Apollonio lo dichiara subito: con svariato non è obiettivo. Aggettivo o participio che sia, lo trova intollerabile. Sentimenti diversi gli suscita il verbo svariare, con quella sua aria da flâneur che svariato proprio non ha e, del resto, non ha mai avuto.
Non che la varietà non piaccia ad Apollonio: anzi. Varietas delectat è uno dei suoi motti preferiti (e lo ripete fino a diventare noioso, anche a se medesimo). Ma svariato no: proprio non lo tollera.
È convinto del resto che esso porti dentro la paurosa tabe dell'uniformità, che sia intrinsecamente falso e menzognero, che sia insomma la maschera che tenta malamente di nascondere e quindi rivela il peggiore piattume.
Lo si consideri già nella forma. Lo si compari al serio e modesto vario, di cui svariato è infine solo una variante andata a male, avariata. Un inutile –ato che da un lato millanta un’inesistente perfettività, dall’altro, con una sillaba in più, banalizza la forma.
Con svariato si prende così l’onesto vario e lo si fa convergere, incolpevole, verso gli “uto, ito, ato” che conchiudevano gli sgangherati resoconti da Palazzo Chigi del parodistico giornalista inventato e impersonato da Mario Marenco, anni fa, per Alto gradimento (Apollonio non ne ricorda il nome: tra chi lo legge, qualcuno ne ha memoria?)
Né funzione meglio appropriata garantisce la s–. Non si capisce cosa ci stia a fare, se non a determinare l’enfasi, il turgore fonico del nesso consonantico iniziale.
Ne viene fuori una parolaccia, che comincia gonfiandosi e termina qualunque.
Sì, qualunque. Ed è così che svariato finisce giustamente per fare la figura miserabile dell’aggettivo indefinito che, vergognandosi d’essere tale, si dà arie da aggettivo qualificativo.
Se svariato qualifica qualcosa, però, è solo l’afasica verbosità di chi lo adopera.
Non che la varietà non piaccia ad Apollonio: anzi. Varietas delectat è uno dei suoi motti preferiti (e lo ripete fino a diventare noioso, anche a se medesimo). Ma svariato no: proprio non lo tollera.
È convinto del resto che esso porti dentro la paurosa tabe dell'uniformità, che sia intrinsecamente falso e menzognero, che sia insomma la maschera che tenta malamente di nascondere e quindi rivela il peggiore piattume.
Lo si consideri già nella forma. Lo si compari al serio e modesto vario, di cui svariato è infine solo una variante andata a male, avariata. Un inutile –ato che da un lato millanta un’inesistente perfettività, dall’altro, con una sillaba in più, banalizza la forma.
Con svariato si prende così l’onesto vario e lo si fa convergere, incolpevole, verso gli “uto, ito, ato” che conchiudevano gli sgangherati resoconti da Palazzo Chigi del parodistico giornalista inventato e impersonato da Mario Marenco, anni fa, per Alto gradimento (Apollonio non ne ricorda il nome: tra chi lo legge, qualcuno ne ha memoria?)
Né funzione meglio appropriata garantisce la s–. Non si capisce cosa ci stia a fare, se non a determinare l’enfasi, il turgore fonico del nesso consonantico iniziale.
Ne viene fuori una parolaccia, che comincia gonfiandosi e termina qualunque.
Sì, qualunque. Ed è così che svariato finisce giustamente per fare la figura miserabile dell’aggettivo indefinito che, vergognandosi d’essere tale, si dà arie da aggettivo qualificativo.
Se svariato qualifica qualcosa, però, è solo l’afasica verbosità di chi lo adopera.
Non hai nulla da dire? Di’ “svariate cose”, costi quel che costi.
E se le dici, avrai certamente “svariate ragioni”. Si può stare sicuri, però, del fatto che, invocandole tutte, quelle ragioni, non ne saprai indicare precisamente nessuna (perché del resto nessuna è precisa nella tua mente). Nella migliore delle ipotesi, stai facendo il furbo.
E quello svariato, come tutte le parole inutili che prosperano sulla bocca d’ogni stupido, uno scopo ce l’ha. È una minaccia e un attentato alla grazia della vita e della lingua: “Guai a chi me ne chiede conto. Dico svariate cose, e insensate, perché così ho voluto. Ito. Ato”.
E se le dici, avrai certamente “svariate ragioni”. Si può stare sicuri, però, del fatto che, invocandole tutte, quelle ragioni, non ne saprai indicare precisamente nessuna (perché del resto nessuna è precisa nella tua mente). Nella migliore delle ipotesi, stai facendo il furbo.
E quello svariato, come tutte le parole inutili che prosperano sulla bocca d’ogni stupido, uno scopo ce l’ha. È una minaccia e un attentato alla grazia della vita e della lingua: “Guai a chi me ne chiede conto. Dico svariate cose, e insensate, perché così ho voluto. Ito. Ato”.
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