"Why only us", promette di spiegare, in materia di lingua e di evoluzione, un libro firmato da Robert C. Berwick e Noam Chomsky, comparso ora è un triennio e prontamente tradotto anche in italiano. Apollonio dirà forse altrove quanto le spiegazioni specifiche l'hanno convinto. Qui gli preme soltanto osservare il 'noi' di quel titolo. Si tratta di un filo capitale per la tessitura del testo nella sua interezza e il rilievo che gli assegna il trovarsi in copertina non è per nulla immeritato né lo è quello che ne fa la parte significativa di un nome proprio, per via della funzione onomastica che un titolo ha rispetto all'opera che designa.
'Noi' si riferisce ovviamente ai due autori, prima persona dell'atto enunciativo, ma non esclusivamente a essi. Si badi bene: in astratto, ciò sarebbe anche possibile. Solo per ragioni contestuali (pragmatiche, dicono i manuali di linguistica), non è questa la lettura che si affaccia immediata nella mente di chi prende in mano il libro per la prima volta e non viene raggiunto o raggiunta dal dubbio che, sulla base di un titolo siffatto, potrebbe trattarsi di un'opera in cui gli autori dicono specificamente di se medesimi.
Chiunque si orienta invece senza incertezze verso un'altra lettura, peraltro felice: in quel 'noi', inclusivo, c'è anche lui o lei, che, rispetto al testo, nell'atto di leggerlo, è seconda persona. E con la sua presenza, quella di tutti e tutte coloro che possono fungere da soggetto di una costruzione copulativa il cui predicato sia un nome positivamente marcato quanto al tratto [± umano] (per adoperare un vieto arnese dell'analisi componenziale del significato lessicale).
Ebbene, ci si faccia caso, l'uso di un 'noi' siffatto è stigma di una letteratura volgarizzatrice di (presunte) verità scientifiche relative all'umanità. Inclusivo e umanitario, 'noi' è la marca non solo di uno stile, ma forse di un vero e proprio genere. Naturalmente, non tutti i libri che aspirano a fare parte del genere in questione portano tale stigma in copertina. Tutti ne sono però intessuti, perché tutti, in fondo, parlano di 'noi'.
L'autentico discorso della scienza tiene il suo oggetto in terza persona o, per dire meglio, seguendo la nota sistemazione che alla persona come funzione della lingua diede Émile Benveniste, lo tiene come "non-persona". Naturalmente, non è solo il discorso della scienza a trattare così il suo oggetto, ma certamente è quello in cui la prospettiva quasi si impone come dirimente criterio metodologico, oltre che come raccomandazione se non d'igiene di pensiero, certo di eleganza. In un'argomentazione che è tanto più credibile, quanto più procede con distacco, ha del resto da prevalere la funzione referenziale (per dirla con Roman Jakobson).
Con il 'noi' inclusivo e umanitario, invece, la volgarizzazione scientifica corrente ha certo per oggetto un po' di non-persona, in stabile emulsione però non solo con la seconda persona, ma anche con la prima. Nel discorso che ne discende, ci sono dunque più delle ineliminabili e, di conseguenza, tollerabili tracce di quelle funzioni emotiva e conativa che ogni testo, per il fatto stesso d'essere stato enunciato, non può non trascinare con sé.
Testualmente, la volgarizzazione scientifica che procede a forza di 'noi' ha insomma qualcosa da spartire tanto con il messaggio pubblicitario (e, in genere, con la parola dell'imbonitore), per via dell'incidenza della funzione conativa, quanto con i diari intimi correntemente esibiti nelle reti sociali, per via dell'incidenza della funzione emotiva.
Sono precisamente i caratteri che la rendono discorsivamente intollerabile ad Apollonio, come, anche senza condividere tale repulsione, i suoi due lettori egli spera comprendano.