Anora è il titolo del film più recente di Sean Baker, sceneggiatore e regista americano, ed è il nome della protagonista del film, "una giovane sex worker di Brooklyn", dice la pagina della società che distribuisce la pellicola in Italia, dove, a illustrare il tema di questo frustolo, si troverà anche un loquace trailer.
L'opera (che ha dialoghi in inglese, in russo e in armeno) è stata premiata a Cannes, la scorsa primavera. È in effetti abbastanza ben fatta (forse con qualche lungaggine, nella sua prima parte, sostanzialmente preparatoria del dramma). Ma a orientare in tal senso la giuria suppone Apollonio sia stato il fatto che, in essenza e per figura, il film procura un buon ritratto del tempo presente. Dice in effetti quanto esso sia banalmente traviato e mercenario e, d'altra parte, come, per non piangerne, se ne possa e forse se ne debba ridere (con molto amara e disperata coscienza del degrado, si svela tuttavia nella scena, breve ma cruciale, della chiusura).
Bando però alle vane geremiadi. Qui non si rende conto del film e si pone invece l'attenzione sopra un suo dettaglio onomastico. Se, come si anticipava, si può dire dettaglio il nome che porta la protagonista di un'opera d'invenzione. Sul principio della narrazione, rivolgendosi a un cliente, costei si presenta con un "Hi, I'm Ani". E, più avanti e in passaggi comico-drammatici della pellicola, con rabbia rivendica il diritto e ribadisce il suo desiderio di essere Ani, in faccia a chi, anagraficamente, la chiama Anora,
Anora è in effetti una ventitreenne newyorchese. Appartiene quindi tanto alla cultura (o si dirà alla civiltà?), quanto alla generazione per le quali vige internazionalmente una norma per l'identificazione onomastica personale nel discorso quotidiano. Una moderna baritonesi. Se composti da più di due sillabe, i nomi si riducono al bisillabo iniziale e si restringe l'apertura della vocale che il troncamento rende finale. Da Anora, quindi, viene fuori Ani.
Anche quando non è richiesta (e non è certo questo il caso della rappresentazione cinematografica della vita sociale di Anora), un'informale familiarità si è fatta insomma rigorosa regola di interazione. Essa rigetta l'onomastica paradigmatica e si bea della sintagmatica, morbidamente, se non morbosamente vezzeggiativa e confidenziale. Proprio mentre scrive queste righe, Apollonio registra nell'italiano di una rete sociale un Giudi per Giuditta, da lui fin qui inaudito.
Nei termini di un'onomastica cinematografia allusiva, c'è allora da chiedersi se Ani, omofono di any, non sia un nome a suo modo parlante per "a young sex worker", come la lingua principale del film consente di scrivere, senza pronunciarsi esplicitamente quanto al genere della designazione. E si stenta a credere che l'effetto allusivo non sia stato ricercato e ponderato dallo sceneggiatore-regista, quando, battezzando come Anora la sua fantasiosa creatura, le prefigurava Ani come significativa marca onomastica nella narrazione.
Fuori delle ipotesi sulla intentio auctoris restando ai fatti e all'intentio operis, il film presenta solo un personaggio in cui, via via che la storia procede, occhieggiano e infine si rivelano lampi di sommessa e sotterranea partecipazione per la bizzarra e finalmente deludente vicenda di Anora/Ani. È uno dei suoi vessatori, è russo e di nome fa Igor. Si tratta di un arguto paradosso onomastico, se si pensa a tutti gli Igor di cui il cinema ha dotato il genere horror, anche nelle sue varianti comiche.
Tocca allora a tale Igor confermare come quel nome proprio proiettato come titolo dell'opera abbia una funzione sistematica nel processo narrativo del film e come il film dica allora e infine che, dalla protagonista, il suo nome intero (integro, si direbbe) vada, caso mai e se possibile, riconquistato, anche contro se stessa.
Si è quasi alla conclusione. Seduto accanto alla sedicente Ani, Igor, meditando ad alta voce, le dice: "...mi piace Anora. È un bel nome". E la ragazza, questa volta, non protesta né rivendica.
A differenza di Ani, Anora è in effetti proprio il suo nome proprio, il suo singolare nome di battesimo, non quel nome proprio qualsiasi che la vita le ha fatto indossare nella falsa e dolorosa letizia delle sue relazioni prezzolate.
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