30 novembre 2024

Lingua loro (50): "...non fa sconti"

La temperie ha nello sconto un suo divino feticcio e gli dedica da un po' una festa comandata, come si sa, in anticipata e concorrente convergenza con il Natale.
Poco da stupirsi, quindi, se a mo' di contrappasso rituale ha concepito una correlata locuzione: quasi uno scarico morale. 
Come l'incassare di cui s'è detto ora è qualche settimana, si tratta di una catacresi bottegaia e spesseggia nella lingua della comunicazione pubblica d'oggidì.
Capita che l'opposizione non si allinei a una scelta europea del governo (è ciò che fanno di norma le opposizioni, d'altra parte): "Commissione UE, Elly Schlein: «Non faremo sconti...»". Non è ovviamente in gioco una transazione economica e se fosse necessario argomentare la pacifica natura figurata del discorso in genere e del discorso politico in particolare, ecco appunto un ottimo esempio. Udendo o leggendo una dichiarazione siffatta, in effetti a nessuno passa giustamente per la testa che la personalità che l'ha rilasciata stia dicendo con essa che ci sarà una vendita in proposito e che sarà a prezzo pieno. 
Che si sia davanti a un tropo fantasioso (ma rapidamente fattosi frusto) è ancora più evidente quando in ballo c'è proprio del denaro. Nell'ordinamento nazionale è infatti lo Stato che trasferisce risorse finanziarie ai Comuni. Eppure, a commento del fatto che ciò si verifica da qualche tempo in misura decrescente, sulla stampa si legge: "Il governo non fa sconti ai Comuni. Ecco la mappa di cinque anni di tagli". 
A essere obbligate a praticare sconti, per così dire, all'amministrazione centrale sono dunque le amministrazioni periferiche. E, se lo si prendesse alla lettera, il titolo di quel resoconto giornalistico direbbe irragionevolmente il contrario, con una stridente contraddizione. 
Naturalmente, nessuno bada alla lettera e a tutti è familiare l'abuso. O, come si diceva nel frustolo che s'è menzionato in apertura, la catacresi. Alla sua luce, in una sorta di universale mercato, ci sono oggi docenti che non fanno sconti ai loro studenti, pubblici ministeri che non fanno sconti agli imputati, pazienti insoddisfatti che non fanno sconti ai loro medici curanti e così via. Né si vede all'orizzonte l'eventualità che anche in proposito si proclami prima o poi un Black Friday.

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Passano poche ore dalla pubblicazione di questo frustolo e in rete Apollonio inciampa nella promozione di un quotidiano che, sotto la foto di due importanti rappresentanti dell'attuale governo, promette una temporanea riduzione del prezzo di abbonamento con queste parole:


Da vecchio didatta pedante, ne consiglia la menzione a chi volesse illustrare come la differenza tra valore proprio e figurato di una locuzione si presti alle acutezze (se così si vuole dire) della comunicazione commerciale. 




17 novembre 2024

Onomastica cinematografica (2): Anora

Anora è il titolo del film più recente di Sean Baker, sceneggiatore e regista americano, ed è il nome della protagonista del film, "una giovane sex worker di Brooklyn", dice la pagina della società che distribuisce la pellicola in Italia, dove, a illustrare il tema di questo frustolo, si troverà anche un loquace trailer
L'opera (che ha dialoghi in inglese, in russo e in armeno) è stata premiata a Cannes, la scorsa primavera. È in effetti abbastanza ben fatta (forse con qualche lungaggine, nella sua prima parte, sostanzialmente preparatoria del dramma). Ma a orientare in tal senso la giuria suppone Apollonio sia stato il fatto che, in essenza e per figura, il film procura un buon ritratto del tempo presente. Dice in effetti quanto esso sia banalmente traviato e mercenario e, d'altra parte, come, per non piangerne, se ne possa e forse se ne debba ridere (con molto amara e disperata coscienza del degrado, si svela tuttavia nella scena, breve ma cruciale, della chiusura). 
Bando però alle vane geremiadi. Qui non si rende conto del film e si pone invece l'attenzione sopra un suo dettaglio onomastico. Se, come si anticipava, si può dire dettaglio il nome che porta la protagonista di un'opera d'invenzione. Sul principio della narrazione, rivolgendosi a un cliente, costei si presenta con un "Hi, I'm Ani". E, più avanti e in passaggi comico-drammatici della pellicola, con rabbia rivendica il diritto e ribadisce il suo desiderio di essere Ani, in faccia a chi, anagraficamente, la chiama Anora
Anora è in effetti una ventitreenne newyorchese. Appartiene quindi tanto alla cultura (o si dirà alla civiltà?), quanto alla generazione per le quali vige internazionalmente una norma per l'identificazione onomastica personale nel discorso quotidiano. Una moderna baritonesi. Se composti da più di due sillabe, i nomi si riducono al bisillabo iniziale e si restringe l'apertura della vocale che il troncamento rende finale. Da Anora, quindi, viene fuori Ani
Anche quando non è richiesta (e non è certo questo il caso della rappresentazione cinematografica della vita sociale di Anora), un'informale familiarità si è fatta insomma rigorosa regola di interazione. Essa rigetta l'onomastica paradigmatica e si bea della sintagmatica, morbidamente, se non morbosamente vezzeggiativa e confidenziale. Proprio mentre scrive queste righe, Apollonio registra nell'italiano di una rete sociale un Giudi per Giuditta, da lui fin qui inaudito. 
Nei termini di un'onomastica cinematografia allusiva, c'è allora da chiedersi se Ani, omofono di any, non sia un nome a suo modo parlante per "a young sex worker", come la lingua principale del film consente di scrivere, senza pronunciarsi esplicitamente quanto al genere della designazione. E si stenta a credere che l'effetto allusivo non sia stato ricercato e ponderato dallo sceneggiatore-regista, quando, battezzando come Anora la sua fantasiosa creatura, le prefigurava Ani come significativa marca onomastica nella narrazione. 
Fuori delle ipotesi sulla intentio auctoris restando ai fatti e all'intentio operis, il film presenta solo un personaggio in cui, via via che la storia procede, occhieggiano e infine si rivelano lampi di sommessa e sotterranea partecipazione per la bizzarra e finalmente deludente vicenda di Anora/Ani. È uno dei suoi vessatori, è russo e di nome fa Igor. Si tratta di un arguto paradosso onomastico, se si pensa a tutti gli Igor di cui il cinema ha dotato il genere horror, anche nelle sue varianti comiche. 
Tocca allora a tale Igor confermare come quel nome proprio proiettato come titolo dell'opera abbia una funzione sistematica nel processo narrativo del film e come il film dica allora e infine che, dalla protagonista, il suo nome intero (integro, si direbbe) vada, caso mai e se possibile, riconquistato, anche contro se stessa. 
Si è quasi alla conclusione. Seduto accanto alla sedicente Ani, Igor, meditando ad alta voce, le dice: "...mi piace Anora. È un bel nome". E la ragazza, questa volta, non protesta né rivendica. 
A differenza di Ani, Anora è in effetti proprio il suo nome proprio, il suo singolare nome di battesimo, non quel nome proprio qualsiasi che la vita le ha fatto indossare nella falsa e dolorosa letizia delle sue relazioni prezzolate.


12 novembre 2024

Spettatore pagante (7): "Parthenope" di Paolo Sorrentino

Parthenope
 è una pellicola allegorica e, nelle intenzioni, dissacrante. Il tessuto del suo enunciato narrativo è fatto dall'intreccio di questi due fili. Ne è fatta, soprattutto, la sua enunciazione, che si atteggia appunto ad allegorica e dissacrante, proprio come si atteggia a sentenziosa (sopra questo terzo carattere, tuttavia, si verrà in fondo). Da parte del regista, un modo un po' artificioso per segnalare l'opera come "film d'autore", dotandola d'altra parte di una singolare sorta di sigillo. 
A quasi tutti i personaggi di rilievo capita in effetti di accendere e di fumare una sigaretta. Enfaticamente. Il film ricorre spesso a primi e primissimi piani. La trovata procura a essi movimento e prospettiva narrativa, oltre a dare, secondo i casi, un tono meditativo, problematico o fascinoso alla figura. Sphragìs del fumatore Sorrentino o timore che gli interpreti, privi del supporto, non sarebbero stati in grado di reggere significativamente simili iterate inquadrature?
Comunque sia, sotto il segno dell'allegoria, il film invita a chiedersi a più riprese cosa ci sia "sotto 'l velame" di figure, parole e immagini, non solo quando paiono strane o quando si può supporre il gioco valga la candela, perché le risposte sono difficili o arcane. In effetti, di norma non sono tali: si tratta di figure di facile lettura. 
Sotto il segno della dissacrazione, il film vuole congiuntamente épater il prototipico bourgeois in cui, proprio in quanto tale, vive e prospera un luogo comune gigantesco e proteiforme: Napoli. Napoli preme molto a Sorrentino. Meglio: proprio in quanto cliché, Napoli preme molto sopra Sorrentino artista (forse anche sopra Sorrentino persona, ma qui non si pratica il metodo di Sainte-Beuve). 
Il cliché nel suo complesso e alcuni degli innumerevoli stereotipi correlati sono pertanto quanto Parthenope prova idealmente a demistificare con le sue trasparenti allegorie. Prova a farlo per via di paradosso.  Si serve infatti delle veneri della cinematografia: luci, colori, inquadrature... Del loro insieme, funge da sineddoche la grazia di Celeste Dalla Porta, nel ruolo della protagonista; una grazia messa in scena come mirabilmente quotidiana, un fascino al tempo stesso quieto e inquietante.
Parthenope non è così il consueto film su Napoli e un'osservazione linguistica lo dice immediatamente. Vi compaiono personaggi che, esprimendosi, si qualificano ovviamente come partenopei. Non così però Parthenope. Sulle labbra di una figura con quel nome, nata nelle acque del Golfo e cresciuta in una casa sulle sue rive non si ode una parlata napoletana. 
Che Parthenope non si esprima in dialetto è ovvio: il plot la colloca in un ambiente borghese. La sua la parola non prende però nemmeno l'inflessione che rende sempre ben riconoscibilmente partenopeo l'italiano del luogo, a prescindere dall'estrazione sociale di chi s'esprime. È questo, per esempio, il caso di Sorrentino medesimo. Appena apre bocca, nessuno lo direbbe veneziano o livornese. E c'è film cui Napoli faccia da tema (o anche solo da sfondo) in cui l'espressione locale - vero e proprio luogo comune -  non abbia una funzione caratterizzante? La presa di distanza, se si vuole, comincia da lì: un'allegoria partenopea priva, nel suo asse principale, di accento partenopeo.
A volere essere spassosamente pignoli, c'è in limine un dettaglio grafico minuscolo a fare da spia di un'intenzione artistica siffatta: l'acca al centro del nome dell'eroina eponima. Un ricercato ammicco cólto e etimologico? Forse, ma una contrapposizione alla secolare tradizione grafica nazionale che ne fa appunto a meno. 
Partenope, senza acca, è il luogo comune e, nella cinematografia nazionale, conta centinaia di evocazioni e di tematizzazioni. Esemplare quella di Carosello napoletano, film di Ettore Giannini consacrato appunto alla Napoli partenopea convenzionale. E consacrato tanto mirabilmente da essere premiato a Cannes, si pensi, giusto settanta anni fa. Era il secondo Dopoguerra. Nella stessa sede, nella scorsa primavera, l'onore non è stato invece tributato alla pellicola di Sorrentino, che tuttavia vi ambiva. 
Mutatis mutandis (come è appena il caso di dire, visto quanto sono mutati i tempi da allora), Parthenope è in effetti un nuovo carosello napoletano straniato e post-moderno. L'acca che fa in due pezzi il nome ne è un segnale. Ma, in funzione della solidità del luogo comune, finalmente senza conseguenze di rilievo: come appunto l'acca, quanto alla pronuncia del nome, resta un ammicco.
Si rischia d'essere corrivi elencando o, ancor peggio, illustrando nei particolari i cliché partenopei presi di mira dalla pellicola. Alcuni sono anche troppo espliciti. La capigliatura rosso fuoco della grande e stagionata attrice di nome Greta Cool non necessita di chiose, per esempio. E, a dirla tutta, a orecchie e occhi bigotti proclamare posticcia tale capigliatura, come finalmente la persona che la indossa e che scarica il suo ben giustificato livore sopra Napoli e i Napoletani, può suonare e apparire blasfemo ben più della plateale profanazione del sacro cui Parthenope volentieri si presta con il cardinal Tesorone. 
Chi assiste al film riconosce insomma i bersagli dell'ottica caustica di Sorrentino e, caso mai ne avesse mancato qualcuno, come ne ha certamente mancati lo spettatore pagante, non avrà perso il palese valore intenzionalmente dissacratorio dell'insieme. 
In funzione delle belle immagini (cui si è già alluso), sfugge tuttavia all'ottica caustica un grande luogo comune partenopeo, certo perché correlato con la figura di Parthenope come mitologica sirena: il mare del Golfo di Napoli. 
Cardine visivo intorno al quale ruota in effetti la narrazione, a esso il regista riserva, per immagini, un'attitudine comparabile con quella espressa dalla prima strofa di Torna a Surriento (e come si fa a non commentare in proposito con un nomen omen?): "Vide o mare quant'è bello, | spira tanto sentimento, | comme tu a chi tiene a mente, | ca scetato o faie sunnà."
Ecco appunto. Al pari del fluido gelatinoso di una celeberrima pellicola americana degli anni Cinquanta, un luogo comune, se è veramente tale, finisce tuttavia per inglobare e digerire chiunque gli si accosti e, anche se armato delle più acuminate e sottili intenzioni critiche, manifesta in realtà con l'atto (sconsiderato) il desiderio di perdervisi. 
Questo è ragionevolmente anche il caso del finalmente desiderante Sorrentino, che con Parthenope ha inteso sfidare il cliché tentacolare di Napoli. E, d'altra parte, dopo avere visto il film, si sfida chiunque a dire che, per lui, come, si può affermare, per l'universo mondo, Napoli non sia e resti appunto un luogo comune appiccicaticcio e gelatinoso. E flaccido e debordante, come si presenta infine il gigantesco e celato pargolo, "fatto di acqua e di sale", del professor Devoto Marotta, interprete Silvio Orlando. 
Davanti al domestico monstrum il padre, fuori di casa pungente e disincantato, cede anche lui a un'elegia dolciastra e instupidente e si assopisce innocuo e rassegnato. Il cliché partenopeo e i suoi corollari sono così quanto una pellicola dall'intento dissacratorio finisce paradossalmente per confermare, con le sue allegorie.
S'era alluso in apertura al tratto sentenzioso di un film che, si ricordi, non è stato solo diretto, ma anche ideato e scritto da Sorrentino. Sulle labbra dei personaggi spesseggiano in effetti le sortite apodittiche. Lo sceneggiatore si può dire sermoneggi dietro le maschere della protagonista, di Achille Lauro, di John Cheever, di Flora Malva, di Greta Cool, del cardinal Tesorone e di altri e altre. 
Conta due ricorrenze topiche però "All'università si viene [cioè: ci si reca] cacati e pisciati". Il motto perentorio del professor Marotta ricorre nella prima parte, proferito a Napoli in un aula universitaria in cui si stanno svolgendo gli esami di Antropologia. Come citazione indiretta, quando il film si avvia al termine, ricorre una seconda volta sulle labbra di un'allieva trentina di Parthenope che l'ha appreso da lei, frattanto diventata un'anziana professoressa sulla soglia della pensione. 
Anche per tale ragione il motto finirà probabilmente per fare da sigillo mnemonico della pellicola. Non potrà certamente insidiargli il ruolo quel "Dio non ama il mare" proferito ex abrupto da una voce anonima sullo scorrere dei titoli di coda: estremo commento ultra-diegetico da parte di un autore in sospetto, a quel punto, di incontinenza, perché incapace di lasciare andare chi esce dalla sala senza lanciargli un ultimo segnale, superfluamente enigmatico. 
Così Parthenope sarà forse il film di "All'università, si viene cacati e pisciati". Più di un frutto dell'invenzione di Sorrentino, l'icastica sentenza pare tratta dal deposito immateriale dei memorabilia della vita universitaria anteriore al Sessantotto, ormai da gran tempo leggendaria. 
Così fosse, si osservi, non sarebbe la prima volta per un film di un regista napoletano. Or sono più di trenta anni, pescata probabilmente dalla medesima fonte, "Non si avvicini, non mi contamini con la sua ignoranza" ebbe lo stesso ruolo in Morte di un matematico napoletano di Mario Martone.

 
Né Martone, del 1959, né Sorrentino, del 1970, hanno ovviamente avuto esperienza diretta di quel mondo perduto. L'ambiente accademico partenopeo pare dunque custodisca e tramandi ancora memorie di detti celebri e ormai, ovviamente, socialmente e antropologicamente improponibili. La condizione raccomandata da Sorrentino, per interposto Marotta, non vige più da gran tempo tra i discenti né, a dire il vero, tra i docenti. E, per la persistente pandemia, il cave riesumato da Martone non avrebbe più ragione d'essere proferito. Ma nella scelta differente, pare a chi scrive si colga il quid delle attitudini umane, finalmente opposte, dei due registi. E soltanto quella di Sorrentino, con la sua ironia, ispira simpatia.  
     



8 novembre 2024

A frusto a frusto (139)

In ultima e stringente analisi, l'ignobile domanda "A che serve?" è ciò che soggiace all'incessante ricerca umana di un'arma letale: dalla clava all'ordigno dell'Apocalisse. Cioè allo strumento infine atto a compiere un destino e a procurare a quella domanda la risposta esauriente e definitiva: l'autodistruzione della specie dal comportamento guidato dall'ignobile domanda "A che serve?".

4 novembre 2024

Spettatore pagante (6): "Megalopolis" di Francis Ford Coppola

Mettere un'opera del proprio ingegno e del proprio impegno sotto un titolo è darle un nome. Ed è già, di norma, atto espressivo e comunicativo di importanza capitale. 
Il battesimo ha un valore ancor più straordinario se, giungendo in veneranda età dell'artista, l'opera è quella intorno alla quale si afferma di avere meditato per decenni; di cui si sostiene di avere sognato lungo tutta la propria luminosa carriera professionale; per la realizzazione della quale si è persino provveduto a liquidare parte del proprio patrimonio personale. È appunto il caso di Megalopolis di Francis Ford Coppola. Troppo, c'è immediatamente da sospettare.
Troppo, senza dubbio. E quel nome, parlante, già dice di un eccesso. Lo dice con il suo primo elemento, per semplice analogia lessicale: è il medesimo di megalomania. Ma dice di un eccesso ancora più grande, megalomane appunto, con il riferimento analogico cui, quanto alla storia del cinema, il suo secondo elemento indirizza senza equivoco: Metropolis di Fritz Lang, film del quale fra tre anni ricorrerà il centenario. 
D'altra parte, che Francis Ford Coppola, con Megalopolis, abbia dato sfogo a una sua vena espressionista è chiaro sin dalle prime inquadrature della pellicola. E il suo principale riferimento diventa lampante quando, andando avanti, si vede lo sviluppo narrativo scandito da didascalie sentenziose ed esplicative, come furono quelle che fungevano da intertitoli nel cinema muto.
Quando Lang prima concepiva, quindi dirigeva il suo film leggendario era tuttavia quasi quarantenne ed era partecipe del fervore (letteralmente) esplosivo e corrusco dei primi decenni dell'Europa del Secolo breve. Il Coppola di Megalopolis è invece un ultra-ottantenne immerso nel gelido e cupo stagno globale in cui si versano i liquami della putrefazione della modernità, quando è trascorso il primo quarto del ventunesimo secolo. 
E non si dica che, nei diversi contesti culturali, ma anche brutalmente sociali e concretamente antropologici, il dato biografico sia privo di correlati, da un lato, compositivi, dall'altro e quanto alla valutazione, critici. 
Tanto fu viva e tesa l'espressione espressionista e conclusivamente inquietante di un giovanilmente maturo europeo degli anni Venti del secolo scorso, quanto vizza, aggranchita e, in chiusura, stucchevolmente consolatoria è quella di un vecchio americano degli anni Venti di questo secolo. 
Al posto di inventare, in effetti, Coppola cita e ricicla all'ingrosso: Shakespeare e Federico Fellini, William Wyler e Marco Aurelio, Gaio Sallustio Crispo e Ridley Scott, H.G. Wells e se stesso. 
Il risultato è un guazzabuglio. Lo spettatore pagante, con la sua modesta cultura generale e in particolare cinematografica, non ha certo potuto riconoscerne tutti gli ingredienti. Ha tuttavia colto il disordine di un composto non amalgamato, l'accozzamento privo di ratio e di grazia, la sciatteria paradossale per lo spreco dei mezzi tecnici (tuttavia, a guardare con attenzione, meno grandioso di quanto si sia favoleggiato).
Megalopolis è insomma un film grottesco, un'americanata, un fantapeplum che muove sovente al riso, già a partire dal frullato onomastico di cui si fregiano i suoi improbabili personaggi: Cesar ['sisa'] Catilina (inventore di una nuova materia, chiamata anch'essa non a caso megalon), Franklyn e Julia Cicero, Hamilton Crasso III, Clodio Pulcher, Wow Platinum. E, ciliegina sulla torta, per la bimbetta che in epilogo continua a muoversi anche quando i suoi summenzionati genitori hanno romanticamente fermato il tempo, Sunny Hope Catilina. 
C'è d'altra parte ancora una differenza fondamentale tra Metropolis e Megalopolis. Il primo, del 1927, è un film muto. Il secondo, purtroppo, no. Non c'è in esso una sola parola che non spinga in effetti a rimpiangere, nel confronto, una sortita cinematograficamente memorabile: "I love the smell of napalm in the morning". 
Allo spettatore pagante essa ricorda che Francis Ford Coppola, quarantenne quando il Secolo breve si avviava alla fine, fu capace di aggiungere alla storia del cinema un capolavoro tardo-espressionista. E l'ammonisce: la vecchiaia è un grande guaio. Gigantesco, quando perde il controllo di sé.

1 novembre 2024

Lingua loro (49): "Potente" e "potenza"

"...è un romanzo grande e potente": con questo lapidario viatico attribuito ad Antonio D'Orrico si apriva ora è un lustro una pagina di réclame di Il Colibrì di Sandro Veronesi. Qui non è questione di quell'opera, ma di potente e di potenza. Sono parole che oggi spesseggiano nel discorso critico o, forse meglio, nella chiacchiera sopra temi letterari o cinematografici.
Apollonio vanta (o sconta) un'esposizione a quella chiacchiera (e, se si vuole, a quel discorso) che supera ormai il mezzo secolo. Saltuario ascoltatore e distratto lettore, ci si intenda. Non pretende quindi che le sue siano asserzioni dottrinali. Osservazioni non solo impressionistiche però, sì, fosse anche soltanto per la sottesa durata. E l'ipotesi che si affaccia, senza ovviamente che se ne proponga un'interpretazione da correlazione causale, è che potente e potenza abbiano cominciato a dilagare nei contesti menzionati più o meno dagli anni in cui è stato commercializzato in Italia il prodotto farmaceutico rappresentato dall'immagine che correda questo frustolo. Insomma, Zeitgeist, si dice dottamente. Più alla buona, aria che tira e che ringalluzzisce non solo lo spirito (pneumatico di suo, pronto quindi a gonfiarsi), ma anche il corpo.  
Non sono ovviamente neologismi, potenzapotente. Ma Apollonio ha la netta percezione che sia in effetti relativamente nuova l'estensione della loro portata, accesamente figurata, alla sfera delle arti menzionate. E che soprattutto sia nuova la loro ascesa, in quelle chiacchiere, al rango di tormentone. Per una prima esperienza e un primo esercizio in corpore vili, ecco un'accidentale e non esauriente raccolta delle ricorrenze di potente e di potenza nelle pagine con cui La bella confusione, libro recente e molto fortunato di Francesco Piccolo, si proietta verso la sua (potente?) conclusione:   

Ho cominciato a leggere Yoga [...] piano piano nella mia testa si è formata chiara l'idea che [...] stava riuscendo a spiegarmi qual è la caratteristica più potente di Otto e mezzo: la vitalità (200).

Questa volontà di stare bene è molto potente quando si vede Otto e mezzo, è molto potente quando si legge Yoga. E per quanto mi riguarda è molto potente anche dentro di me (202-3).

Bisogna dire, a questo punto, che Il Gattopardo e Otto e mezzo, insieme, rappresentano ancora altro, al di là di sé stessi. La potenza di questo momento, il fatto che due autori così importanti abbiano fatto due film così grandiosi contemporaneamente [...] e che quando sono usciti abbiano avuto un effetto devastante, potente [...] ecco, bisogna dire che questi due film rappresentano non so se il punto di alto, ma di sicuro il punto di arrivo di venti anni di grande potenza del cinema italiano nel mondo (211).

Questa potenza e questa specie di ultima esplosione, si manifesta soprattuto nei riconoscimenti ottenuti nei vari festival internazionali (211).

In Otto e mezzo c'è la fine della giovinezza (o la paura della fine della potenza) per un individuo e soprattutto per un artista (213).

Ma quella potenza produttiva non si vedrà più (213).

e in contrasto vede non solo la bellezza, ma la potenza ormai irresistibile di Angelica, e tutta questa potenza sta per culminare proprio di fronte a lui (244).

Ed ecco che l'autobiografismo di Visconti diventa potente oltre ogni sua volontà (245).

Quindi il contrasto tra la giovinezza potente, voluttuosa, e il vecchio che muore (245).

Angelica è assolutamente potente e desiderabile. Come dice Tomasi del quadro, al centro c'è la fine di don Fabrizio, ma in realtà il quadro è stato fatto per la potenza di Angelica (246).

sente il desiderio potentissimo che arriva dal profumo di questa ragazza e anche dalla potenza di questa ragazza (247).

Mentre il finale che vediamo noi [...] è una potente accettazione della vita (251).

si sentono parte di uno stesso mondo che è quel mondo che ha avuto quella potenza assoluta e che adesso, casomai, è meno potente e più in difficoltà (255).

Deriva paradossale, ma forse non sorprendente, del Wille zur Macht nella temperie della modernità putrefatta? O, da parte delle più vive coscienze di tale temperie, non troppo implicita ammissione, rivelata dall'uso evocativo, maniacale e ossessivo del positivo, di trovarsi invece nello stato definito dalle negazioni di potente e di potenza? Apollonio non sa. Giudichi chi legge.