Da un enorme manifesto, in aeroporto, Uma Thurman guarda intensa chi passa: sullo sfondo ma al centro, un'auto italiana, d'una marca tradizionalmente sportiva. Tutto il resto sta sullo scuro: un'assenza di colori da lutto. L'attrice è però immagine di un candore perverso (come ognuno sa) e l'auto è bianca. Le luci posteriori sono vivamente rosse come le labbra in primo piano, rosse d'un sangue vivo e pronte ad aprirsi per dire, a grossi caratteri: "Io sono Giulietta e sono fatta della stessa materia di cui sono fatti i sogni".
Il riferimento è corrivo e, a partire dalla metà del Novecento, consolidato nella cultura popolare italiana. Del resto, la marca automobilistica ha Romeo come parte del suo nome. Quasi sessanta anni fa, apparve dunque Giulietta, come nome di un fortunato modello, che risuona esplosivo nella memoria degli Italiani, però, non solo per il menzionato carattere sportivo e perché fu un'auto simbolo del cosiddetto boom economico.
Capitava infatti fosse l'auto d'elezione, al Nord, di caserecce, ma non per questo meno sanguinarie, bande di gangster. Ricorreva di conseguenza nella cronaca nera, in appassionanti racconti di inseguimenti e conflitti a fuoco. Imbottita di tritolo, poi, un'auto con quel nome fu, al Sud, lo strumento di un subdolo e sanguinoso attentato: il primo del genere di matrice mafiosa (come poi si sarebbe preso a dire). Un'auto, insomma, con molte storie da raccontare, anche tragiche e intrise di rosso.
Con naturalezza, di conseguenza, può trovarsi impersonata da una testimonial che ha avuto ruoli in pellicole paradigmaticamente sanguinolente. Anglosassone, certo, ma nel caso specifico apparente interprete, in quanto Giulietta, di una favola di ambiente veronese e, per eccellenza, italiano: sostanziata, proprio in quanto italiana, di apparenza.
Per straniante contatto, del resto, la dichiarazione di identità s'intreccia con la celebre sortita di un personaggio che fa Prospero di nome ma sta nella tempesta e sopra un'isola fantastica, tra i poli italiani di Napoli e Milano. Di fatto e non di nome, non s'immagina forse così il potenziale acquirente di quell'auto sportiva? Titolare di una tempestosa prosperità, nel caso marcato e vagamente malavitoso, o di una prosperità nella tempesta, nel caso non-marcato di un'evasione benpensante.
Non s'indigni a questo punto il lettore del volgare saccheggio, a scopi mercantili (e qui, parassiticamente, di commento), da uno dei più preziosi tesori dell'ingegno. Non c'è perla di tale ingegno che la stupidità non possa far sua in un attimo. La colpa è sempre dell'ingegno, che si picca di proferire pubblico verbo. Lo fa perché si affida all'idiozia che, evidentemente, lo rode dal di dentro come un tarlo. Concessosi l'ingegno alla sua propria idiozia contrastiva, non c'è da stupirsi se dentro le sue mura, a quel punto inutilmente turrite, cominci inarrestabile a montare l'idiozia del mondo, per il principio dei vasi detti (non a caso) comunicanti.
Ma qui, appunto, di ciò, che importa? Importa invece che il pretesto di quel testo (e del presente), il topico in funzione del quale essi si ordinano, sia appunto quell'auto italiana. Essa è simbolo paradigmatico della commedia dell'apparire sociale, certo, ma anche, in quanto italiana, di dubbia affidabilità e di precario funzionamento meccanico. La temperie (o la tempesta) vuole, poi, che abbia a farsi strada, per opposizione, in un segmento del mercato internazionale saldamente presidiato da auto sportive tedesche. Anche queste convogliano valori di apparenza, naturalmente. Per etica protestante, li scontano tutti, però, col prevalente stigma di una meccanica solidità, della promessa di una persistenza non ultra-umana ma disumana.
Su tale campo, l'auto sportiva italiana non può competere, quanto almeno all'immaginario (per il resto, chi lo sa?). Come pregi, ha però dalla sua i suoi difetti. È transeunte? E non è transeunte il fascino? È effimera? E non è forse tanto più oltracotante quanto più effimera la bellezza?
Come la carne umana, che è apparenza fatta dei sogni di chi l'accarezza, l'auto italiana è destinata velocemente a decadere, a sfasciarsi. Il disumano rigore di un'etica protestante è nitore negli annunci pubblicitari delle auto tedesche concorrenti. Ma quel nitore è agghiacciante. A esso si oppone l'eccitante e incerto chiaroscuro (e più scuro che chiaro) di un'attitudine morale controriformisticamente post-moderna.
Meglio, ci dice quel manifesto, il sangue e la perdizione; meglio il gusto dolciastro o amarognolo di dubbie moralità che si riscattano nella consapevolezza dell'essere sogni, ombre pronte a svanire. Meglio restare, irriverenti ma modesti, nel sacro recinto del limite. Ebbri di piacere per una meccanica, come l'umana, imprecisa e precaria, meglio ascoltare l'ammonimento morale che ne sortisce: un'auto che sia anche un memento mori.
"Senza cuore" - conclude del resto perentorio il manifesto: ed è una macchina che parla - "saremmo solo macchine". Non immortali, come dicono di sé (e sono autentiche venditrici di fumo morale) le auto tedesche. Ancora meno che umani, invece, perché "senza cuore" nel culto della finitura: privi soprattutto del riscatto che assicurano la finitezza e la morte.