Si tratta solo dell'ennesima esca e, nell'oceano delle comunicazioni di massa, ci si sta facendo ancora una volta prendere all'amo?
A mar, abbocca
Anche perché, tra gli osanna, qualcuno inascoltato potrebbe ragionevolmente dire
Ma Bacco, bara!
L'azzardo è grande infatti e il ticket si definisce da solo:
Ambo baccarà
[L'invenzione di un anagramma è giustappunto una scoperta
(c = k)]
[cfr., nel giardino di Kublai Kan, il post del 14.11.08: "...un uomo attraente, sa parlare e vien bene alla TV"]
12 novembre 2008
10 novembre 2008
Sulla catena evolutiva accademica (I)
Qui si parla di una cosa che non c'è più da gran tempo, l'università. E ammesso che qualche relitto ancora ci sia, non ci sarà più in futuro. Chi trovasse in ciò che segue una vena d'elegia, perdonerà il vecchio Apollonio d'indulgervi: si rassicuri però, nessuna nostalgia.
Secondo una nota e antica teoria sulla catena evolutiva accademica, caratteri d'inarrestabile decadenza e di continua rinascita erano inscritti nel codice genetico dell'istituzione universitaria del moderno Occidente.
Si era già (come si è oggi) in epoca post-accademica e Apollonio era solo un ragazzo. Sentì enunciare tale teoria a un ancora giovane studioso che in potenza era all'epoca "il più famoso linguista italiano" e tale sarebbe poi diventato in atto, come ha di recente testimoniato, sulle pagine dei giornali, la pubblicità di un dizionario cui egli ha dato il suo nome.
Scolaro d'illustre maestro e maestro illustre di numerosa scuola, la teoria gli affiorò alle labbra (ricorda Apollonio) durante la cena che seguiva una conferenza. Alla cena, come alla conferenza, era presente una folta e rapita rappresentanza della menzionata scuola. Apollonio vi era stato ammesso eccezionalmente e ascoltava da un angolo nel fondo della lunga tavolata.
La teoria non era forse farina del sacco di chi in quell'occasione la riferiva. Se lo faceva, era per perpetuare una nobile tradizione. Apollonio ne fu sicuro già allora e ancora oggi crede che essa si sia in realtà tramandata eguale da generazioni: testimonianza dell'attitudine un po' canaglia che rese amabili un tempo i professori d'università, con il loro innocente cinismo. Cose oggi disperse nel conformismo della correttezza politica e che, già all'epoca di quella cena, erano agli estremi riflessi dei loro quasi spenti bagliori.
Ecco comunque, qui di seguito brevemente riferita, la teoria sulla catena evolutiva accademica, come Apollonio ricorda di averla udita.
Bastava che fosse furbo anche solo un po', un professore d'università non avrebbe mai eletto a suo scolaro e successore un giovane studioso in sospetto d'essere più intelligente, più bravo, più capace di lui. Per tema d'essere messo in ombra, avrebbe sempre preferito chi egli credeva meno intelligente, meno bravo, meno capace. Ciò condannava naturalmente l'università a rovinosa decadenza. E la storia dell'università fu in effetti sempre storia di decadenza rovinosa: c'è bisogno di esempi?
Come mai, tuttavia, nella sua secolare vicenda, giunta comunque da tempo al suo termine, l'istituzione universitaria riuscì a sopravvivere e le riuscì talvolta di dare persino qualche buona prova di sé? Presto detto.
Da maestro a scolaro più scemo, poi maestro di scolaro più scemo, poi maestro di scolaro più scemo e così via, si giungeva a un livello di scemenza tale da non consentire al suo titolare nemmeno di rendersi conto di scegliere come scolaro e successore uno meno scemo di lui. E il ciclo poteva così ricominciare.
Come si comprende, per la sua lucidità, il relitto culturale è prezioso. Riferendolo, Apollonio ne elegge a gelosi custodi i suoi pochi lettori. E confida loro ciò che, tra il compiacimento di chi enunciava la teoria e le risate complici dei commensali, a lui apparve chiaro già quella sera di estremi riflessi di ormai quasi spenti bagliori, mentre ruminava silenzioso altre osservazioni ed integrazioni, di cui magari un'altra volta dirà.
Della catena evolutiva accademica, concluse, i più benemeriti dunque furono sempre i più scemi, coloro la cui idiozia fu tanto grande da interrompere il declino cui invece i meno scemi davano il loro continuo fattivo contributo.
Paradosso? Ma cosa non è paradosso nel mondo? E, per l'intelligenza della storia calamitosa dell'istruzione superiore dell'Occidente moderno, un paradosso è incomparabilmente più efficace delle tartufesche invocazioni al merito e all'eccellenza dei presenti e altrimenti calamitosi tempi post-accademici.
Secondo una nota e antica teoria sulla catena evolutiva accademica, caratteri d'inarrestabile decadenza e di continua rinascita erano inscritti nel codice genetico dell'istituzione universitaria del moderno Occidente.
Si era già (come si è oggi) in epoca post-accademica e Apollonio era solo un ragazzo. Sentì enunciare tale teoria a un ancora giovane studioso che in potenza era all'epoca "il più famoso linguista italiano" e tale sarebbe poi diventato in atto, come ha di recente testimoniato, sulle pagine dei giornali, la pubblicità di un dizionario cui egli ha dato il suo nome.
Scolaro d'illustre maestro e maestro illustre di numerosa scuola, la teoria gli affiorò alle labbra (ricorda Apollonio) durante la cena che seguiva una conferenza. Alla cena, come alla conferenza, era presente una folta e rapita rappresentanza della menzionata scuola. Apollonio vi era stato ammesso eccezionalmente e ascoltava da un angolo nel fondo della lunga tavolata.
La teoria non era forse farina del sacco di chi in quell'occasione la riferiva. Se lo faceva, era per perpetuare una nobile tradizione. Apollonio ne fu sicuro già allora e ancora oggi crede che essa si sia in realtà tramandata eguale da generazioni: testimonianza dell'attitudine un po' canaglia che rese amabili un tempo i professori d'università, con il loro innocente cinismo. Cose oggi disperse nel conformismo della correttezza politica e che, già all'epoca di quella cena, erano agli estremi riflessi dei loro quasi spenti bagliori.
Ecco comunque, qui di seguito brevemente riferita, la teoria sulla catena evolutiva accademica, come Apollonio ricorda di averla udita.
Bastava che fosse furbo anche solo un po', un professore d'università non avrebbe mai eletto a suo scolaro e successore un giovane studioso in sospetto d'essere più intelligente, più bravo, più capace di lui. Per tema d'essere messo in ombra, avrebbe sempre preferito chi egli credeva meno intelligente, meno bravo, meno capace. Ciò condannava naturalmente l'università a rovinosa decadenza. E la storia dell'università fu in effetti sempre storia di decadenza rovinosa: c'è bisogno di esempi?
Come mai, tuttavia, nella sua secolare vicenda, giunta comunque da tempo al suo termine, l'istituzione universitaria riuscì a sopravvivere e le riuscì talvolta di dare persino qualche buona prova di sé? Presto detto.
Da maestro a scolaro più scemo, poi maestro di scolaro più scemo, poi maestro di scolaro più scemo e così via, si giungeva a un livello di scemenza tale da non consentire al suo titolare nemmeno di rendersi conto di scegliere come scolaro e successore uno meno scemo di lui. E il ciclo poteva così ricominciare.
Come si comprende, per la sua lucidità, il relitto culturale è prezioso. Riferendolo, Apollonio ne elegge a gelosi custodi i suoi pochi lettori. E confida loro ciò che, tra il compiacimento di chi enunciava la teoria e le risate complici dei commensali, a lui apparve chiaro già quella sera di estremi riflessi di ormai quasi spenti bagliori, mentre ruminava silenzioso altre osservazioni ed integrazioni, di cui magari un'altra volta dirà.
Della catena evolutiva accademica, concluse, i più benemeriti dunque furono sempre i più scemi, coloro la cui idiozia fu tanto grande da interrompere il declino cui invece i meno scemi davano il loro continuo fattivo contributo.
Paradosso? Ma cosa non è paradosso nel mondo? E, per l'intelligenza della storia calamitosa dell'istruzione superiore dell'Occidente moderno, un paradosso è incomparabilmente più efficace delle tartufesche invocazioni al merito e all'eccellenza dei presenti e altrimenti calamitosi tempi post-accademici.
3 novembre 2008
Lingua loro (9): "barone"
Dopo quaranta anni, “barone” torna a risuonare forte: designa spregiativamente chi ha raggiunto nelle università italiane il gradino più alto nella funzione di docente.
Non lo fa nell'isolato titolo di un articolo giornalistico dedicato a presunte circoscritte malefatte di un “barone”: per persistente endemia, così è di tanto in tanto accaduto negli ultimi quaranta anni.
Come allora, lo fa invece in modo generale, virulento ed epidemico e serve a indicare un'intera categoria professionale, tra i ranghi della quale si conta ovviamente la stessa percentuale di imbecilli e di lestofanti che si conta in ogni altra, dai ciabattini ai poeti laureati.
La malefatta dei “baroni” è nuovamente assoluta. Consiste nella loro stessa esistenza. Vanno tolti di mezzo. E i luoghi dove si annidano vanno bonificati.
C'è tuttavia una differenza rispetto a quel passato. Stavolta “baroni” non ricorre sulle bocche e negli striscioni dei “sovversivi”, sospettati anzi di essere oggi in combutta coi “baroni”. Ricorre nell'espressione di rappresentanti del potere politico-mediatico. È sufficiente aprire un giornale e accendere la TV per averne prova: “Basta con i baroni”, gridano in coro.
L'illusione lessicale ci fa ritenere una parola sempre eguale a se stessa. Si concede al massimo che cambi nei tempi lunghi della storia e quaranta anni potrebbero essere un'inezia. Ma non è così. Una parola cambia invece anche istante dopo istante, in funzione del discorso in cui sta e di chi se ne sta servendo.
Un vice-ministro, un esponente del governo-ombra, il direttore di un telegiornale che, nella loro espressione pubblica, si riferiscono a chi ha raggiunto il gradino più alto nella funzione di docente chiamandolo “barone” dicono una cosa completamente diversa da quella che direbbe al megafono un redivivo studente sovversivo, se adoperasse la stessa parola incitando i suoi compagni di studio a una manifestazione di piazza.
Sulla bocca di chi ha potere, sulla bocca di chi serve il potere e usa demagogicamente “barone” con derisorio spregio, la parola rischia di tornare, come per incanto, ai suoi fasti etimologici. Invisa a imbecilli e lestofanti, comunque mascherati e a qualsiasi categoria appartengano, rischia insomma di tornare a valere semplicemente 'uomo libero'.
Non lo fa nell'isolato titolo di un articolo giornalistico dedicato a presunte circoscritte malefatte di un “barone”: per persistente endemia, così è di tanto in tanto accaduto negli ultimi quaranta anni.
Come allora, lo fa invece in modo generale, virulento ed epidemico e serve a indicare un'intera categoria professionale, tra i ranghi della quale si conta ovviamente la stessa percentuale di imbecilli e di lestofanti che si conta in ogni altra, dai ciabattini ai poeti laureati.
La malefatta dei “baroni” è nuovamente assoluta. Consiste nella loro stessa esistenza. Vanno tolti di mezzo. E i luoghi dove si annidano vanno bonificati.
C'è tuttavia una differenza rispetto a quel passato. Stavolta “baroni” non ricorre sulle bocche e negli striscioni dei “sovversivi”, sospettati anzi di essere oggi in combutta coi “baroni”. Ricorre nell'espressione di rappresentanti del potere politico-mediatico. È sufficiente aprire un giornale e accendere la TV per averne prova: “Basta con i baroni”, gridano in coro.
L'illusione lessicale ci fa ritenere una parola sempre eguale a se stessa. Si concede al massimo che cambi nei tempi lunghi della storia e quaranta anni potrebbero essere un'inezia. Ma non è così. Una parola cambia invece anche istante dopo istante, in funzione del discorso in cui sta e di chi se ne sta servendo.
Un vice-ministro, un esponente del governo-ombra, il direttore di un telegiornale che, nella loro espressione pubblica, si riferiscono a chi ha raggiunto il gradino più alto nella funzione di docente chiamandolo “barone” dicono una cosa completamente diversa da quella che direbbe al megafono un redivivo studente sovversivo, se adoperasse la stessa parola incitando i suoi compagni di studio a una manifestazione di piazza.
Sulla bocca di chi ha potere, sulla bocca di chi serve il potere e usa demagogicamente “barone” con derisorio spregio, la parola rischia di tornare, come per incanto, ai suoi fasti etimologici. Invisa a imbecilli e lestofanti, comunque mascherati e a qualsiasi categoria appartengano, rischia insomma di tornare a valere semplicemente 'uomo libero'.
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