10 ottobre 2010

Futuro

Il passato è svanito. Averne consapevolezza è sempre stato faticoso, del resto.
Il presente è disgustoso. Le sue prassi sono certo più facili di quelle imposte dalla consapevolezza del passato. Sono però tutt'altro che esenti da rischi e responsabilità.
Agli uomini pubblici non rimane dunque che il futuro. Parlarne, facendo sembiante di frequentarlo come fosse il cortile di casa, è agevolissimo, non comporta responsabilità di sorta ed è privo di controindicazioni, se non per l'intelligenza propria e di chi ascolta. Ma di quella, com'è noto, e grazie al cielo, non importa niente a nessuno: ciò è garanzia, nei rarissimi attimi in cui balugina, della sua autenticità.
I due lettori di Apollonio l'hanno di certo già notato: futuro è la parola del momento. Il futuro ha insomma un grande presente e, tra le ragioni del suo presente successo, c'è anche, in chi lo nomina (il numero fa ormai legione), il desiderio di obliterare così il ricordo di passati imbarazzanti e neanche troppo remoti.
Ora, le grammatiche scrivono che il futuro è un tempo e i loro propalatori, creduloni, come tale l'impartiscono alle anime innocenti che sono loro affidate, quando ci riescono (ormai sempre più di rado).
Invece, nella lingua, prima di essere un tempo, il futuro è un modo. Se gli capita (come gli capita) di fare il tempo, glielo consente appunto la sua natura di modo.
Così non fosse, non sarebbe possibile allontanarsi dalle frotte di ciarlatani che oggi e sempre abusano di futuro e del futuro con il solo breve commento che, accompagnato da una scrollata di spalle, meritano i loro vuoti discorsi: "Sarà...".

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