Un dì (quando c'era solo la stampa) si pubblicavano articoli, pezzi, elzeviri, si interveniva, si polemizzava, si discuteva.
Oggi, ci si faccia caso, sulla stampa e sui suoi succedanei non compaiono che "riflessioni". "Esce oggi una mia riflessione...", "...ho riflettuto sul tema in...", "...ci ha inviato una sua riflessione in proposito...".
Non c'è più nessuno che scriva e basta, nessuno che scriva, se si vuole, senza riflettere. Tra le persone di autentico talento, così usava una volta. Ci pensino un attimo i due lettori di Apollonio. Pier Paolo Pasolini che chiama un suo pezzo per il Corriere "la mia riflessione": lo vedono possibile? Suvvia! È una virtù perduta, lo scrivere irriflesso. E le sciocchezze (anche violente) che si leggono in quantità non sono effetto di assenza di riflessione ma del suo contrario: di un eccesso di riflessione.
Oggi, non c'è peraltro più nessuno che, quando scrive, non vuole dare a intendere di avere riflettuto. "Perché tieni a dirmelo?", verrebbe da chiedergli, "Temi forse che io sospetti tu non l'abbia fatto?"
Del resto, a rifletterci un momento, l'uso che dilaga non è che un riflesso. Le acque stagnanti di una temperie riflettente (più che riflessiva) rimandano indietro ai suoi protagonisti (di qualsiasi taglia essi siano) le loro immagini riflesse, motivo di compiacimento per il loro narcisismo.
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