Si arriva pian piano, in sala, a capire perché suoni io Capitano il titolo del più recente film di Matteo Garrone: un bel film.
Pian piano e solo in conclusione si giunge a intenderne l'appropriatezza come chiave di lettura della pellicola. Un titolo ben fatto serve anche a questo e io Capitano è un buon titolo. Per argomentarlo, conviene però procedere con ordine.
La pellicola mette sullo schermo le avventure per niente spassose di Seydou, come protagonista, e di suo cugino Moussa, come spalla. Sono due teen-agers wolof, per lingua e cultura, e senegalesi, per nazionalità, quindi anche francofoni per via di colonizzazione.
Seydou e Moussa decidono di mettersi in viaggio verso l'Europa. Al loro progetto si oppone, ragionevole e sentimentale, la madre di Seydou: la terra è madre; la madre è l'Africa. Una madre che balla ancora bene ai forsennati ritmi di una festa, ammette il figlio, mentre le svela il suo progetto, prendendosene inutili e patetici rimbrotti: partire non è un po' morire, è morire tout court e, nel caso specifico, spesso non per figura, gli dice la donna.
Spinge però i ragazzi a partire un sogno altrettanto sentimentale e appunto, per opposizione, irragionevole. Senza gli esiti della propria irragionevolezza, un essere umano avrebbe poco da narrare. L'Africa alberga poi tanti ragazzi. Addirittura ragazzi che coltivano sogni. Il sogno di Moussa e di Seydou è in realtà poca cosa e, come è regola nella liquidità globale, sta per intero nel regno dell'apparire. Saranno i bianchi a fermarli per strada, un giorno e in Europa, si dicono irragionevolmente i due adolescenti, per averne un autografo. Perché?
Nella povera condizione in cui vivono, compongono ingenue canzonette, sui ritmi e nei modi che detta la loro cultura. Sopra tale friabile sostegno, sognano i fasti della notorietà che giungono loro tramite uno smartphone, che parla le tante lingue del successo canterino, tra le quali non manca l'italiano.
Il sogno non è tuttavia privo di suggestioni: i modi e i ritmi delle composizioni di Seydou e Moussa, insieme con quelli di altre culture africane hanno infatti profondamente intriso, come si sa, la musica commerciale prima occidentale, poi globale. E, sia detto a margine, chissà se, quando canticchiano sotto la doccia o si agitano in discoteca, i tanti e le tante che oggi temono invasioni e spregiano gli ibridi sono consapevoli di essere già, loro medesimi e medesime, in un avanzato stato di ibridazione. Tale che si potrebbe persino adattare al caso curioso odierno, a mo' di rivelatore paradosso, l'un dì famosa sentenza di Orazio. Perlomeno quanto all'espressione musicale (e non è poco), Africa capta, ferum victorem cepit (e mai attributo fu più appropriato, se per ferum si intende, come si può, 'brutale'. 'feroce').
I due ragazzi partono, dunque, e si avviano verso una realtà che, intervenendo spietata, ha i caratteri di un autentico inferno. Il cinema ha però la diabolica capacità di riscattare l'inferno con la bellezza delle immagini. E c'è appunto chi, preso dalla mera indignazione morale che la vicenda narrata suscita nei e nelle superficiali, ha visto in ciò un tratto di condannabile estetismo cinematografico. Di bellezza tuttavia non ce ne sarà mai troppa.
io Capitano non indugia mai d'altra parte sulla violenza, come realisticamente avrebbe potuto, e non toglie ai cattivi, che nel film non mancano, l'impronta di una piena appartenenza al genere umano: spregevoli, si badi bene, ma esseri umani, al pari delle vittime. Tutti terrestri. E tutti sporchi, impastati di quella polvere, di quel fango, di quella sabbia, di quell'ocra e di quel giallo che, a partire dalle prime scene, sono il tratto formale del film, quanto a colore.
Non del film per intero, tuttavia. Ocra e giallo scompaiono appunto nell'ultimo quarto d'ora, per lasciare lo schermo al blu del mare. Lampante marca formale di una letterale catastrofe narrativa, del capovolgimento che porta il dramma verso il suo scioglimento, consumato sull'acqua e verso il cielo, con la terra a fare da semplice sfondo, ma come un'ombra: l'ombra di un sogno.
La pellicola ha poi un paio di parentesi fantastiche. Rimarchevoli. Potrebbero parere esornative o concessioni all'inclinazione fiabesca dell'ispirazione del regista. In altri suoi film, questa ha preso il sopravvento (a parere di Apollonio, con esiti discutibili). Qui sono invece finestre aperte sul sistema soggiacente del tessuto narrativo.
Con le loro aperture, è la prospettiva interiore di Seydou a venire in primo piano. La fantasia gli consente di risolvere un conflitto lacerante: si trova costretto ad abbandonare, destinata a morte certa, un'anziana donna implorante che la marcia nel deserto ha fiaccato (la madre? Certo, per figura: da portare con sé come uno spirito privo di peso e volante). Ed è il sogno a permettergli di riemergere dall'esperienza delle torture subite per avere rifiutato di sottoporre sua madre e la sua famiglia al ricatto dei carcerieri. Non una telefonata con la richiesta di un riscatto, ma un angelo che vola a rassicurare nel reciproco sogno la donna, sorridente nel sonno. L'angelo porta con sé Seydou, dietro sua richiesta, ma il privilegio non giunge fino a concedergli di essere visto dalla madre o di parlarle, nell'occasione.
Ecco appunto. Ci si siede in sala e, sulle prime ma per lunga pezza, ci si figura di essere esposti a una narrazione in terza persona: Garrone che narra di Seydou e Moussa. Pian piano, ci si accorge però che la ratio del film è diversa. In realtà, regista e sceneggiatori si sono fatti mediatori artistici di un racconto in prima persona: Garrone ha fatto un film delle esperienze e delle relative parole di Seydou. Ciò cui si assiste, in rielaborazione cinematografica, non è il resoconto del viaggio di Seydou procurato da un osservatore esterno, ma il racconto che Seydou fa della sua avventura, materiale e morale.
Quando si giunge a questa conclusione, diventa immediatamente chiaro che io Capitano ha l'impianto del romanzo picaresco: Seydou è il picaro nella temperie della modernità putrefatta. E, una volta che lo si è inteso, non si vuole dire tutti, ma molti pezzi del composto narrativo e cinematografico vanno al loro posto. Fanno sistema.
Prende anzitutto un valore specifico l'età del protagonista, un adolescente orfano del padre. Prende valore la presenza del cugino e compagno, perso nelle peripezie e finalmente ritrovato: un topos. Ha ragione l'insistenza nell'incipit e nel séguito sulla sprovveduta ingenuità di Seydou, via via sanata da una silenziosa e tutta interiore crescita di consapevolezza, nel contatto con un mondo feroce, violento e beffardo: c'è infatti chi ha parlato, in proposito, del modello del romanzo di formazione.
Ma acquista un grande rilievo compositivo la leggerezza con cui il viaggio viene presentato, anche nei suoi momenti più crudi e violenti, da chi lo narra sapendo appunto di avercela fatta. E leggera, fin dalle sue origini, fu appunto la letteratura picaresca.
Non si trascuri, in proposito, la presenza salvifica, quando la pellicola volge verso la conclusione, di una figura che, per il protagonista, surroga la paterna. Essa svanisce nel momento in cui il picaro si prepara ad affrontare la sua prova decisiva. Prova, si badi bene, che Seydou non vorrebbe affrontare: vi si trova infine costretto. Gliela impone infatti un'ennesima e interessata angheria, cui deve piegarsi per salvare Moussa: gli toccherà farsi pilota della barca con la quale proverà a raggiungere la Sicilia, conducendovi una folla di disperati e disperate. E dunque non dal bene né dal male Seydou esce infine forte e consapevole, ma da un inestricabile miscuglio di bene e di male. È ciò che porta Seydou alla rivendicazione finale di un'espressione in prima persona, al suggello della pellicola che, facendo anche da titolo, ne sanziona circolarmente la natura davanti allo spettatore.
In faccia all'elicottero della Guardia costiera italiana finalmente giunto a intercettare i clandestini, "Io capitano, io capitano... tutti salvi... nessuno è morto" urla il picaro Seydou dalla torretta dello sgangherato natante con il quale, sedicenne che non sa nemmeno nuotare, quindi per mera fortuna, ha condotto attraverso il Canale di Sicilia quella ciurma di esseri umani: ciurma dolente, irrequieta e, soprattutto, fertile.
Con la finale ingenuità della verità, il picaro Seydou confessa e rivendica insomma d'essere lui lo "scafista". Così oggi usa dire appunto gente che, beata lei, ha sempre chiaro davanti a sé il confine tra buoni e cattivi e non immagina che uno scafista possa non solo sentirsi Capitano ma essere anche "timorato", come del resto, per dirla finalmente con Jean-Paul Sartre, una sgualdrina può essere "respectueuse".