Gli Italiani partono per le vacanze? "Con l'incubo delle code", se si dirigono verso il Sud, "con l'incubo della 'nuova' influenza", se passano per un aeroporto e sono diretti all'estero. In montagna? "Una stagione da incubo, per numero di incidenti". Né va diversamente al mare: "Una stagione da incubo, per numero di annegamenti". E mille e mille altre ricorrenze: lingua dei media e lingua quotidiana si rispecchiano in questo caso. Il corso di linguistica? "Un incubo". La storiaccia con il marito della collega? "Un incubo".
La vicenda deve essere vecchia e pare ci sia implicato addirittura Giuseppe Mazzini: "Io sono oppresso dalla vergogna per l'Italia: è un incubo del dì e della notte". A leggere il Tommaseo-Bellini, incubo dilaga infatti almeno dalla metà dell'Ottocento e già vi si parla di "abuso" del traslato: antipatie ideologiche? Minuscolo e saporito dettaglio dell'eterno, buffo contrasto tra l'Italia guelfa e quella ghibellina?
Comunque motivata, la prospettiva normativa rischia però d'essere più stupida della stupidità che pretende di colpire, come al solito. La parola non va ripresa: va osservata amorevolmente, anche quando dà sui nervi. Non mente mai, per la semplice ragione che non dice nemmeno la verità: la parola si esprime, opponendosi al silenzio. E il lento dilagare di incubo esprime e svela, come meglio mai si potrebbe, ciò che è sotto gli occhi di tutti: soggetti a tanti incubi, gli Italiani sono evidentemente in uno stato permanente di sonno.
Con la scusa di raccontare esemplarmente vicende risorgimentali, del resto, Lampedusa lo scrisse dei Siciliani, in pagine famigerate: ma, come pochi si sono accorti (gli altri dormivano, appunto), era solo una sineddoche. Né si potrà dire che si tratta di sonno della ragione. La facoltà in questione è infatti la più tipica tra le nazional-popolari: è la volontà. Gli Italiani vogliono dormire: chi potrebbe dar loro torto? I loro incubi? Modesto prezzo da pagare.
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