solide acquisizioni conoscitive, ad Apollonio è già venuto il freddo. Gli capita poi, per antico vizio, di esprimersi in una lingua con tante vocali. Meglio che, sul tema, visto il clima, non apra più bocca.

16 gennaio 2015

Linguistica candida (24): Tratti umani e grammatiche universali




Lo insegna una millenaria saggezza: non c'è essere umano che non sia stupido, in un modo o nell'altro (oltre che, in ogni modo, mortale). Che sia la stupidità, che fa lietamente tutti eguali, ad attrarre allora chi fruga nelle lingue umane prospettandovi grammatiche universali?

10 gennaio 2015

Linguistica candida (23): Aneddoto linguistico, su Treccani.it

"Lingua è un dialetto con un esercito e una marina": a chi vada attribuito questo celebre motto non si sa. Si sa che comparve in yiddish, una settantina di anni fa, sotto la penna di Max Weinreich, che non se ne dichiarò tuttavia padre. Lo disse raccolto sulla bocca di un anonimo interlocutore, incontrato tra il pubblico di sue conferenze degli anni Quaranta.
In un intervento in rete per altri versi apocalittico (o, quanto all'evocata morte del pensiero, solo bene informato?), ieri lo si è visto per allusione genericamente attribuito a Noam Chomsky da Diego Marani: "Non dimentichiamo infatti che i dialetti sono lingue, come diceva Chomsky, con l'unica differenza che non hanno un esercito".  
A Chomsky forse perché, come Aristotele nel Medioevo era il Filosofo, Chomsky è oggi il Linguista, per antonomasia, e se c'è un'affermazione che riguarda la lingua, in un modo o in un altro deve essere sua. 
Delizioso, peraltro, l'imperfetto diceva: il linguista del MIT non sarà certamente superstizioso, ma alla luce di una così generosa (per quanto indebita) attribuzione, consigliabile gli sarebbe di certo qualche scongiuro. 
Sia chiaro: si tratta d'una sciocchezza, per giunta minima rispetto alle grandi che capita regolarmente ad Apollonio di propinare ai suoi cinque lettori. Qui, ci si sarebbe così guardati bene dal richiamare su essa la loro attenzione, se a ospitarla non fosse una sede autorevole, dotata senza dubbio d'una redazione di gran peso e valore: Treccani.it L'enciclopedia italiana
Una pagina, come si vede, cui ci si rivolge, di norma fiduciosi, per avere informazioni serie, verificate ed affidabili (come purtroppo non pare la riferita), non uno di quei diariacci in rete - ne è un esempio il presente - tenuti in piedi come si può da uno scalzacane, un po' per celia, un po' per non morire.

[15 gennaio 2015: Una cortese lettrice informa Apollonio che l'intervento in discussione, per il dettaglio qui esposto, ha subito un mutamento. Al posto dell'originale "come diceva Chomsky", adesso vi si legge "è stato detto", passivo senza agente. A illustrare lo scritto, come immaginetta sacra, pare sia rimasta la foto di Chomsky, a questo punto ancora più implausibilmente se non come comica traccia: si vede che, nella menzionata redazione, non s'è fin qui trovato di meglio. Scomparisse in futuro anche quella, Apollonio sarebbe ancora più autorizzato al sospetto d'avere chi lo legge, lì: naturalmente, ne sarebbe oltremodo lusingato.]

Linguistica da strapazzo (35): "Essere l'Inter" e "fare la Roma"

Ora è più d'un mese, se Apollonio non si sbaglia, il giorno stesso di Roma-Inter all'Olimpico, in una pagina del Corriere della sera, "Dobbiamo fare la Roma", dice da una grande foto il francese Rudi Garcia che, se le parole sono proprio sue, ha evidentemente imparato l'italiano alla perfezione. 
"Loro sono migliori ma noi siamo l'Inter", replica sulla medesima pagina Roberto Mancini, da una foto di grandezza comparabile. 
Fare la Roma, essere l'Inter. Interrogativo stupido: chissà perché, quando si parla di nomi propri (e tra filosofi e linguisti, se ne parla da gran tempo), costrutti del genere vengono tirati in ballo molto raramente. E risposta più stupida: perché l'essere adoperati così non è il proprio dei nomi propri, non è il loro uso prototipico.
Come se il proprio dei nomi propri, al pari del proprio di ogni altra categoria immaginata dai grammatici, fosse di stare, prototipicamente, nelle caselle all'uopo previste dalla modestissima fantasia di definizioni grammaticali circolanti per il mondo come logiche, oltre che come le più logiche. 
Invece, Apollonio ricorda i casi emblematici di Palermo non è Beirut e Ahmadinejad non è Mubarak: titoli di quotidiani in anni in cui tali affermazioni (di portata informativa, considerata anche la sede) avevano un valore diverso da quello lapalissiano che oggi si sarebbe tentati di attribuire a esse ("Embè?"): per gioco, per oblio, per ignoranza.
E ...noi siamo l'Inter allora? L'Inter vi fa da predicato nominale e certamente non col valore corrivo che avrebbe ove la si immaginasse rivolta dal mister marchigiano non a un giornalista che lo intervista ma al custode dell'Olimpico. Alla testa di un manipolo di tatuati scagnozzi, Mancini scampanella sul portone: Driiiin. - I signori desiderano? Noi siamo l'Inter. Ci aspettano per la partita. Possiamo? - Si accomodino. Terza porta a sinistra.
Fare la Roma è a sua volta uno spasso.
Perché una cosa è che si faccia la Roma come si farebbe il sugo. E si potrebbe, in effetti. La Roma, al pari di il sugo, avrebbe in tal caso funzione argomentale: sarebbe un oggetto diretto, per dirla in modo tecnico. Naturalmente, Garcia non voleva dir questo.
Altra cosa è che si faccia la Roma diversamente da come si farebbe il sugo, con la Roma in funzione predicativa, dunque. La stessa funzione di il cascamorto o il pesce in barile quando si fa il cascamorto o il pesce barile. Così si può immaginare intendesse appunto Garcia: naturalmente quanto a sintassi (indipendente, come si sa, dalla semantica). 
In questo secondo caso, tuttavia, un conto sarebbe fare la Roma senza essere la Roma. Qui, di nuovo, non dovrebbe trattarsi del pensiero di Garcia.
Un conto diverso è fare la Roma essendo la Roma, allo stesso titolo con cui Mancini dice della sua squadra "noi siamo l'Inter". E si è così a ciò che Garcia voleva certo dire. Ma dicendolo, lascia intendere implicitamente l'esistenza d'una malaugurata eventualità: quella di essere la Roma senza fare la Roma
Mirabile spettro di possibilità offerto allo spirito della nazione, per incarnarsi mutevolmente nella sua essenza, dallo spazio di libertà che s'apre tra l'esserci e il farci: uno spazio di libertà tutto italiano, che permette, come è noto, di farci senza esserci, di esserci senza farci, di non esserci e non farci e di esserci e farci. Col valore di -ci, come pro-predicato, riempito eventualmente (e non prototipicamente?) da un cosiddetto nome proprio (l'Inter, la Roma).
Si vede così con chiarezza come il valente Rudi Garcia, che italiano appunto non è, abbia imparato alla perfezione non solo l'italiano - e lo si diceva - ma anche a fare l'italiano.

7 gennaio 2015

Linguistica candida (22): Giocare al piccolo grammatico

Di lingua, ancora oggi, non c'è italiano capace di battere sui tasti di un computer che, per il fatto stesso, non si pretenda litigiosamente cultore e specialista. A dire il vero, più d'uno, nei suoi voti personali, anche legislatore e, ne avesse investitura, guida ferma e illuminata per una nazione altrimenti allo sbando, quanto all'espressione. 
Del resto, giocare al piccolo grammatico, competitivamente e con infantile gravezza, come se i destini della lingua dipendessero dagli esiti di tale gioco, è da secoli carattere specifico del ceto cólto italiano: una torma vociante di bimbi. Meglio, di Bembi.

6 gennaio 2015

Sommessi commenti sul Moderno (14): Scor(i)e



Come non trovare comici i proclami di un'epoca che, tramontando, s'annega nella pozzanghera dell'effimero e, per durevolissime tracce materiali del suo credo profondo e della vera opinione di sé, non lascia al futuro piramidi, chiese o monumenti civili ma rifiuti indistruttibili.

Cronache dal demo di Colono (29): "Le strade, le famose strade siciliane..."

"Il viaggio era durato tre giorni ed era stato orrendo. Le strade, le famose strade siciliane per causa delle quali il principe di Satriano aveva perduto la Luogotenenza erano delle vaghe tracce irte di buche e zeppe di polvere".
Un evento eclatante, un ponte che, in Sicilia, cede pochi giorni dopo la sua inaugurazione, più che rivelare l'autentico stato delle cose, lo nasconde. L'attenzione al fattaccio, all'eccezione distoglie dal quieto e rigoroso accertamento del quotidiano. Forse è una condizione sistematica della facoltà percettiva umana: Apollonio non s'intende di cose del genere e non osa affermarlo. 
Lo induce a ritenere che vada proprio così, però, l'esperienza fin qui fatta, d'una qualche durata (e senza merito alcuno, naturalmente), proprio sotto cieli che, a tratti lontani, gli sono tuttavia noti. A ritenere insomma che il clamore degli scandali e i periodici, momentanei lampi di luminose nefandezze - vere o solo presunte, alla fine, che importa? - abbaglino e rendano così invisibili le oscure, interminate nefandezze con cui si tesse una normalità che, proprio in quanto tale, è di lunga durata.
Chi ha più memoria della vicenda - una faccenda di appalti - che, più di cento cinquanta anni fa, per qualche momento, intrecciò l'avventurosa vita di Carlo Filangieri, principe di Satriano, alle infrastrutture della Sicilia borbonica?
Le strade siciliane sono frattanto forse diventate tracce meno vaghe (sotto il profilo ambientale, si tratta sempre d'una qualità?) ma restano "irte di buche" e la "polvere" di cui sono "zeppe" è coerente con l'epoca: il pattume d'ogni sorta della finta abbondanza.
In apertura, tre righe nate sotto la penna di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, il sardonico principe del "tutto cambia e tutto resta com'è". Di scorcio, rapide e definitive come un fulmine, raccontano di un passato che, fatta la tara delle ovvie mutevolezze, è simile al momento in cui furono stese e (oggi lo si sa) prefigura il futuro, nei suoi tratti caratterizzanti. Il cedimento del ponte forse costerà a qualcuno la perdita di una luogotenenza. Buche e polvere resteranno certamente, perché in esse c'è l'essenza delle strade, delle famose strade siciliane.
La determinazione conoscitiva della pertinenza è la via dell'intelligenza del mondo: intelligenza inutile? Di nuovo, che importa? Per chi sa leggerla, la letteratura, come arte della parola, annoda con l'intelligenza del mondo un impagabile spasso.