16 giugno 2010

Copy? Quel diavolo di Denis!

Dal finestrino di un autobus, un manifesto fa l'occhiolino a Apollonio, che, catturato, ne cattura al volo il messaggio: "Se il mio Breil potesse parlare". È questione, a quanto pare, del bijou della splendida ragazza nella foto: un bijou indiscret o che, a credere all'annuncio, amerebbe diventarlo.
Vecchio impenitente libertino di un Denis Diderot! C'è sovente il tuo riconoscibile zampino nelle imprese moralmente più dubbie. Oggi che di Encyclopédie non vuol più saperne nessuno e che, tra il plauso dei peggiori bigotti, i più imbiancati sepolcri si spacciano per illuministi, sono felice di vedere che, freelance, sbarchi il lunario come copywriter e ti fai pagare per raccontare storielle inventate quasi trecento anni fa.

12 giugno 2010

Laudator temporis acti

"Multa senem circumveniunt incommoda, vel quod / quaerit et inventis miser abstinet ac timet uti, / vel quod res omnis timide gelideque ministrat, / dilator, spe longus, iners, avidusque futuri, / difficilis, querulus, laudator temporis acti / se puero, castigator censorque minorum" (Molti incomodi assediano il vecchio: cerca qualcosa ma, meschino, si astiene da ciò che trova e teme di farne uso, fa ogni cosa timidamente e freddamente, rimanda, spera lungamente, sta inerte, è avido di futuro, difficile, lamentoso, loda il tempo andato, quando era un fanciullo, fustiga e censura i giovani).
È (di nuovo) Orazio e un celebre passaggio dell'Ars poetica. Apollonio se lo ripete, come tacita e laica orazione, appena gli vien voglia di pensare (e, il Cielo non voglia, anche solo di accennare) alla decadenza del presente (e, siccome è vecchio, la voglia gli viene spesso).
Usa Orazio per scacciare la tentazione di imboccare la scorciatoia che la vita apre alla pigrizia dei vecchi: e lui pigro è sempre stato, vecchio, appunto, quando meno se l'aspettava, è diventato. E sta lì, sempre in procinto di prendere la via che conduce al baratro della rinuncia a capire. Non a condannare e a indignarsi né a giustificare e ad approvare: a tali attitudini ha volentieri rinunciato da gran tempo, non appena ha capito che sono quelle tipiche dei pigri di tutte le età. Chi non vuole fare lo sforzo di capire, condanna, s'indigna o, conversamente, approva e giustifica. Provare a capire è del resto la cosa che, al mondo, richiede la fatica maggiore e rende di meno: roba che si può fare solo per diletto, giammai per mestiere. Si passerebbe giustamente per matti. Bisogna quindi essere comprensivi con chi condanna e s'indigna, giustifica e approva: è gente che, come sa e può, cioè pigramente e cercando di scansare la fatica, lavora. E bisogna capire i vecchi, allora, quando, comprensibilmente, se mai l'hanno fatto, smettono di provare a capire e, in rapporto al presente, cominciano a condannare e a indignarsi. E a lodare il tempo che fu.
Cosa che Apollonio tenta di non fare (e che Orazio, come diceva, l'aiuta a non fare) anche perché lasciarsi andare alla lode del tempo andato e al correlativo dispregio per il presente finirebbe per confliggere con qualche sua personale e radicata convinzione sulla decadenza.
Egli è fortemente convinto infatti che la decadenza sia tra le poche cose al mondo che non decadono mai. Essa è permanente. C'è sempre stata. La pensa così non tanto perché Shakespeare non sapeva il greco e Omero non sapeva l'inglese, come ricordava Ennio Flaiano a chi gli faceva notare i guasti culturali e l'ignoranza del suo tempo: lo stesso che, essendo andato, oggi si sente lodare spesso. Quanto perché essere è niente di più e niente di meno di decadere. Sei? Pensa Apollonio. Allora non ci son santi: decadi.
Ne segue (sempre a parere di Apollonio) che non c'è tempo andato che non sia decaduto esattamente come decade il presente.
Questa è la premessa di fatto. Si venga adesso all'effetto percettivo. I giovani d'ogni epoca non s'accorgono in genere della decadenza del loro tempo. Perché? Perché essi decadono alla sua stessa velocità e al suo stesso modo. Si tratta insomma di puro effetto relativistico. Essi stanno sul vettore del loro tempo, ne fanno pienamente parte, quindi fanno parte della sua decadenza, del suo essere.
Rispetto al tempo, i vecchi, invece, perdono velocità, provano a inseguirlo, arrancano, cadono, si rialzano ma quello se n'è già andato. In loro, nasce quindi la percezione soggettiva del decadimento del tempo che vivono, in funzione della memoria di quello che hanno vissuto, col quale, da giovani, decadevano ovviamente in perfetta sintonia e della cui decadenza, quindi, non hanno serbato alcuna memoria. Non c'è mai stato, non c'è, mai ci sarà quindi un presente che non sia decadimento per i vecchi che lo vivono e che, semplicemente, non capiscono di esser stati loro medesimi, festosamente inconsapevoli, ad avere accompagnato il mondo sulla soglia di quel baratro che vedono improvvisamente spalarcarsi davanti ai suoi piedi, davanti ai loro medesimi piedi.
Tutto là. Del resto, è naturale che sia così. La perdita di velocità del vecchio è anticipo del suo definitivo fermarsi, del suo uscire dalla decadenza e dall'essere: un'uscita che mette fine a quella disarmonia, a quella cacofonia e la sposta verso altri lamenti, verso altre querimonie: in eterno.

9 giugno 2010

Dogmi

Un'amica lettrice richiama l'attenzione di Apollonio sopra un articolo di Angelo Panebianco, comparso sul Corriere della Sera di un paio di giorni fa. I pericoli che "scienza" e "scienziati" corrono nella temperie presente e quelli, congiunti, che fanno correre al prossimo (che si tratti di altri "scienziati" o no) vi sono pacatamente discussi, nelle loro ragioni tanto contingenti quanto permanenti.
Tra le contingenti e tipiche della modernità marcia, il contatto con un'opinione pubblica che, ormai orfana di Dio e dei preti anche quando va alla messa ogni domenica, è sempre alla spasmodica caccia di predicatori consolatori o apocalittici (tra i quali, in prima fila da qualche tempo gli studiosi del clima).
Tra le permanenti, il dogmatismo (cui è dedicata l'enfasi del titolo) di chi, tra gli "scienziati", si comporta come se avesse ragione per principio, stando sull'onda dell'andazzo, che, padrone della società, non risparmia certo laboratori e biblioteche: anzi.
La conclusione del pezzo è divertente, poi, con la vicenda delle mucillagini adriatiche di tempo fa e dell'unico esperto, tra i molti intervistati in tv e subito pronti a tromboneggiarne spiegazioni, che risponde: "Non so. Il fenomeno è complesso. Devo studiarlo". Per tale risposta, egli si merita oggi la lode di affidabile e saggio studioso da parte di Panebianco e non diversamente l'avrebbe pensata Leonardo Sciascia. Non tutti avranno ancora memoria del fatto che, chiamato a dire la sua, come grande esperto di cose siciliane, su una delle peggiori stagioni palermitane di crude mattanze, quella degli inizi degli anni Ottanta, Sciascia rispose: "Non si capisce", lasciando tutti di stucco.
Grazie perciò all'amica lettrice della segnalazione: tutto condivisibile. Facilmente. Troppo facilmente?
Nel fondo dolceamaro dello spirito di Apollonio, a lettura conchiusa, resta infatti un'insoddisfazione. La sua legnosa testa è rósa da uno di quei tarli che egli trova (ma forse si illude) salutari per una anche minima circolazione interna di pensieri diversi dai soliti.
Ma sì, che lo si dica apertamente. Malgrado paia che critichi duramente e faccia il burbero, Panebianco, con la "scienza" è fin troppo benevolo; è fin troppo condiscendente. Verso essa ha l'attitudine tipica del chierico di una moderna religione. Un'attitudine intelligente, certo, ma su cui pende sempre un'implacabile condanna: quella di abbassare il capo, di sospendere, a un certo punto, la critica e di sottomettersi speranzosi alla fede nelle sorti magnifiche e progressive, delle quali alla "scienza" (ora che tutto il resto è crollato e non solo i sogni moderni ma anche i presunti rimedi a tali sogni si sono rivelati incubi) è rimasta la massima e messianica parte. La condanna ha poi un'aggravante. Fede e speranza non si possono perdere, tanto meno pubblicamente: "Però l'errore dogmatico è, col tempo, rimediabile. Data la natura antidogmatica della scienza, il dogmatismo che talora pervade scuole e settori scientifici resta fondamentalmente un corpo estraneo. Non dipende dalla scienza ma dalle debolezze umane degli scienziati. Prima o poi, è l'attività scientifica stessa, nel suo procedere, a sviluppare gli anticorpi e a sconfiggere il dogmatismo...": con un altro dogmatismo, visto che, come ogni altra prassi umana, ne produce di continuo? O è blasfemo chiederlo, perché la "scienza" è per principio l'eccezione e va, per ciò stesso, santificata? E ciò che Panebianco ci racconta, consolante, della differenza tra "scienza" e "debolezze umane degli scienziati", ciò che, come esperto, ci dice delle mucillagini del dogmatismo, che resterebbe in ogni caso "estraneo" alla "scienza", priva (per grazia di chi?) dei miserabili difetti umani, non lo si è mille volte sentito raccontare, pari pari, da un pulpito? Basta sostituire "peccato" a "dogmatismo", "religiosi" a "scienziati" e "chiesa" a "scienza" e si vedrà che Panebianco, da buon chierico, sta in sostanza facendo il solito fervorino edificante: il vostro "scienziato" (come il vostro parroco) è solo un pover'uomo vanesio e conformista, quindi dogmatico alla bisogna, ma la "scienza" che egli serve sublima queste miserie, corregge i suoi umani errori: la "scienza" è la "Scienza".
No. Diversamente dall'uomo saggio e pensoso che dice di avere ammirato (e che solo per caso, di professione, fa lo "scienziato"), con questo scritto Panebianco non ci ha detto: "Bah! non so. Il caso della scienza e del dogmatismo è complesso. Devo studiarlo". E mille e più di mille, cara amica lettrice, sono i travestimenti sotto cui viaggiano i pensieri dogmatici.

3 giugno 2010

Pace (e guerra)

Questa foto circola in rete. "Pacifisti, di ritorno a Istanbul": è più o meno la glossa che le riservano i mezzi di informazione che la pubblicano. Il riferimento è ai tragici fatti accaduti un paio di giorni fa, nelle acque di Gaza, che hanno visto morire una decina di esseri umani. Valeva evidentemente la pena morissero perché, ridendo, si alzassero due dita aperte in segno di vittoria. Vittoria su cosa?
Niente di nuovo, naturalmente. Pace e guerra (come amore, odio, solidarietà etc.) sono tra le parole che si prestano meglio a ogni mistificazione e non c'è stata epoca in cui a qualcuno non è venuto in mente di mettere in guardia gli esseri umani da tale loro capacità trasformistica (che dell'espressione umana è risorsa e bellezza). Mettere in guardia inutilmente: è ovvio. Talvolta vestiti da agnelli, talaltra da lupi, gli esseri umani sono ciò che sono: la loro espressione, i loro ghigni, i loro gesti ne celano la natura. Celandola, ne rivelano sempre però il turpe celamento.