5 maggio 2006
“Accuminzamo, cu nova promissa, sta gran sulenni pigliata pi fissa”
Andrea Camilleri all’Università di San Gallo, in videoconferenza
Cento E.T. ad un incontro ravvicinato del terzo tipo
San Gallo, sabato 17 dicembre 2005, pochi minuti prima delle 10 del mattino. Sparute automobili si arrampicano per la collina su cui è adagiata l’Università. Ne scendono, infreddoliti negli abiti della festa, signori e signore di mezza età. Non hanno certo l’aria da studenti. Ha nevicato con abbondanza, durante la notte. A tratti, cade ancora qualche fiocco. Un cielo basso e grigio non incoraggia a mettere il naso fuori di casa, in una mattinata semifestiva che già annuncia gli ozi del Natale. A che pro affrontare la neve e i passi cauti che impone?
Chi da una finestra osserva passare quelle auto non nota nei loro occupanti, dietro i vetri appannati, una certa aria di famiglia. Non sente che vi risuona la lingua del sì, nei modi con cui si presenta sulle bocche dell’emigrazione italiana in Svizzera. Modi meridionali, soprattutto: pugliesi e abruzzesi, calabresi e campani, lucani e siciliani. Il tempo, meteorologico ma anche cronologico (sabato mattina, alle 10!), non favorisce le adunate oceaniche. Tuttavia, tra la neve e i suoi rumori attenuati, un centinaio di Italiani si muovono compatti verso un’aula universitaria, per un incontro ravvicinato con l’oggi ottantenne Andrea Camilleri, nato a Porto Empedocle (provincia di Agrigento), residente a Roma, marito, padre e nonno felice, regista teatrale e curatore di serie radiofoniche e televisive, docente di scuole di teatro, imparentato (alla lontana) con Luigi Pirandello (nato del resto proprio da quelle parti) e per lungo tempo scrittore a tempo (quasi) perso.
Un fenomeno culturale e editoriale
Da oltre dieci anni, come ognuno sa, Camilleri, ben avanti negli anni, è diventato la penna più fortunata del gran mondo nazionale della pagina scritta. Un fenomeno editoriale e culturale.
Tutto merito suo e dei suoi lettori, si badi bene. I suoi primi libri non escono infatti per i tipi di uno dei pesci grossi che popolano lo stagno della produzione e del consumo culturale nazionale né godono delle recensioni, pronte ed entusiaste, che cementano le combriccole mondano-accademiche.
Ha pubblicato (e continua a farlo) per Sellerio, un’impresa editoriale artigianale voluta a Palermo da Leonardo Sciascia. A Palermo, dove produrre libri è come coltivare fichi d’India a Milano! Si esprimeva più o meno così lo stesso Sciascia, nato a Racalmuto, che (forse è il caso di precisare), è una cittadina del Girgentano distante pochi chilometri da Porto Empedocle. Insomma, un fazzoletto di terra in cui negli ultimi tre millenni le Furie e Apollo, le Muse e Dioniso devono averne fatte, di ammucchiate.
Anzi, la folgorante apparizione di Camilleri ha salvato la piccola Sellerio quando pareva pronta a precipitare nel baratro della crisi definitiva, scomparso il suo mentore e ispiratore. D’incanto, le classifiche dei libri di maggior successo hanno visto spadroneggiare quei volumetti blu di Prussia che oggi tutti riconoscono e che sono divenuti piccoli oggetti di culto.
Per certi periodi, quattro presenze nelle prime dieci posizioni. Copie vendute a milioni e diritti di traduzione in una babele di lingue. Del resto, i romanzi di Camilleri escono ormai da tempo al ritmo di più di due per anno (né il loro autore si nega una complementare attività di polemista impegnato a sinistra).
Non sarà la cadenza dell’amato Simenon, la cui leggendaria prolificità compositiva fu pari all’altrettanto favolosa capacità di amare le donne (diverse migliaia a sua detta). Ma con i suoi ritmi Camilleri riesce oggi a non abbandonare la prediletta Sellerio (costanza che gli fa onore) e a soddisfare largamente le esigenze non solo della volgarizzazione televisiva, ma anche della Arnoldo Mondadori Editore, emanazione del maggiore gruppo italiano sul mercato dei media e della comunicazione (necessario diffondersi sulla proprietà?).
Camilleri lascia così tutti contenti: anche quelli di cui, con benefici di popolarità, parla male. Riesce insomma a essere al tempo stesso nazional-popolare (come vuole) e popolar-imprenditoriale (come deve, visto che – e non si stanca di ricordarlo – ha famiglia). Gradito agli uni e utile agli altri. Tanto più utile agli altri quanto più gradito agli uni.
Sulle reti Rai passano in prima serata gli episodi della serie televisiva dell’ormai celeberrimo commissario Montalbano, impersonato da un attore dai modi piacioni ma dal profilo mussoliniano. In dislocata sinergia, con corredo di introduzioni cattedratiche e di volenterosi saggi critici, i “Meridiani” di Mondadori gli dedicano, come a un classico, due volumi provvisoriamente definitivi.
In parole e immagini
Provvisoriamente definitivi perché l’opera dello scrittore è ovviamente ben lungi dall’essere compiuta, sostenuta com’è da un’incontenibile vena affabulatrice che esperienze di vita e lunga pratica professionale nel mondo dello spettacolo hanno reso sapiente. Con l’irresistibile simpatia donatagli da tale vena, Camilleri si è presentato in immagine, tra le nevi di San Gallo, il 17 dicembre 2005, a un centinaio di già conquistati lettori. Sì, in immagine e in parola. Lo scrittore era presente infatti in un’aula dell’Università, procurata da Renato Martinoni (professore di Italianistica e presidente della locale sezione della Società Dante Alighieri). Ma ciò è accaduto senza che egli lasciasse Roma e una sala del Ministero degli Affari Esteri, grazie a un collegamento in videoconferenza voluto (e personalmente curato) da Giampaolo Ceprini, console italiano di San Gallo, che a Roma gli sedeva appunto accanto, visibilmente e giustamente deliziato.
Dall’astronave del medium tecnologico, la parola e la figura dello scrittore siciliano hanno così potuto materializzarsi tra noi. E l’atmosfera – cooperanti le già descritte condizioni ambientali – poteva parere da contatto con un altro mondo: insomma, un incontro ravvicinato del terzo tipo.
Lassamu fari a Diu
La discussione a più voci (alcune delle quali autentiche) con l’ologramma vivente di Camilleri ha avuto, come c’era da attendersi, momenti belli e spassosi. Si è appreso, tra l’altro, che la fine di Montalbano è già scritta, che il relativo romanzo è stato consegnato all’editore, con l’istruzione che lo mandi in istampa quando… “lassamu fari a Diu”. Frattanto, per l’estate prossima ci si può attendere una nuova avventura del celebre commissario e altre certamente ne seguiranno.
E quante evocazioni di tempi, di arie, di luoghi resi preziosi dalla lontananza e vividissimi dalla parola di un ottantenne “privo dell’umor nero della vecchiaia” (come si definisce egli stesso). Rivelazioni gustose e accattivanti: memorie (la giovinezza, il padre) e aperture sulla vita privata (l’importantissima moglie: non siciliana, ma “romana, e di educazione milanese”).
Soprattutto, le consolazioni elargite dai luoghi comuni. Applicati alle novità del giorno, sociali o politiche, i cliché prendono la piacevole patina dell’inedito domestico. Producono acutezze bonarie e soprattutto facili da condividere. Con la sua lingua e con i suoi modi, Camilleri è un maestro della sbrecciatura del nuovo e del rinnovamento del noto: “Lavoro, il mio? Privilegio. Scaricare casse al porto o ai mercati generali: quello sì che è lavorare”.
Sta gran sulenni pigliata pi fissa
Gli si fa notare allora di aver donato a un Montalbano appena desto il seguente e permanente pensiero mattutino: “Accuminzamo, cu nova promissa, sta gran sulenni pigliata pi fissa”. Trovata e concetto quasi shakespeariani: vi echeggia, su un tono giustamente minore, una celebre sortita di Macbeth: “La vita non è che un’ombra che cammina; un povero commediante che si pavoneggia e si agita, sulla scena del mondo, per la sua ora, e poi non se ne parla più; una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e di furore, che non significa nulla”. Insomma, una “gran sulenni pigliata pi fissa”.
Sennonché Camilleri precisa: il pensiero è di Montalbano. Egli se ne dissocia vivamente. Lo attribuirebbe semmai a suo padre, dalla memoria del quale prende ancora espressioni e attitudini da proiettare sul suo personaggio. Senza nemmeno rendersene conto, come (confessa) gli rimprovera con dolcezza sua moglie, che del suocero serba vive rimembranze.
Dai freddi paesaggi scozzesi, corruschi dei fuochi della battaglia, la scena passa subito così al caldo tinello di casa e al ragù che sobbolle. A differenza del padre e di Montalbano, suo ideale figlio di carta, Camilleri crede che ci siano cose che non sono “pigliate pi fissa”. È anzi un dovere sociale, prima che personale, tenersi stretti a tale fede. Scherzare con i fanti è concesso, ma santi e profeti vanno lasciati in pace (come insegnano del resto anche recentissime vicende). Soprattutto se sono santi che, lungi dallo stare in paradiso, si impicciano di crude vicende terrene come la vita politica (eventualmente nazionale).
Cultore di un’illustre tradizione di pensiero e di comportamento nazionale
Solo una menzogna può salvare la verità del narrare: lo diceva Dostoievski a proposito del Don Chisciotte, l’archetipo del romanzo moderno. Ma invitato a rivelare la sua menzogna di narratore (con la premessa di un confronto tanto illustre), Camilleri si avvale della facoltà di non rispondere (forse per modestia). Dichiara solo che, se una sua menzogna esiste, egli non la conosce.
Rivendica tuttavia per sé la figura di gioioso “tragediaturi”: come scrittore, s’intende. E anticipa per chi lo ascolta una benevola burla ai danni, per dire così, dei committenti tedeschi di un testo destinato al catalogo di una prossima mostra di opere di Caravaggio. Si tratterà della trascrizione di un finora ignoto manoscritto siciliano del pittore (che, com’è noto, soggiornò e operò nell’isola).
Attenzione, però: vita privata e impegno sociale sono altra cosa. Lì il “tragediaturi” non c’è. Insomma, a quella piccola cerchia di ammiratori accovacciati ai piedi dell’astronave, Camilleri si presenta puntigliosamente per quel che è: cultore di un’illustre tradizione di pensiero e di comportamento nazionale (forse della più illustre).
Mezzogiorno è passato già da un po’ e (per i tempi imposti dal satellite) l’ologramma pian piano sfuma nel nulla. L’astronave è in partenza e con essa svanisce la parola dello scrittore. L’aula si svuota: resta nell’aria e nella penombra ciò che era implicito, ma non per questo meno chiaro, sin dal principio.
A condurci là in cento, tra la neve di San Gallo, sabato 17 dicembre 2005 alle 10 del mattino, non è stato un incontro ravvicinato del terzo tipo. Le forme tecnologiche? Abito di scena: tocco post-moderno, perfettamente riuscito, di un’azione teatrale ispirata da uno zefiro antico, prezioso e profumato (ma, ahimè, passeggero). Un’aria domestica: i pensieri e le attitudini italiane di sempre, con il soffio carezzevole della lingua quotidiana, mescidata di forme dialettali, che dà loro sostanza.
L’astronave che s’è portato via il nostro Camilleri brilla come un punto ormai lontano nel cielo. Cento piccoli E.T., amabilmente deformi e inadeguati al rigore di quella neve, la inseguono con gli occhi e, commossi, stanno tutti sillabando: “Ca-sa”…
Chi da una finestra osserva passare quelle auto non nota nei loro occupanti, dietro i vetri appannati, una certa aria di famiglia. Non sente che vi risuona la lingua del sì, nei modi con cui si presenta sulle bocche dell’emigrazione italiana in Svizzera. Modi meridionali, soprattutto: pugliesi e abruzzesi, calabresi e campani, lucani e siciliani. Il tempo, meteorologico ma anche cronologico (sabato mattina, alle 10!), non favorisce le adunate oceaniche. Tuttavia, tra la neve e i suoi rumori attenuati, un centinaio di Italiani si muovono compatti verso un’aula universitaria, per un incontro ravvicinato con l’oggi ottantenne Andrea Camilleri, nato a Porto Empedocle (provincia di Agrigento), residente a Roma, marito, padre e nonno felice, regista teatrale e curatore di serie radiofoniche e televisive, docente di scuole di teatro, imparentato (alla lontana) con Luigi Pirandello (nato del resto proprio da quelle parti) e per lungo tempo scrittore a tempo (quasi) perso.
Un fenomeno culturale e editoriale
Da oltre dieci anni, come ognuno sa, Camilleri, ben avanti negli anni, è diventato la penna più fortunata del gran mondo nazionale della pagina scritta. Un fenomeno editoriale e culturale.
Tutto merito suo e dei suoi lettori, si badi bene. I suoi primi libri non escono infatti per i tipi di uno dei pesci grossi che popolano lo stagno della produzione e del consumo culturale nazionale né godono delle recensioni, pronte ed entusiaste, che cementano le combriccole mondano-accademiche.
Ha pubblicato (e continua a farlo) per Sellerio, un’impresa editoriale artigianale voluta a Palermo da Leonardo Sciascia. A Palermo, dove produrre libri è come coltivare fichi d’India a Milano! Si esprimeva più o meno così lo stesso Sciascia, nato a Racalmuto, che (forse è il caso di precisare), è una cittadina del Girgentano distante pochi chilometri da Porto Empedocle. Insomma, un fazzoletto di terra in cui negli ultimi tre millenni le Furie e Apollo, le Muse e Dioniso devono averne fatte, di ammucchiate.
Anzi, la folgorante apparizione di Camilleri ha salvato la piccola Sellerio quando pareva pronta a precipitare nel baratro della crisi definitiva, scomparso il suo mentore e ispiratore. D’incanto, le classifiche dei libri di maggior successo hanno visto spadroneggiare quei volumetti blu di Prussia che oggi tutti riconoscono e che sono divenuti piccoli oggetti di culto.
Per certi periodi, quattro presenze nelle prime dieci posizioni. Copie vendute a milioni e diritti di traduzione in una babele di lingue. Del resto, i romanzi di Camilleri escono ormai da tempo al ritmo di più di due per anno (né il loro autore si nega una complementare attività di polemista impegnato a sinistra).
Non sarà la cadenza dell’amato Simenon, la cui leggendaria prolificità compositiva fu pari all’altrettanto favolosa capacità di amare le donne (diverse migliaia a sua detta). Ma con i suoi ritmi Camilleri riesce oggi a non abbandonare la prediletta Sellerio (costanza che gli fa onore) e a soddisfare largamente le esigenze non solo della volgarizzazione televisiva, ma anche della Arnoldo Mondadori Editore, emanazione del maggiore gruppo italiano sul mercato dei media e della comunicazione (necessario diffondersi sulla proprietà?).
Camilleri lascia così tutti contenti: anche quelli di cui, con benefici di popolarità, parla male. Riesce insomma a essere al tempo stesso nazional-popolare (come vuole) e popolar-imprenditoriale (come deve, visto che – e non si stanca di ricordarlo – ha famiglia). Gradito agli uni e utile agli altri. Tanto più utile agli altri quanto più gradito agli uni.
Sulle reti Rai passano in prima serata gli episodi della serie televisiva dell’ormai celeberrimo commissario Montalbano, impersonato da un attore dai modi piacioni ma dal profilo mussoliniano. In dislocata sinergia, con corredo di introduzioni cattedratiche e di volenterosi saggi critici, i “Meridiani” di Mondadori gli dedicano, come a un classico, due volumi provvisoriamente definitivi.
In parole e immagini
Provvisoriamente definitivi perché l’opera dello scrittore è ovviamente ben lungi dall’essere compiuta, sostenuta com’è da un’incontenibile vena affabulatrice che esperienze di vita e lunga pratica professionale nel mondo dello spettacolo hanno reso sapiente. Con l’irresistibile simpatia donatagli da tale vena, Camilleri si è presentato in immagine, tra le nevi di San Gallo, il 17 dicembre 2005, a un centinaio di già conquistati lettori. Sì, in immagine e in parola. Lo scrittore era presente infatti in un’aula dell’Università, procurata da Renato Martinoni (professore di Italianistica e presidente della locale sezione della Società Dante Alighieri). Ma ciò è accaduto senza che egli lasciasse Roma e una sala del Ministero degli Affari Esteri, grazie a un collegamento in videoconferenza voluto (e personalmente curato) da Giampaolo Ceprini, console italiano di San Gallo, che a Roma gli sedeva appunto accanto, visibilmente e giustamente deliziato.
Dall’astronave del medium tecnologico, la parola e la figura dello scrittore siciliano hanno così potuto materializzarsi tra noi. E l’atmosfera – cooperanti le già descritte condizioni ambientali – poteva parere da contatto con un altro mondo: insomma, un incontro ravvicinato del terzo tipo.
Lassamu fari a Diu
La discussione a più voci (alcune delle quali autentiche) con l’ologramma vivente di Camilleri ha avuto, come c’era da attendersi, momenti belli e spassosi. Si è appreso, tra l’altro, che la fine di Montalbano è già scritta, che il relativo romanzo è stato consegnato all’editore, con l’istruzione che lo mandi in istampa quando… “lassamu fari a Diu”. Frattanto, per l’estate prossima ci si può attendere una nuova avventura del celebre commissario e altre certamente ne seguiranno.
E quante evocazioni di tempi, di arie, di luoghi resi preziosi dalla lontananza e vividissimi dalla parola di un ottantenne “privo dell’umor nero della vecchiaia” (come si definisce egli stesso). Rivelazioni gustose e accattivanti: memorie (la giovinezza, il padre) e aperture sulla vita privata (l’importantissima moglie: non siciliana, ma “romana, e di educazione milanese”).
Soprattutto, le consolazioni elargite dai luoghi comuni. Applicati alle novità del giorno, sociali o politiche, i cliché prendono la piacevole patina dell’inedito domestico. Producono acutezze bonarie e soprattutto facili da condividere. Con la sua lingua e con i suoi modi, Camilleri è un maestro della sbrecciatura del nuovo e del rinnovamento del noto: “Lavoro, il mio? Privilegio. Scaricare casse al porto o ai mercati generali: quello sì che è lavorare”.
Sta gran sulenni pigliata pi fissa
Gli si fa notare allora di aver donato a un Montalbano appena desto il seguente e permanente pensiero mattutino: “Accuminzamo, cu nova promissa, sta gran sulenni pigliata pi fissa”. Trovata e concetto quasi shakespeariani: vi echeggia, su un tono giustamente minore, una celebre sortita di Macbeth: “La vita non è che un’ombra che cammina; un povero commediante che si pavoneggia e si agita, sulla scena del mondo, per la sua ora, e poi non se ne parla più; una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e di furore, che non significa nulla”. Insomma, una “gran sulenni pigliata pi fissa”.
Sennonché Camilleri precisa: il pensiero è di Montalbano. Egli se ne dissocia vivamente. Lo attribuirebbe semmai a suo padre, dalla memoria del quale prende ancora espressioni e attitudini da proiettare sul suo personaggio. Senza nemmeno rendersene conto, come (confessa) gli rimprovera con dolcezza sua moglie, che del suocero serba vive rimembranze.
Dai freddi paesaggi scozzesi, corruschi dei fuochi della battaglia, la scena passa subito così al caldo tinello di casa e al ragù che sobbolle. A differenza del padre e di Montalbano, suo ideale figlio di carta, Camilleri crede che ci siano cose che non sono “pigliate pi fissa”. È anzi un dovere sociale, prima che personale, tenersi stretti a tale fede. Scherzare con i fanti è concesso, ma santi e profeti vanno lasciati in pace (come insegnano del resto anche recentissime vicende). Soprattutto se sono santi che, lungi dallo stare in paradiso, si impicciano di crude vicende terrene come la vita politica (eventualmente nazionale).
Cultore di un’illustre tradizione di pensiero e di comportamento nazionale
Solo una menzogna può salvare la verità del narrare: lo diceva Dostoievski a proposito del Don Chisciotte, l’archetipo del romanzo moderno. Ma invitato a rivelare la sua menzogna di narratore (con la premessa di un confronto tanto illustre), Camilleri si avvale della facoltà di non rispondere (forse per modestia). Dichiara solo che, se una sua menzogna esiste, egli non la conosce.
Rivendica tuttavia per sé la figura di gioioso “tragediaturi”: come scrittore, s’intende. E anticipa per chi lo ascolta una benevola burla ai danni, per dire così, dei committenti tedeschi di un testo destinato al catalogo di una prossima mostra di opere di Caravaggio. Si tratterà della trascrizione di un finora ignoto manoscritto siciliano del pittore (che, com’è noto, soggiornò e operò nell’isola).
Attenzione, però: vita privata e impegno sociale sono altra cosa. Lì il “tragediaturi” non c’è. Insomma, a quella piccola cerchia di ammiratori accovacciati ai piedi dell’astronave, Camilleri si presenta puntigliosamente per quel che è: cultore di un’illustre tradizione di pensiero e di comportamento nazionale (forse della più illustre).
Mezzogiorno è passato già da un po’ e (per i tempi imposti dal satellite) l’ologramma pian piano sfuma nel nulla. L’astronave è in partenza e con essa svanisce la parola dello scrittore. L’aula si svuota: resta nell’aria e nella penombra ciò che era implicito, ma non per questo meno chiaro, sin dal principio.
A condurci là in cento, tra la neve di San Gallo, sabato 17 dicembre 2005 alle 10 del mattino, non è stato un incontro ravvicinato del terzo tipo. Le forme tecnologiche? Abito di scena: tocco post-moderno, perfettamente riuscito, di un’azione teatrale ispirata da uno zefiro antico, prezioso e profumato (ma, ahimè, passeggero). Un’aria domestica: i pensieri e le attitudini italiane di sempre, con il soffio carezzevole della lingua quotidiana, mescidata di forme dialettali, che dà loro sostanza.
L’astronave che s’è portato via il nostro Camilleri brilla come un punto ormai lontano nel cielo. Cento piccoli E.T., amabilmente deformi e inadeguati al rigore di quella neve, la inseguono con gli occhi e, commossi, stanno tutti sillabando: “Ca-sa”…
[Questa cronaca è apparsa in "La Rivista", anno 97, n. 3, Marzo 2006 - Camera di Commercio Italiana per la Svizzera, Zurigo]
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