26 ottobre 2010

Miliardo

Circa dieci anni fa, nell'espressione pubblica italiana, miliardo quasi sparì dall'uso. Per convenzione sociale, naturalmente. Era l'epoca dell'adesione dell'Italia all'euro. Non è trascorso gran tempo: i due lettori di Apollonio, qui chiamati a testimoni, non possono essersene già scordati. Tutti quelli che fino a pochi giorni prima, in lire, parlavano di miliardi, eccoli lì compunti a computare solo milioni. Per garbo, certo. Non per la ragione che, in euro, non si potesse ancora e sempre arrivare a miliardi. Ma miliardo era, appunto, uscito dall'uso linguistico pubblico costumato. Miliardo c'era sempre ed era concepibile anche in funzione dell'euro, ma non faceva fine dirlo. Si sarebbe data l'impressione che nulla era mutato e non era quella l'impressione che si voleva dare, appunto.
Oggi miliardo è tornato in gran pompa: ne siano di nuovo testimoni gli affezionati lettori. Sono bastati dieci anni e, come moderatore degli usi linguistici, l'euro si è già slabbrato e consunto. Li vedi, adesso, quelli che dicono miliardi, come arrotano le lingue quando calcolano in euro, senza più freni né pudori.
Di economia, Apollonio non capisce un'acca ma teme non si tratti di buon segno. Il ritorno di miliardo nell'espressione pubblica italiana, gli pare, non revoca certo in dubbio che la faccenda dell'euro sia stato un buon affare ma induce ancora di più a chiedersi per chi.

Vuotare il mare dell'espressione

A un'ora e in una luce incerta, sul treno verso un aeroporto. A giro di sguardo, siamo in cinque nella carrozza, tre uomini, due donne. Nessuno giovane, nessuno vecchio. Fradici: fuori piove a dirotto e arrivare in stazione non è stato facile. Accanto al proprio piccolo bagaglio d'ordinanza, ciascuno sta chiuso nel suo cappotto e nei suoi pensieri, che, si vede e quasi si sente, non devono essere lieti. Pensieri che sono ovviamente lingua. Interiore. Ma, per il linguista e per la sua presunta esperienza euristica, cos'avrebbe di meno dell'esteriore l'interiore che ininterrotta fluisce nella carrozza di questo treno come, in questo momento e da tempo immemorabile, ovunque nel mondo ci sia o ci sia stato un essere umano?
Che americanata l'idea (ma tale la si può definire? O fola e imbroglio?) di un'astratta infinitezza, se confrontata col mare reale dell'umana espressione: concreto, finito (come potrebbe essere altrimenti? Umano, s'è detto). E pure, a immaginare di afferrarlo in un pensiero, interminato.
Che insensato e infantile programma ha da millenni chi dice di occuparsi della lingua, se pretende neppure soltanto di capire tale mare ma addirittura di spiegarlo. Se si illude, per far ciò, di riuscire a vuotarlo coi paiolini bucati di un'arcigna dottrina filologica e di un risibile armamentario grammaticale.

20 ottobre 2010

Da Lc. 9, 60

Come i suoi due affezionati lettori sanno, ormai da qualche anno Apollonio ha eletto a dimora, sempre più esclusiva, una Citera interiore ma per nulla solitaria. Tiene lontano da essa, come può ma con cura, il suo povero affaccendarsi medesimo, oltre che l'altrui, la cui eco gli giunge fievole ma non tanto da non rendergli palese che, non solo nella sua disciplina ma nell'insieme di fenomeni sociali e culturali che riguarda la lingua (e l'italiano in particolare), c'è un rinnovato agitarsi.
Accade periodicamente: un tempo l'agitarsi che aveva a pretesto la lingua (e l'italiano in particolare) aveva cadenze che superavano la brevità di una normale vita umana. Nell'epoca presente, quella che gli piace definire modernità putrefatta, succede a ritmi più serrati, tanto che, nell'arco di sua vita fin qui trascorso, Apollonio ha potuto farne più di un'esperienza: sono anche effetti collaterali del prolungarsi (quanto di valore?) di un sempre più largo e generale permanere delle esistenze, tra le quali la sua medesima.
Gente pensosa ha ricominciato ad agitarsi intorno alla lingua, dunque, ed è tutto un fiorire di iniziative, in cui c'è chi dice come, con la lingua, dovrebbe andare e invece, a suo parere, non va; c'è chi va a caccia di cariatidi disciplinari eleggendole a feticci di presunte restaurazioni di antichi valori; c'è chi continua a fare l'insignificante nulla che ha sempre fatto, verniciandolo (con l'aiuto di interessati complici) della qualificazione di nuovo (o novo, come per memoria ascoliana verrebbe fatto di scrivere), certo del potere di ulteriore inebetimento che l'evocazione di tale disgraziato aggettivo ha sempre esercitato sulle menti già sciocche.
Un formicolare che, Apollonio non sa perché, nella sua laica memoria risveglia il ricordo di catechismi infantili, con quella tremenda sentenza, di cui già allora si chiedeva ragione e di cui solo adesso, rovesciandola, ha l'impressione di intuire (ma solo appena) il valore, pacificandosi con il mondo se non con se stesso: "Lascia i morti disseppellire i loro morti".

13 ottobre 2010

À la mode de Bouvard et Pécuchet

Syntaxe: Studia come le parole si combinano fra loro quando si uniscono per produrre testi, orali e scritti. Moyenne, diathèse: Mancante in italiano [...]. Attraverso la forma media è [...] possibile, all'interno della coniugazione verbale, indicare una più intensa partecipazione del soggetto all'azione. Finales, propositions: Indicano con quale fine viene compiuta o verso quale obiettivo tende l'azione espressa nella proposizione reggente.
Il s'agit de quelques passages tirés de grammaires italiennes réputées et très répandues. À l'instar de Gustave Flaubert, on les a simplement mis sous la forme qu'ils auraient en tant qu'entrées exemplaires d'un dictionnaire des idées linguistiques reçues, sans les changer d'une virgule et comme échantillon d'un travail qui mériterait bien d'être mené jusqu'au bout.
Les références ne sont pas importantes, ici. L'une grammaire vaut l'autre et même le choix de l'italien, ce n'est qu'un prétexte. Il n'est pas même dit qu'il soit le prétexte le meilleur. Dans les grammaires, toutefois, l'accent ne tombe pas sur la langue mais sur la métalangue. N'importe quelle langue, même l'italien, si déjà soumise au traitement des grammairiens, et l'italien l'a largement été, est donc appropriée à la besogne. En effet, peut-on imaginer une grammaire d'une langue quelconque où une proposition appelée finale n'indique pas con quale fine viene compiuta o verso quale obiettivo tende l'azione espressa nella proposizione reggente?
D'ailleurs, on n'a pas cité ces exemples typiques d'une prose grammaticale pour les censurer ni pour dire, par rapport à la langue qui leur donne l'occasion d'exister, qu'il s'agit d'affirmations incorrectes ou bien fautives. La grammaire est le missel d'un rite qui se réalise en soi même. Elle n'est pas soumise à la preuve. Sa Stimmung dépasse toute question de correction car, à vrai dire, elle fonde la correction même. Elle est la source de toute pensée grammatically correct.
Vox populi, vox Dei est l'une des deux épigraphes qui introduisent le Dictionnaire des idées reçues et, parmi les voix par lesquelles la civilisation occidentale s'exprime, celles des grammaires et des grammairiens ne manquent pas de "popularité" et, donc, de "divinité". D'où l'hypothèse que, comme on l'a toujours conçue et comme on ne peut que la concevoir, la grammaire n'est à vrai dire qu'un dictionnaire déguisé: un dictionnaire d'idées reçues. L'hypothèse pourrait peut-être contribuer à éclaircir quelques aspects d'un mystère véritable: l'inefficacité de la linguistique. Contre la grammaire, fatras d'indéracinables idées reçues, les efforts de toute intelligence raisonnable sont vains. Deux siècles de linguistique prétendue scientifique le démontrent de manière irréfutable et, d'ailleurs, Ferdinand de Saussure l'avait bien prévu.
À l'Université de Montpellier, début 2011, avec toute la gravité nécessaire, un synédrion de grammairiens francophones va se poser la question "comment peut-on écrire une grammaire?" "Mais à la mode de Bouvard et Pécuchet - c'est la réponse que Apollonio, d'un esprit solidaire et fraternel, veut leur proposer, en tant que modeste suggestion -. Sous des formes toujours variées, ne l'avez-vous pas fait jusqu'à présent? Soyez tranquilles, chers et aimables collègues: vous continuerez à le faire".

10 ottobre 2010

Futuro

Il passato è svanito. Averne consapevolezza è sempre stato faticoso, del resto.
Il presente è disgustoso. Le sue prassi sono certo più facili di quelle imposte dalla consapevolezza del passato. Sono però tutt'altro che esenti da rischi e responsabilità.
Agli uomini pubblici non rimane dunque che il futuro. Parlarne, facendo sembiante di frequentarlo come fosse il cortile di casa, è agevolissimo, non comporta responsabilità di sorta ed è privo di controindicazioni, se non per l'intelligenza propria e di chi ascolta. Ma di quella, com'è noto, e grazie al cielo, non importa niente a nessuno: ciò è garanzia, nei rarissimi attimi in cui balugina, della sua autenticità.
I due lettori di Apollonio l'hanno di certo già notato: futuro è la parola del momento. Il futuro ha insomma un grande presente e, tra le ragioni del suo presente successo, c'è anche, in chi lo nomina (il numero fa ormai legione), il desiderio di obliterare così il ricordo di passati imbarazzanti e neanche troppo remoti.
Ora, le grammatiche scrivono che il futuro è un tempo e i loro propalatori, creduloni, come tale l'impartiscono alle anime innocenti che sono loro affidate, quando ci riescono (ormai sempre più di rado).
Invece, nella lingua, prima di essere un tempo, il futuro è un modo. Se gli capita (come gli capita) di fare il tempo, glielo consente appunto la sua natura di modo.
Così non fosse, non sarebbe possibile allontanarsi dalle frotte di ciarlatani che oggi e sempre abusano di futuro e del futuro con il solo breve commento che, accompagnato da una scrollata di spalle, meritano i loro vuoti discorsi: "Sarà...".