"Alle Sprachformen sind Symbole, nicht die Dinge selbst, nicht verabredete Zeichen, sondern Laute, welche mit den Dingen und Begriffen, die sie darstellen, durch den Geist, in dem sie entstanden sind und immerfort entstehen, sich in wirklichem, wenn man es so nennen will, mystischem Zusammenhang befinden" [più o meno: "
Tutte le forme linguistiche sono simboli, non le cose in se stesse, non segni convenzionali, ma voci che, per lo spirito in cui sono nate e continuano a sorgere, si trovano in reale, se così si vuole dire, mistico collegamento con le cose e con i concetti che rappresentano"]: sono parole di Wilhelm von Humboldt. Con altre di altri autori, fungono da "Motto" in
Die Sprache di Karl Kraus, dove Apollonio le incrocia.
Alla disincantata, a tratti feroce razionalità con cui Ferdinand de Saussure guardò la lingua è naturale pensare che, così come esse paiono, sarebbero suonate urticanti. E che in effetti siano suonate tali, se a esse è mai accaduto di finire sotto gli occhi del ginevrino (non per la mediazione del poligrafo viennese, com'è ovvio anche per ragioni cronologiche).
Humboldt era morto da quasi venticinque anni, quando Saussure veniva al mondo. Ed era inoltre nato in tempo per respirare tanto i promettenti zefiri quanto i devastanti venti di tempesta che, con l'intermezzo di qualche intempestiva bonaccia, spirarono in Europa negli ultimi decenni del Settecento e nei primi dell'Ottocento.
Saussure visse invece proprio i decenni che valsero al diciannovesimo secolo la qualificazione di "siècle bête" (chi la propose non sapeva cosa avrebbe riservato il futuro, quanto a bêtise...) e morì giusto in tempo per non vedere il primo baldanzoso atto autolesionista con cui l'Europa cominciò l'espiazione materiale e morale (non ancora giunta a termine, come si sa) dei suoi tre precedenti secoli di avida e sanguinaria rapina globale.
In altre parole, per esercizio di intelligenza, Humboldt aveva pensieri, speranze (e forse illusioni) che, a meno di non essere idiota, Saussure non poteva nutrire e che, andando di poco avanti nel corso del Novecento, Kraus, sempre per esercizio di intelligenza, sentì come ragioni di paradossale disperazione.
D'altra parte e restando strettamente alla lingua, i piani di scorrimento dei discorsi del tedesco e dello svizzero erano differenti. Non necessariamente complementari, si badi bene: qui non si professa l'irenismo in nessuna delle sue forme, come i due lettori di Apollonio sanno bene, e si detestano le notti in cui tutte le vacche paiono nere.
Intendere però profondamente la differenza, tanto la storica, quanto la concettuale, aiuta a non correre verso la facile conclusione che un'espressione come quella appena riferita di Humboldt sia inconciliabile e incompatibile con la piana osservazione dell'"arbitraire du signe". Aiuta anche a ricordare che l'"arbitraire du signe" non riguarda per nulla gli aspetti simbolici, culturali, storici dell'espressione linguistica umana e che, se così viene talvolta inteso, e perché, in una notte in cui appunto tutte le vacche sono nere, esso viene ridotto a rappresentare una posizione di un vieto e inconcludente dibattito.