L'antefatto. Sotto il nom de plume che ad Apollonio è toccato di prendere nella parvenza della sua vita professionale, è comparso di recente uno scritto dedicato a Cosa Nostra, curioso delle ragioni non storiche né erudite ma concettuali e linguistiche (cioè paradigmatiche e sintagmatiche) di una simile (auto)designazione: nostra? E perché non mia, tua, sua, vostra o loro? E perché cosa? Non è questo il luogo per riassumere tale scritto (i curiosi vadano a cercarlo, per gli altri un riassunto a cosa servirebbe?), ma basterà dire che quasi tutto vi ruota intorno al noi, il pronome di vigliaccheria (a Giorgio Manganelli il merito di tale definizione, felice anche se inadatta a contenerne l'intero obbrobrio). La divagazione nella miserevole landa linguistica del pronome di prima plurale (già così e senza aggiungere altro se ne denuncia la natura di vergognoso imbroglio) ha ricordato a Pietro De Marchi - saprà lui perché, dietro l'occasione - una lettera di Manzoni (non del Manzoni un'immagine del quale commenta olezzante un post di qualche tempo fa, ma del più noto Alessandro) a Tommaso Grossi, scritta a Firenze il 17 settembre 1827. La lettera è stata segnalata ad Apollonio in una corrispondenza privata di gentile sollecitudine. Se ne mette qui a parte il lettore.
Nel settembre del 1827 Manzoni si trova nel capoluogo toscano per le ragioni ben note e gli capita quel che riferisce al suo corrispondente: "Te ne dirò un'altra, e sarà l'ultima. Niccolini, il quale è uno dei pazienti revisori della mia storia (vedi chi sono andato a pescare; ti par ch'io sia ghiotto, eh?) Niccolini mi disse una di queste sere: a quel passo dove usate la frase con un'aria di me ne rido, potete levare quella giunta: come dicono i milanesi; perché si direbbe benissimo anche qui. Io dissi che questo mi faceva piacere tanto più che il me ne rido non è tanto milanese. La nostra locuzione, soggiunsi, è la più strana del mondo; e sorridendo, appunto come chi dice una cosa pazza, noi diciamo, continuai, diciamo, e chi sa dove lo siamo andati a prendere, diciamo: me ne impipo. - Eh! me ne impipo si dice anche noi. - Voi? - Noi. (E qui considera, tu o Rossari, che altro suono abbia quel noi nella bocca di un Niccolini, che nella nostra di noi, che abbiamo quel noi attaccato collo sputo, che così si dice appunto, non già: appiccato colla sciliva, come credevamo noi;) Dunque, per continuare il dialogo, voi!, ripetei io. - io credeva che voi diceste piuttosto: io me n'indormo. - Che! me n'indormo non lo dice nessuno in Toscana. - E me n'impipo? - ...Me n'impipo lo dicono tutti. All'indomani io contava questa storia all'altro mio buon revisore [...] Io contava dunque la storia al bravo Cioni, il quale mi disse: sicuro, sicuro, impiparsene è la parola più propria e più usata nel linguaggio familiare. Io allora, sorridendo come aveva fatto con Niccolini, noi poi, soggiunsi, appicchiamo a questo verbo una giunta stranissima, cavata non so donde... - Ed è? - Diciamo: impiparsi dell'Olanda. - Sicuro, sicuro, impiparsi dell'Olanda, così diciamo anche noi. - Anche voi? - Anche noi" (dalla scelta delle Lettere di Manzoni, curata da Ugo Dotti per la Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 1985, alle pp. 293-4).
La grazia irresistibile da gag d'altri tempi dell'aneddoto non oscurerà nel lettore la consapevolezza di trovarsi di fronte a una questione di cui, non foss'altro che per diletto, non è consentito, come italiani, d'impiparsi e che i quasi due secoli trascorsi, coi loro fiumi d'inchiostro, sono ben lungi dall'avere chiarito: perché nostra, anche quando si riferisce a lingua, come dimostra la storiella, resta un imbroglio.