In
questa canzonetta di Renato Carosone c'è materiale per più di un'osservazione
linguistica.
Di
una linguistica modesta e da strapazzo, s'intende, che si occupa alla
buona dell'espressione umana com'è, con gli strumenti messi a
disposizione da Saussure e da Jakobson, per esempio. Non di quella
importante e da scienziati che, visto che delle lingue umane ritiene di
sapere tutto, pare sia già passata a trattare di lingue impossibili. O
di quella da seri tecnici e ingegneri che, per considerare le reali,
pretende si vada di corpora giganteschi.
In
funzione poetica, allora, Carosone valorizza l'iterazione, variandola
tanto sull'asse delle combinazioni, quanto su quello delle commutazioni.
Cioè nei rapporti sintagmatici, come in quelli paradigmatici.
L'iterata
variazione o la variata iterazione gli sono consentite dalla
metafonesi. È questo un processo fonetico-fonologico (con eventuale fall out morfosintattico,
com'è qui il caso) da cui è interessato, tra tante altre varietà, il
napoletano, anche quando si fa letterario e canoro.
La
vocale colpita dall'accento, se è media ([o] o [e]), mantiene o muta la
sua altezza in funzione di quella atona della sillaba seguente. E se
questa è alta ([u] o [i]), si innalza.
Nella lingua, cioè nell'umano, il passato è sempre presente nel
presente e bisogna imparare a vederlo (diacronia e sincronia). E dunque,
una volta introdottasi nel sistema, come è avvenuto nell'epoca ormai
remota in cui, anche se atone, le vocali venivano tutte proferite
distintamente, la metafonesi opera anche quando della vocale atona non
rimane ormai che un uniforme vestigio: senza innalzamento, rossə, ma, con innalzamento, russə; senza innalzamento, essə, ma, con innalzamento, issə.
Il
processo ha finito per procurare così forma rigorosa e lampante
manifestazione all'opposizione di genere grammaticale, cruciale alla
confezione della canzonetta e del suo tessuto semanticamente allusivo
(significato e significante), come si vede o, meglio, si sente dalla
voce di Carosone (langue e parole).
In
anticipata e permanente barba, si direbbe da una prospettiva di
politica linguistica, alle fantasiose e transeunti proposte che
vorrebbero si credesse che, a ottundere certe differenze
nell'espressione, basti la mutanda di uno scevà.