"Un genio assoluto", "un capolavoro assoluto", oltre che, naturalmente, "un campione assoluto", "una meraviglia assoluta" o, d'altro lato, "uno schifo assoluto", "un'infamia assoluta", fino a giungere all'ormai spesso menzionato "male assoluto", cui tuttavia manca nella chiacchiera corrente (a qualsiasi livello tale chiacchiera si agiti) il contraltare del "bene assoluto". La rara evocazione di quest'ultimo resta fin qui riservata a chierici autorizzati e anche questa asimmetria dirà qualcosa dello stato presente del mondo, che, di assoluto, percepisce appunto solo il male.
I due lettori di Apollonio non possono non avere già fatto caso, e da tempo, a un uso siffatto di assoluto: ridicolo, peraltro, nei casi in cui è riferito a cose e a persone, a relativizzare le quali le misure esistono e, tra le misure, bastano le modeste. Ogni epoca ha gli assoluti che crede tali, è il facile commento, e ciò che crede assoluto dice del metro di giudizio di cui dispone. Il sorriso non esime tuttavia da qualche riflessione.
Il dilagare di assoluto è in effetti una delle molte manifestazioni dell'enfasi esibita oggi dalla comunicazione e dall'espressione (non solo dalle pubbliche, ovviamente, ammesso che una distinzione dalle private abbia ancora senso). A sua volta l'enfasi non è che un sintomo, di nuovo tra i molti, del carattere totalitario che, nella vicenda storica della civiltà globale, comunicazione ed espressione hanno preso ormai da un secolo.
La prassi linguistica totalitaria fu sperimentata in forme tutto sommato grossolane (anche se efficienti) dai regimi politici qualificabili al modo medesimo, nel cuore del Novecento. Fu teorizzata frattanto, nelle sue direttive di massima, dai suoi ben armati propugnatori. Fu contemporaneamente stigmatizzata da qualche critico disarmato, per venire infine universalmente adottata, in maniere sofisticate ma sempre riconoscibili, dal discorso pubblico, al di là delle superficiali differenze ideologiche, peraltro progressivamente dileguatesi, come si sa.
Da lì, la prassi linguistica totalitaria è percolata dappertutto e non c'è angolo dell'espressione e della comunicazione d'oggidì che non ne sia affetto. Pubblicizzando il privato (e privatizzando il pubblico), le reti sociali hanno agito in proposito come potenti vettori epidemici. Tutto ciò che oggi vien detto (si trattasse anche dell'affermazione che tutto è relativo) è detto in modo da poter essere accompagnato dalla qualificazione di assoluto: 'libero da ogni limite; non determinato da rapporti, da relazioni; incondizionato'.
Un dì ormai molto lontano, non sarebbe forse stato il caso di aggiungere che, fuori della vacua questione dell'assolutezza ontologica del relativo o dell'assoluto, questione che abbaglia da sempre la scarsa intelligenza umana, almeno come metodo e appunto per sopperire, nei limiti del possibile, alla propria scarsità, quella intelligenza s'era indirizzata a considerare i rapporti, le relazioni d'ogni cosa cadesse nel campo della sua limitata esperienza. E ciò non solo nella prospettiva teoretica, ma, con modestia ancora maggiore e correlato maggiore pericolo, anche in quella etica, dove fu viva la pratica di una critica e di una lotta a ogni assolutismo (primo fra tutti, il politico).
Oggi, l'assolutismo è di massa. Per amore di paradosso e per giocare a contraddirsi, lo si direbbe assoluto. Assoluta pare inoltre l'ansiosa attesa di una sua affermazione, manifestata e ribadita, come si diceva, sotto il segno di qualsivoglia ideologia e di qualsivoglia inclinazione morale, dai mille e mille assoluto che, come continui oltraggi all'atteggiamento critico del pensiero e delle correlate prassi, capita di leggere e di ascoltare.
Questo frustolo non ha ovviamente provato a farne una confutazione: confutare l'assoluto, con chi lo predica, più che impossibile, è inutile. Li ha messi in relazione, nel tentativo di comprenderli, con le attitudini di una fase storica e culturale che, come un giorno è cominciata, un giorno finirà, andando eventualmente verso il peggio. E ciò piaccia o non piaccia ai cultori dell'assoluto: totalitari senza nemmeno saperlo, che non è un modo assoluto di esserlo e, ragionevolmente, nemmeno dei migliori.