"I ricci hanno periodi gestazionali che vanno da 35 a 58 giorni, a seconda della specie, e in genere hanno da 3 a 6 bambini, chiamati maialini. Questa mamma riccio cammina abbastanza lentamente per assicurarsi che i suoi 7 maialini siano in grado di stare al passo con lei": queste parole accompagnano un breve video, diffuso in una rete sociale.
Non si tratta certamente di sede nella quale si chiede alla lingua d'essere accurata, ma proprio per questa ragione e per la sua cruda spontaneità quel testo ha scosso il torpido Apollonio.
Esso testimonia infatti come, nell'italiano di tutti i giorni, bambino ("L'essere umano nell'età compresa tra la nascita e la fanciullezza", scrivono ancora attardati dizionari) si avvii a diventare un iperonimo. Come tale, atto a valere per i piccoli, se non di tutte, di numerose specie, sussumendone le diverse designazioni: maialino ne sarebbe appunto un iponimo. Altri sarebbero puledro, per esempio, agnello o vitello. Forse, è ancora da escludere pulcino, per l'ostacolo concettuale del diverso modo di sviluppo dell'embrione.
Si tratta di indizio della sempre più estesa affermazione del post-umano o forse dell'ultra-umano, nella ideologia della modernità putrefatta? Difficile dirlo.
Mentre la corrente trascina furiosamente gli esseri che si esprimono e vivono nelle culture (che non vuol dire soltanto essere capaci di contare o di fare quanto dispone alla sopravvivenza e, eventualmente, all'ammaestramento) e li confonde appunto con i suoi vortici culturali, vale solo la pena di osservare che smettere di (essere capaci di) distinguere raramente è segnale di un innalzamento del sapere.
Una multinazionale americana produttrice, sotto marche diverse, di beni di largo consumo intende promuovere sul mercato nazionale la sua linea di detersivi per lavastoviglie. Si rivolge a un'agenzia di comunicazione. Questa si procura opportune indagini di mercato. Grazie a esse, i pubblicitari sanno che aria tira in proposito. Sanno cosa lamentano dei prodotti disponibili e che prestazioni amerebbero ottenerne quelle che un dì sarebbero state qualificate come massaie (in pubblicità, ma non solo, denominazione passata tra i più rigorosi tabù). L'agenzia propone contenuti e forme della campagna e l'impresa committente li trova di suo gradimento.
Parte la campagna. Gioca per l'ennesima volta sul
luogo comune del cambiamento e della rivoluzione, scegliendo un'adeguata testimonial (non è ineccepibile dire così, ma così si è preso a dire in italiano e la lingua la fa l'uso), in riferimento al gruppo di consumatori e di consumatrici (nel caso specifico, più consumatrici che consumatori, appunto) cui il prodotto si destina e il messaggio si rivolge: il target.
È una campagna pubblicitaria. Si può discutere se sia ben fatta o no, come campagna pubblicitaria. Ma si sa, convenzionalmente, che le affermazioni della campagna sul prodotto sono esagerate, iperboliche, che si rivolgono a tutto tranne che alla ragionevolezza del target. All'immaginazione, semmai, alle pulsioni, ai desideri espressi o repressi. Insomma, è ovvio che solo uno sciocco prenderà sul serio tali affermazioni.
È perlomeno un secolo che la réclame funge da espressione e, complessivamente, da indirizzo delle società di massa. E si sa che è "scumazza", come si direbbe alla Camilleri (anche qui, così si usa, per farsi intendere). I suoi contenuti sono ineluttabilmente ciarlataneschi. La voce che li declama necessariamente da imbonitore o da imbonitrice.
Mutatis mutandis, una casa editrice nazionale, dal nome e dal passato prestigiosi, tradizionale produttrice di opere lessicografiche, intende promuovere nella nicchia del suo piccolo mercato la nuova edizione di un dizionario. Non si sa se si rivolge a un'agenzia di comunicazione. Ragionevolmente sì: ormai non c'è impresa che non lo faccia. Ma si ponga che non lo faccia e che la fucina in proposito sia interna all'azienda. Per capire che aria tira intorno alla lingua, alle parole, da qualche tempo, non c'è bisogno di un fiuto raffinato né di grandi indagini e con la casa editrice collabora da anni gente che, in proposito, ha fomentato e cavalcato gli andazzi. I temi linguistici che tirano non hanno bisogno nemmeno d'essere elencati.
Di quello che tira più di tutti, la faccenda dell'espressione del genere grammaticale, si fa fatica persino a immaginare ci sia ancora qualcosa di sensato o di nuovo da dire. E infatti gli e le snob che sul principio ne avevano fatto bandiera, da un po' si sono opportunamente defilati e defilate. Stanno cercando altri temi per brillare in società. Resta in campo, vociante, gente più alla buona, ma non con minori pretese. Del resto, lampante nella manifestazione di tale tema c'è tanta ideologia spicciola: ideologia del cambiamento, di un cambiamento che si invoca come radicale.
Di nuovo, non è questione di sapere quanto siano ragionevoli le correlate istanze (probabilmente lo sono), quanto, in funzione della lingua, siano effettive e sensate le proposte, le aspirazioni, le voglie, le pulsioni (probabilmente non lo sono).
È il dato sociale ad avere rilievo, non ciò che esso contiene o ingenuamente ci si illude (o, ancora più ingenuamente, si teme) contenga. Ed è rilevante il segmento della società che sostanzia il dato sociale, per chi opera sul mercato e vuole naturalmente piazzare un prodotto coerente con l'aria che tira intorno alla lingua e alle parole.
Ebbene, in vista dell'uscita del prodotto in questione, parte una campagna di promozione sulle piattaforme e nei luoghi che si pensa siano i più adeguati a raggiungere un target peraltro dalla facile caratterizzazione: sesso, età, classe sociale, grado di istruzione, professione.
Per rendere commercialmente attraente il prodotto, la campagna chiama in causa il consueto luogo comune della rivoluzione e proclama l'opera rivoluzionaria. Proprio come fa la campagna della multinazionale americana di prodotti di largo consumo con il suo detersivo per lavastoviglie.
"È in arrivo la rivoluzionaria nuova edizione del Vocabolario...", "...un progetto ambizioso e rivoluzionario nella storia plurisecolare della lessicografia..." si
legge un po' dappertutto in questi giorni sulla stampa e in rete. Sono evidenti riflessi di un comunicato aziendale sotto forma di velina promozionale.
Anche di questa campagna, si può discutere se, come tale, sia ben fatta o no. Di essa, dopo qualche tempo, la ditta committente, se committenza c'è stata, capirà se sarà stata efficace o no, al di là del momentaneo spazio conquistato nel corrivo e sempre mutevole panorama della comunicazione. Saprà se, rispetto all'agguerrita concorrenza, che certamente reagirà alla mossa sbardellata, essa avrà inciso sensibilmente sulle vendite o no. Tutta materia, come si vede, della massima serietà.
Non sono seri, ovviamente, i contenuti della campagna: millanterie, fanfaronate, specchietti per le allodole destinati a chi mostra già una buona disposizione a specchiarvisi. Ma c'è chi fa sembiante di prenderli sul serio e, con piglio accademico, si affatica a ribadire al colto pubblico e all'inclita compagnia l'ovvietà della loro inconsistenza.
Apollonio è però certo che si tratti solo di un'utile posa. Il tema è caldo, come si diceva, e con la sua fonte la campagna commerciale lo rinfocola autorevolmente: ottima occasione per ottenerne un vantaggio. Con la "scumazza" di un pubblico contrasto, come si fa andando di bolina, una pur modesta réclame saprofitica, gratuita e di rimbalzo.
Il tormento procurato dagli altri lenisce e perfino annulla quello che ci si procurerebbe da sé, dicono. Ma l'uno è certo, in ogni condizione, l'altro solo eventuale, se ci si disciplina in un eroico eremitaggio. La pelosa consolazione è pertanto truffaldina, se se ne è destinatari. O è la maschera di una morbosa e comune debolezza, se enunciata allo specchio della propria fragile coscienza.