Delle norme che regolano socialmente i rapporti privati tra persone si fa tanto pubblica questione, di questi tempi, e Apollonio si dice felice delle evoluzioni che, in molti luoghi, le riguardano.
Non può tuttavia fare a meno di pensare che se l'estensione della portata di una norma è un modo per fare eguali le persone, un modo altrettanto, se non più efficace è la sua abolizione, per tutti.
Poi si riscuote e sorride della sua sciocca inclinazione all'utopia, ancora e inguaribilmente adolescenziale, che stride inoltre con la piatta banalità, venata di buffe velleità, della sua attuale permanenza in vita, in un'età abusiva e che non autorizzerebbe i sogni.
Ma la voce interiore non tace e, con essa, ritorna l'idea che sarebbe bello un mondo in cui si fosse disposti, perché maturi, ad aderire spiritualmente, e senza privilegi per nessuno, all'intero spettro della diversità e non si dovesse fare ipocritamente i buoni, canonizzandone secondo gli andazzi qualche porzione.
Lo sa, però: quel mondo non è questo. Questo, fin qui, non ce l'ha fatta e, date le consolidate premesse, certamente non ce la può fare. E capita pure che sia meglio così. Meglio? Non gli chiedano di giurarci, i suoi due lettori.