Parthenope è una pellicola allegorica e, nelle intenzioni, dissacrante. Il tessuto del suo enunciato narrativo è fatto dall'intreccio di questi due fili. Ne è fatta, soprattutto, la sua enunciazione, che si atteggia appunto ad allegorica e dissacrante, proprio come si atteggia a sentenziosa (sopra questo terzo carattere, tuttavia, si verrà in fondo). Da parte del regista, un modo un po' artificioso per segnalare l'opera come "film d'autore", dotandola d'altra parte di una singolare sorta di sigillo.
A quasi tutti i personaggi di rilievo capita in effetti di accendere e di fumare una sigaretta. Enfaticamente. Il film ricorre spesso a primi e primissimi piani. La trovata procura a essi movimento e prospettiva narrativa, oltre a dare, secondo i casi, un tono meditativo, problematico o fascinoso alla figura. Sphragìs del fumatore Sorrentino o timore che gli interpreti, privi del supporto, non sarebbero stati in grado di reggere significativamente simili iterate inquadrature?
Comunque sia, sotto il segno dell'allegoria, il film invita a chiedersi a più riprese cosa ci sia "sotto 'l velame" di figure, parole e immagini, non solo quando paiono strane o quando si può supporre il gioco valga la candela, perché le risposte sono difficili o arcane. In effetti, di norma non sono tali: si tratta di figure di facile lettura.
Sotto il segno della dissacrazione, il film vuole congiuntamente épater il prototipico bourgeois in cui, proprio in quanto tale, vive e prospera un luogo comune gigantesco e proteiforme: Napoli. Napoli preme molto a Sorrentino. Meglio: proprio in quanto cliché, Napoli preme molto sopra Sorrentino artista (forse anche sopra Sorrentino persona, ma qui non si pratica il metodo di Sainte-Beuve).
Il cliché nel suo complesso e alcuni degli innumerevoli stereotipi correlati sono pertanto quanto Parthenope prova idealmente a demistificare con le sue trasparenti allegorie. Prova a farlo per via di paradosso. Si serve infatti delle veneri della cinematografia: luci, colori, inquadrature... Del loro insieme, funge da sineddoche la grazia di Celeste Dalla Porta, nel ruolo della protagonista; una grazia messa in scena come mirabilmente quotidiana, un fascino al tempo stesso quieto e inquietante.
Parthenope non è così il consueto film su Napoli e un'osservazione linguistica lo dice immediatamente. Vi compaiono personaggi che, esprimendosi, si qualificano ovviamente come partenopei. Non così però Parthenope. Sulle labbra di una figura con quel nome, nata nelle acque del Golfo e cresciuta in una casa sulle sue rive non si ode una parlata napoletana.
Che Parthenope non si esprima in dialetto è ovvio: il plot la colloca in un ambiente borghese. La sua la parola non prende però nemmeno l'inflessione che rende sempre ben riconoscibilmente partenopeo l'italiano del luogo, a prescindere dall'estrazione sociale di chi s'esprime. È questo, per esempio, il caso di Sorrentino medesimo. Appena apre bocca, nessuno lo direbbe veneziano o livornese. E c'è film cui Napoli faccia da tema (o anche solo da sfondo) in cui l'espressione locale - vero e proprio luogo comune - non abbia una funzione caratterizzante? La presa di distanza, se si vuole, comincia da lì: un'allegoria partenopea priva, nel suo asse principale, di accento partenopeo.
A volere essere spassosamente pignoli, c'è in limine un dettaglio grafico minuscolo a fare da spia di un'intenzione artistica siffatta: l'acca al centro del nome dell'eroina eponima. Un ricercato ammicco cólto e etimologico? Forse, ma una contrapposizione alla secolare tradizione grafica nazionale che ne fa appunto a meno.
Partenope, senza acca, è il luogo comune e, nella cinematografia nazionale, conta centinaia di evocazioni e di tematizzazioni. Esemplare quella di
Carosello napoletano, film di Ettore Giannini consacrato appunto alla Napoli partenopea convenzionale. E consacrato tanto mirabilmente da essere premiato a Cannes, si pensi, giusto settanta anni fa. Era il secondo Dopoguerra. Nella stessa sede, nella scorsa primavera, l'onore non è stato invece tributato alla pellicola di Sorrentino, che tuttavia vi ambiva.
Mutatis mutandis (come è appena il caso di dire, visto quanto sono mutati i tempi da allora), Parthenope è in effetti un nuovo carosello napoletano straniato e post-moderno. L'acca che fa in due pezzi il nome ne è un segnale. Ma, in funzione della solidità del luogo comune, finalmente senza conseguenze di rilievo: come appunto l'acca, quanto alla pronuncia del nome, resta un ammicco.
Si rischia d'essere corrivi elencando o, ancor peggio, illustrando nei particolari i cliché partenopei presi di mira dalla pellicola. Alcuni sono anche troppo espliciti. La capigliatura rosso fuoco della grande e stagionata attrice di nome Greta Cool non necessita di chiose, per esempio. E, a dirla tutta, a orecchie e occhi bigotti proclamare posticcia tale capigliatura, come finalmente la persona che la indossa e che scarica il suo ben giustificato livore sopra Napoli e i Napoletani, può suonare e apparire blasfemo ben più della plateale profanazione del sacro cui Parthenope volentieri si presta con il cardinal Tesorone.
Chi assiste al film riconosce insomma i bersagli dell'ottica caustica di Sorrentino e, caso mai ne avesse mancato qualcuno, come ne ha certamente mancati lo spettatore pagante, non avrà perso il palese valore intenzionalmente dissacratorio dell'insieme.
In funzione delle belle immagini (cui si è già alluso), sfugge tuttavia all'ottica caustica un grande luogo comune partenopeo, certo perché correlato con la figura di Parthenope come mitologica sirena: il mare del Golfo di Napoli.
Cardine visivo intorno al quale ruota in effetti la narrazione, a esso il regista riserva, per immagini, un'attitudine comparabile con quella espressa dalla prima strofa di Torna a Surriento (e come si fa a non commentare in proposito con un nomen omen?): "Vide o mare quant'è bello, | spira tanto sentimento, | comme tu a chi tiene a mente, | ca scetato o faie sunnà."
Ecco appunto. Al pari del fluido gelatinoso di una celeberrima pellicola americana degli anni Cinquanta, un luogo comune, se è veramente tale, finisce tuttavia per inglobare e digerire chiunque gli si accosti e, anche se armato delle più acuminate e sottili intenzioni critiche, manifesta in realtà con l'atto (sconsiderato) il desiderio di perdervisi.
Questo è ragionevolmente anche il caso del finalmente desiderante Sorrentino, che con Parthenope ha inteso sfidare il cliché tentacolare di Napoli. E, d'altra parte, dopo avere visto il film, si sfida chiunque a dire che, per lui, come, si può affermare, per l'universo mondo, Napoli non sia e resti appunto un luogo comune appiccicaticcio e gelatinoso. E flaccido e debordante, come si presenta infine il gigantesco e celato pargolo, "fatto di acqua e di sale", del professor Devoto Marotta, interprete Silvio Orlando.
Davanti al domestico monstrum il padre, fuori di casa pungente e disincantato, cede anche lui a un'elegia dolciastra e instupidente e si assopisce innocuo e rassegnato. Il cliché partenopeo e i suoi corollari sono così quanto una pellicola dall'intento dissacratorio finisce paradossalmente per confermare, con le sue allegorie.
S'era alluso in apertura al tratto sentenzioso di un film che, si ricordi, non è stato solo diretto, ma anche ideato e scritto da Sorrentino. Sulle labbra dei personaggi spesseggiano in effetti le sortite apodittiche. Lo sceneggiatore si può dire sermoneggi dietro le maschere della protagonista, di Achille Lauro, di John Cheever, di Flora Malva, di Greta Cool, del cardinal Tesorone e di altri e altre.
Conta due ricorrenze topiche però "All'università si viene [cioè: ci si reca] cacati e pisciati". Il motto perentorio del professor Marotta ricorre nella prima parte, proferito a Napoli in un aula universitaria in cui si stanno svolgendo gli esami di Antropologia. Come citazione indiretta, quando il film si avvia al termine, ricorre una seconda volta sulle labbra di un'allieva trentina di Parthenope che l'ha appreso da lei, frattanto diventata un'anziana professoressa sulla soglia della pensione.
Anche per tale ragione il motto finirà probabilmente per fare da sigillo mnemonico della pellicola. Non potrà certamente insidiargli il ruolo quel "Dio non ama il mare" proferito ex abrupto da una voce anonima sullo scorrere dei titoli di coda: estremo commento ultra-diegetico da parte di un autore in sospetto, a quel punto, di incontinenza, perché incapace di lasciare andare chi esce dalla sala senza lanciargli un ultimo segnale, superfluamente enigmatico.
Così Parthenope sarà forse il film di "All'università, si viene cacati e pisciati". Più di un frutto dell'invenzione di Sorrentino, l'icastica sentenza pare tratta dal deposito immateriale dei memorabilia della vita universitaria anteriore al Sessantotto, ormai da gran tempo leggendaria.
Così fosse, si osservi, non sarebbe la prima volta per un film di un regista napoletano. Or sono più di trenta anni, pescata probabilmente dalla medesima fonte, "Non si avvicini, non mi contamini con la sua ignoranza" ebbe lo stesso ruolo in Morte di un matematico napoletano di Mario Martone.
Né Martone, del 1959, né Sorrentino, del 1970, hanno ovviamente avuto esperienza diretta di quel mondo perduto. L'ambiente accademico partenopeo pare dunque custodisca e tramandi ancora memorie di detti celebri e ormai, ovviamente, socialmente e antropologicamente improponibili. La condizione raccomandata da Sorrentino, per interposto Marotta, non vige più da gran tempo tra i discenti né, a dire il vero, tra i docenti. E, per la persistente pandemia, il cave riesumato da Martone non avrebbe più ragione d'essere proferito. Ma nella scelta differente, pare a chi scrive si colga il quid delle attitudini umane, finalmente opposte, dei due registi. E soltanto quella di Sorrentino, con la sua ironia, ispira simpatia.