21 marzo 2007

Nevica

Oggi, per convenzione cronologica, primo giorno di primavera, comincio le mie lezioni del Semestre estivo. E ha nevicato. E quando ha smesso, il cielo è rimasto, ancora per qualche ora, autunnale. Cosa c'è di più trito del parlare del tempo, non solo del meteorologico? La banalità dell'osservazione non dovrebbe tuttavia nascondere, non tanto al linguista quanto a chiunque provi a esprimersi con un briciolo di consapevolezza, che l'ironia è iscritta nel farsi stesso dell'attività espressiva e che se una parola non pare ironica a chi l'ascolta (anche solo per il fatto di averla egli stesso proferita) è perché essa lo sta ironicamente giocando.

16 marzo 2007

Scolaro, somaro...

L'esperienza è comune: come odori e sapori, ci sono espressioni che improvvisamente piombano chi le sente nel pozzo dei ricordi. Espressioni e parole hanno del resto odore e sapore: non c'è quasi bisogno di dirlo. Alcune puzzano di rinchiuso o di marcio, in altre si percepisce lo zolfo o il cloroformio, altre ancora olezzano fiorite. E poi ce ne sono di amare, di dolci, di sapide, di insipide, di succulente, di stucchevoli e di stomachevoli.
Scolaro, per me, ha odore e sapore e mi sbalza indietro nel tempo a più di trenta anni fa, e nello spazio, a Pisa, Istituto di Glottologia, Via Santa Maria 36. Vi sbarcavo con un modestissimo bagaglio alla fine del 1975, convinto (prova appunto di quella modestia) che scolaro ero stato un dì, con altri mocciosi siciliani, in più di un paesotto dell'Agrigentino, ma che, doppiata la boa della quinta classe elementare, fossi divenuto definitivamente studente: ricordo i miei farmelo presente, con l'aria severa di chi rammenta a un pivello l'onere di un ambito ruolo sociale. Studente, appunto, in attesa che il futuro mi dicesse cosa sarei divenuto per sorte e capacità.
Ebbene, anni dopo, giunto studente a Pisa da Palermo, per fuggire l'ombra lunga e minacciosa di una congrega accademica, "E lei, di chi è scolaro?" fu la prima domanda che mi si fece. E la risposta, credo, decise di me (ma ciò esula dalla presente storia).
Scolaro di..., capii subito, era ben diverso da scolaro in assoluto (ciò che in giorni ancora non molto lontani ero stato): e non era detto fosse meglio. Anche perché, quando ero appunto in assoluto scolaro in quei paesotti siciliani, popolosi come assolati campi di grano ma stretti come gole montane, più di una volta, apparendo sconosciuto in un contesto umano, m'ero sentito apostrofare con un "E tu, a cu apparteni?", affettuoso o diffidente, variante, certo, meno elegante della domanda pisana ma più sincera.
Col suo talvolta implicito complemento, di cui studi successivi e una maggiore intelligenza dei fatti m'avrebbero chiarito la funzione grammaticale di soggetto, scolaro era parola-chiave del contesto umano in cui m'ero volenterosamente ficcato. Per capirlo bastava del resto frequentare tale contesto anche occasionalmente. Per qualche anno io lo feci invece regolarmente: cocciuto, mai assente ai seminari.
E se una scommessa del genere fosse possibile, scommetterei volentieri e sicuro di vincere sul fatto che, per molti decenni, la parola scolaro sia stata proferita in quelle stanze decine di volte al giorno.
Ricordo il palese godimento con cui le figure che vi svettavano ne preparavano l'apparizione nei loro discorsi, il gusto che trovavano nel pronunciarla, lo sciogliersi della parola nella loro bocca: una, la più importante, quella da cui scolaro eruttava senza posa, si atteggiava spesso a un bizzarro musino, che io trovai sempre enigmatico.
E in quelle bocche scolaro si scioglieva in miele, se il riferimento era a se medesimi o ai propri, o in fiele, nel caso degli altri, di norma spregiati. Occasioni in cui, affiancata e connessa a scolaro, compariva abitualmente, accompagnata variabilmente da sorrisi o da accenti di sdegno, un'altra parola-emblema: somaro.
E così tra lo scolaro che, superata l'infanzia, mai più divenni e il somaro che ero e son rimasto (anche solo per il fatto di aver appunto sopportato, cocciuto e paziente, non lievi some) , trascorsi i miei anni pisani di studio.
Oggi, vedendo ancora comparire in scritti ideati in riva all'Arno la parola scolaro, la lusinga della memoria mi illude di intendere e di assaporare meglio, per quel suo rimare con somaro e grazie alle misteriose e nascoste virtù esplicative delle forme, anche l'aspetto onomastico di vicende connesse e successive che m'è accaduto di vivere.

14 marzo 2007

Coppie non minime: scienza e politica (accademica)

"Fort heureusement, les conférences scientifiques et politiques n'ont rien de commun. Le succès d'une convention politique dépend de l'accord de la majorité ou de la totalité de ses participants. En revanche, le recours au vote et au veto est étranger aux débats scientifiques, où le désaccord se revèle en général plus productif que l'accord. Le désaccord dévoile des antinomies et des tensions à l'intérieur du champ étudié; il est le prétexte à des nouvelles explorations". A parlare è Roman Jakobson, quel folletto che, nel secolo scorso, a partire da una prospettiva autenticamente linguistica, ha scorrazzato con una genialità fulminante e imprevedibile quasi per ogni contrada delle cosiddette scienze umane, lasciando ovunque segni del suo passaggio. Segni, spesso, da simpatico lestofante, ma anche per tale ragione sempre meritevoli di riflessione. Le parole in esordio, citate secondo l'ormai classica traduzione francese comparsa negli Essais de linguistique générale, aprivano i suoi Closing statements a un congresso tenutosi or sono ormai quasi cinquanta anni. Sono insomma le parole d'esordio del suo celebre saggio su linguistica e poetica, che anni fa non poteva mancare di aver letto (e talvolta meditato, con fatica) quasi ogni aspirante studioso di problemi linguistici. Mi sono nuovamente cadute sotto gli occhi qualche mese fa: quel saggio fa parte delle letture che consiglio a chi mi avvicina professionalmente e, di conseguenza, capita a ogni semestre di discuterne in classe, in un modo o nell'altro. E hanno preso per me un fresco e nuovo valore: le precedenti letture erano state evidentemente tutte poco attente a quell'incipit e attratte invece dal grumo di complessità che, dopo una sistemazione dello scibile comunicativo di apparente chiarezza cartesiana (tecnica non rara negli scritti di Jakobson, incorreggibile seduttore), lo scritto riserva al lettore troppo fiducioso di sé. E' vero: vi ho sentito - e, mi dico adesso, facilmente - echeggiare i modi ai quali, cento anni prima, John Stuart Mill aveva affidato la sua lode della libertà, con l'impagabile ingenuità predicatoria di chi sa di avere inoppugnabilmente ragione. Ma a fare risuonare nelle mie orecchie in modo nuovo e diverso quelle espressioni è stata - spesso accade così - solo una modesta esperienza personale (l'essermi ancora imbattuto in un veto), su cui, proprio in quanto personale, non vale appunto la pena di diffondersi. Basterà dire che, se il criterio del grande linguista russo è cartina di tornasole, nella linguistica d'oggi, molti eventi spacciati per scientifici (e ciascuno trovi i suoi esempi: a me non ne mancano) sono in realtà meramente politici (e d'una politica accademica, peraltro, di infimo rango).