29 agosto 2012

Modesto apologo sul merito



Per chi ti manda a morte, ha ovviamente gran merito il boia che fa bene il mestiere per cui lo si paga. E, se ci pensi per il momento che ti resta, un buon boia ha merito anche per te, nella suprema circostanza.
Ciò non significa tuttavia che il merito assoluto esista o che tu e chi ti manda a morte condividiate, in proposito, lo stesso punto di vista.

27 agosto 2012

A frusto a frusto (28)






Aria da santarellina ma che deliziosa impenitente scavezzacollo, l'oggettività! Non ho ancora conosciuto una sola persona con cui non se la faccia.

26 agosto 2012

A frusto a frusto (27)






Dai veleni delle metafore, forse ti salverà, per sineddoche, l'antidoto di un'allegoria.

25 agosto 2012

24 agosto 2012

A frusto a frusto (25)



Dire, in breve, qualcosa: perché dire il tutto non è mai possibile o perché sempre lo è dire il niente?

23 agosto 2012

Tweet: tempo, scrittura breve, evidenza, fenomeno

"Non ho il tempo di scriverti una lettera breve; te ne scriverò, di conseguenza, una lunga".
Suona più o meno così una delle più celebri acutezze sul rapporto tra tempi di composizione e esiti (solo quantitativi?) della scrittura. Apollonio, che non ricorda dove l'ha incontrata per la prima volta, non ha voglia (o non ha tempo?) di precisarne la forma e di darle l'esatta attribuzione (ammesso che un'esatta attribuzione ne sia possibile) che forse basterebbe, in tutta brevità, a commentarla. È del resto evidente che per scriver breve avere molto tempo è indispensabile e l'evidenza non necessita di commenti.
Fino al momento in cui, però, un'evidenza non rischia di confondersi con un fenomeno, che è anch'esso evidente (altrimenti che fenomeno sarebbe?) ma come è evidente un maquillage. E ciò che rende conto di un maquillage e lo rende sistematicamente comprensibile è anche, se non soprattutto, ciò che esso camuffa e nasconde, non ciò che, onestamente, palesa.
Sulla difficile distinzione tra evidenza e fenomeno, del resto, marciano da sempre (e felicemente) le complementari attitudini umane, da una parte, al malinteso, all'errore, all'essere gabbati e, dall'altra, all'agguato, alla truffa e all'imbroglio: attitudine, la seconda, sempre più simpatica della prima, oltre che di maggior merito e, di conseguenza, accompagnata di norma dal successo e socialmente premiata.
Ebbene, nell'espressione e nella comunicazione d'oggidì, la brevità regna sovrana. E dove non regna, si dice dovrebbe farlo.
A credere con ingenuità alla nuda verità della ricordata acutezza, la presente brevità dovrebbe essere allora indice d'elezione di sterminata disponibilità di tempo, da parte di chi procura di esprimersi e di comunicare nelle relative guise. E d'un caldo e pensoso invito, da parte di chi la raccomanda o la prescrive ad altri, a godersi il tempo necessario a essere espressivamente e comunicativamente brevi.
Ma, cari i cinque lettori di Apollonio, ci si guardi un momento negli occhi: chi è così gonzo da crederci? Bastasse l'esibito limite dei 140 caratteri ad assicurare a un'espressione la brevità! Si può essere prolissi anche dicendo una sola parola e talvolta, ma più di rado e certo augurabilmente, anche tacendo.
L'attuale dilagare della brevità è dunque un fenomeno. Esso si confonde con la nuda evidenza della brevità autentica, rendendola difficilmente distinguibile.
Oggi, l'apparente brevità non è infatti frutto né testimonianza di libera disponibilità del tempo ma di una sua cruda e servile mancanza. Non della lunga ricerca di rispetto della sacralità del limite ma della coazione a dire e a scrivere illimitatamente, in poche parole e senza stare a rifletterci nemmeno un attimo, qualsiasi sciocchezza.
Il testo reale che ne viene non si fa breve ipotesi degli stretti confini che qualificano la faticosa aspirazione a una perfetta incompiutezza. Di conseguenza, esso non solo non è breve (e si spaccia soltanto dolosamente come tale) ma è di stucchevole prolissità.
Come, ragionevolmente, il presente.

2 agosto 2012

Popper, la lingua e la mente

Esce in versione italiana (e sotto forma di libretto) Three Worlds di Karl Popper, testimonianza divulgativa che alla fine degli anni Settanta del secolo scorso, per un pubblico americano, il filosofo viennese diede della finezza grossolana e generosa del suo pensiero. Forse più chiaramente d'altre, essa mostra come la riflessione popperiana si attesti proprio sulla soglia della lingua. O, piuttosto, vi si arresti, per mancanza di strumenti di sperimentazione e di comprensione che, senza iattanza, il linguista potrebbe pure dire elementari: si vedano, in proposito, i ripetuti e cruciali appelli argomentativi a un fantasioso "contenuto" o le approssimazioni e i luoghi comuni con cui ci si accosta a più riprese al problema della "traduzione".
Tra i tanti passaggi meritevoli di commento (e talvolta di adesione), Apollonio vuole però attirare l'attenzione dei suoi cinque lettori sul seguente, posto nei pressi dell'esordio: "Per Mondo 3 intendo il mondo dei prodotti della mente umana, come i linguaggi [ovviamente languages, in originale, che in italiano si sarebbe reso forse meglio con lingue], i racconti, le storie e i miti religiosi; o ancora, le congetture e le teorie scientifiche, e le costruzioni matematiche; oppure le canzoni e le sinfonie, i dipinti e le sculture. Ma persino gli aeroplani e gli aeroporti, o altre prodezze ingegneristiche". 
La panoplia è d'effetto e ispira certo molta simpatia per la sua scanzonata serietà, tratto caratteristico del resto della prosa popperiana, che a qualcuno può dare ai nervi, a qualcuno può piacere. 
Nella costituzione del dominio sperimentale relativo al Mondo 3, di cui Popper si proponeva, nel lavoro, di argomentare l'esistenza, essa mette però nel medesimo mucchio ciò che nessuno dubiterebbe siano "prodotti della mente umana" (come gli aeroporti e le sinfonie) e ciò che rende tutto il resto possibile e identifica la mente umana medesima (ammesso che una mente umana esista): le lingue e ciò di cui esse sono storicamente funzione, la lingua. 
In modo falsificabile, chi potrebbe infatti affermare che, della mente umana, la lingua sia un prodotto? Ne è forse la forma, ma nel valore che a forma attribuiva Wilhelm von Humboldt: ciò che alla mente umana (si ribadisce, ammesso che essa esista) dà forma.

1 agosto 2012

Ulisse, Drago africano e i mercati

Sui mezzi di comunicazione italiani imperversa e rumoreggia una coppia onomastica. Ne è arrivata un'eco anche nella lontana e silenziosa Citera di Apollonio, che si è affrettato a mettere in opera, all'uopo e per averne contezza, un motore di ricerca, con risultati, prima che imponenti, "da spavento" (la citazione è letterale). 
Ulisse segue, nell'ordine, Scipione, Caronte e Minosse. Il Drago africano, anche nella variante priva dell'articolo determinativo Drago africano (che fa ancora di più nome proprio), si affaccia invece per la prima volta sullo scenario delle bibliche calamità che impongono agli abitanti della penisola e delle isole le inenarrabili sofferenze della calura. D'agosto, per giunta!
C'erano un dì, nell'effimero tempo moderno dell'aspirazione a una risibile razionalità, le alte pressioni estive e i venti da Sud. Era l'epoca di ferro d'una disumana freddezza, in cui anche del vaticinio meteorologico si pretendeva di fare una prassi sperimentale, se non scientifica. Era il tempo dei bollettini, in cui, al massimo, si azzardava, d'agosto, un pudico solleone (parola ormai desueta) e in cui le presunte cose comuni si designavano con banali nomi comuni. Così, anzitutto, sui mezzi di informazione, risentiti campioni dell'empito della conquista di una calma razionalità, di una precisione espressiva. L'informazione e la sua lucida intelligenza dei fatti erano anzi abbagliante bandiera agitata in faccia ai cosiddetti oscurantismi animistici dei miti, delle fedi, delle religioni, al personalismo, ritenuto fuorviante, falso e perverso, di ogni ancien régime.
Quell'evo gelido e senza cuore s'è finalmente chiuso. Quella glaciazione dei sentimenti e delle passioni climatiche è terminata. Il vaticinio, anzi, il bollettino meteorologico è tornato ciò che deve essere: profezia. Preferibilmente, di sventura. Ora tutto è caldo. È già caldo quando fa freddo. Ci si figuri com'è caldo quando fa caldo. Nel calore, nomi propri e antonomasie riconquistano il loro grande potere rivelatore ed evocativo. Riconquistano così ciò che loro è dovuto: il primo piano. A infliggere il tormento di torridi raggi di sole alle contrade italiane, dopo Scipione, Caronte e Minosse (queste due ultime, peraltro, creature dantescamente infernali), sarà l'implacabile, mille volte maledetto Ulisse, l'Anticiclone, che già a dirlo, quasi fosse l'Anticristo, fa paura. Egli sguinzaglierà per sopraggiunta, come vento, la sua bestia immonda e dal fiato rovente: Drago africano. 
Tra le fiamme di tale inferno, Italiani, battete i denti e tremate (considerata anche la temperatura cui certamente regolerete i vostri condizionatori d'aria)!
Sullo sfondo, per fortuna, l'evolversi impersonale, imperturbabile e grandioso dei mercati (nome comune: mai nessuno, con nome proprio, cui poter lanciare un sentito e sonoro "figlio di..."). La loro osservazione è consolatrice delle ambasce climatiche, come può essere la serena osservazione d'ogni fatto della natura autentica, cui l'uomo e anche le nazioni devono arrendersi, ammirandone, anche se sofferenti, l'imperscrutabile disegno.