31 agosto 2007

L'esotico quotidiano (col pretesto di Emile Benveniste)

"Ce qui caractérise en propre le verbe indo-européen – osservò Benveniste nel 1950: lo si può leggere alla pagina 169 dei suoi famosi Problèmes de linguistique générale – est qu’il ne porte référence qu’au sujet, non à l’objet. A la différence du verbe des langues caucasiennes ou amérindiennes par exemple, celui-ci n'inclut pas d’indice signalant le terme (ou l’objet) du procès". L’allievo prediletto del grande Antoine Meillet additava con tali parole un dato indiscutibile. Negli studi morfosintattici, quando è questione di una lingua indoeuropea, interrogarsi sulla funzione della flessione significa per larghissima parte determinare i modi con cui essa manifesta le proprietà sintattiche di quella funzione argomentale del costrutto designabile per convenzione come Soggetto finale. Tale manifestazione contribuisce del resto in modo decisivo (e spesso esclusivo) alla discriminazione superficiale di tipi di costrutti differenti: è solo per le proprietà formali della flessione che, in latino, Lesbia amat si oppone a Lesbia amatur.
All’indiscutibile osservazione non conseguì però né da parte dello studioso né da parte dei suoi epigoni o oppositori un’attitudine di ricerca consona alla portata di radicale chiarezza e semplicità esibita da tali parole. Essa è stata così dispersa nella mancata distinzione tra funzione (cioè rapporto, dipendenza) e senso che caratterizzò gran parte dell’opera scientifica di Benveniste, come caratterizza lo stato presente degli studi.
Se la si fosse presa sul serio e se ci si fosse impegnati nella sua agevole verifica, ci si sarebbe accorti da tempo (Apollonio ne fornisce prove dal 1984 e se ne diverte, nel privato come nel pubblico, sotto il nom de plume della sua vita scientifica) che essa è tanto ovvia quanto solo parzialmente vera e, di conseguenza, sostanzialmente falsa e ingannatrice, a meno di non considerare lingue non-indoeuropee proprio quel francese in cui Benveniste si esprimeva o l’italiano (e con esso un gran numero di varietà italoromanze).
In tali lingue, che potrebbero essere meno peregrine per la comune esperienza del linguista occidentale di quanto non lo siano le amerindie o le caucasiche, sotto le adeguate condizioni sperimentali di osservabilità, la flessione riserva infatti un «indice», cioè uno spazio formale di manifestazione, a una funzione argomentale diversa dal Soggetto (finale): a una funzione designabile convenzionalmente come Oggetto.
Nei primi due capitoli dei Promessi Sposi, per esempio, si legge: "Ma chi, prima di commettere il delitto, aveva prese le sue misure, per ricoverarsi a tempo in un convento…"; "rimanendo celibe, per aver rifiutati tutti i partiti che le si erano offerti…"; "ma non aveva ancor toccata la soglia del salotto…"; "secondariamente aveva già date tutte le disposizioni necessarie…"; "da quando aveva messi gli occhi addosso a Lucia…"; "poiché me ne ha già rotta bastantemente la testa…"; "che avesse data a colui la più piccola occasione…"; "poteva colui aver concepita quell’infame passione…"; "avrebbe spinte le cose tanto in là…"; "e Lucia non ne aveva mai detta una parola a lui!"
Volendosi concedere le emozioni d’un viaggio tra i monti del Caucaso o in una riserva indiana, con buona pace dell’anima riverita del grande indoeuropeista, il lettore potrà peraltro dilettarsi a intercettare nel parlato di tutti i giorni che lo circonda (dalla chiacchiera privata alla discussione di lavoro e al gossip televisivo) tutti i casi in cui il participio di una forma verbale composta si flette in funzione delle proprietà dell’Oggetto che lo accompagna, precedendolo come seguendolo.
E potrà riflettere sul caso bizzarro delle pagine dedicate all'accordo del participio passato della noiosa grammatica dei suoi anni di scuola. Senza che egli lo sapesse, esse lo introducevano ai modi con cui la sua lingua s'ammanterebbe d'esotismo.
Insomma: ciò che è diverso rispetto a radicate convinzioni e pregiudizi è sempre lì sotto gli occhi di tutti. Forse per questa ragione pone alla saggezza (non solo alla linguistica) i problemi più interessanti. A non accorgersene però sono talvolta proprio i più celebrati specialisti.

1 agosto 2007

Il potere linguistico della stupidità

Non sono mai mancate, nella storia della cultura occidentale, analisi anche molto acute e profonde e rappresentazioni sarcastiche e verisimili della stupidità linguistica del potere. Più rare – e se è così una ragione ci sarà – sono sempre state quelle del potere linguistico della stupidità. Il potere è infatti di norma, in un modo o nell’altro, manifesto e si presta così a essere facilmente identificato attraverso le sue forme comunicative (in cui peraltro si riduce la sua volontà espressiva, con tipico collasso). La stupidità e soprattutto il suo potere sono al contrario camuffati e, al tempo stesso, enormemente diffusi: irriconoscibili a se stessi (uno stupido che sapesse di esserlo smetterebbe ipso facto di esserlo – almeno compiutamente), sono per ciò stesso difficilmente catturabili dai tradizionali strumenti di analisi storica e socioculturale, dal momento che spesso tali strumenti ne sono solo un cascame pedante. La stupidità esercita così (e senza parere) il potere più persistente e assoluto, soprattutto attraverso e sulla lingua. A smascherare, almeno parzialmente, il potere linguistico della stupidità può essere solo uno sguardo stupido privo di potere. La saggezza immaginata da Ferdinand de Saussure pare possederlo e si candida quindi a essere il (sempre precario) strumento euristico dell’eterna battaglia, eternamente perduta, contro il potere linguistico della stupidità.