20 aprile 2012

"Che tempo che fa"

Se suonasse banalmente come Che tempo fa (così si chiama la tradizionale rubrica televisiva d'informazione meteorologica) ci sarebbero pochi dubbi. Quanto a modalità enunciativa, l'espressione sarebbe con naturalezza un'interrogativa. Suona però Che tempo che fa. Ed è a questo punto forse il caso d'essere più chiari.  
Forse solo perché Che tempo fa risultava (come s'è detto) già impegnato, Che tempo che fa è divenuto il nome della trasmissione che, sulle frequenze della Rete 3 della televisione pubblica italiana e condotta da Fabio Fazio, è destinata alla promozione di prodotti della cosiddetta industria culturale: apertamente e, come programma di cruda propaganda, con parecchio sussiego, malgrado le apparenze. Il sussiego delle intraprese che pretendono, per principio, di stare dalla parte giusta e moralmente commendevole e non hanno quindi la leggerezza maliziosa e l'ammiccante ironia che aveva, come gli  imbrogli fatti con onestà e purezza d'animo, il vecchio Carosello, per tale ragione fruibile senza danni anche dai bambini, come non è appunto il caso di Che tempo che fa.
Dopo un breve fervorino meteorologico e col pretesto di interviste in studio, vi si pubblicizzano in effetti film, concerti, libri, buoni sentimenti, indignazioni, idee ricevute, sottises e, soprattutto, le persone che, come caratteri di Teofrasto, incarnano tutto ciò: il magistrato coraggioso e preoccupato, lo scrittore di denuncia, il serissimo attor comico,  il musicista di grido, l'ironico patriarca delle lettere, il politico à la page, la soubrette popolare e pur raffinata, il tenore di tutti i palcoscenici, il cantante meditativo, la giornalista di successo, l'intellettuale post-moderno, il teologo benevolmente inquietante, l'elegante e colto regista e così via. In genere, si tratta appunto di maschere, atte a definire come stereotipi i personaggi di una commedia culturale replicata continuamente su quelle tavole (i ritorni sono la regola, infatti) e per un numero considerevole di spettatori.
Che tempo che fa, come nome della trasmissione, sarà pure stato effetto del caso: poche cose al mondo, tuttavia, sono più loquaci del caso. Qual è allora la modalità enunciativa che gli è sottesa? Per gettare luce sulla natura del programma e sulle ragioni del suo successo, darsi una risposta crudamente grammaticale quanto al suo emblema potrebbe forse valere più di considerazioni d'ordine comunicativo, sociologico o politico-ideologico.
Pur se ricorre senza specifici segni d'interpunzione, Che tempo che fa si presenta immediato allo spirito come esempio d'espressione esclamativa. Dotandolo, nell'orale, di opportuna intonazione, lo si può adeguatamente proferire come lamentazione, se il tempo che fa non è gradito all'enunciatore, o come manifestazione di giubilo, se il tempo che fa gli ispira letizia.
Ora, se un'interrogativa porta lo stigma della ricerca e pone il problema di una relazione con gli altri e, seppure in modo mediato, con il mondo, un'esclamativa è crucialmente centrata su chi la proferisce:  lagna, espressione di afflizione, d'indignazione, di godimento, di gioia. Un'esclamazione, insomma, parla quasi esclusivamente di chi la esclama: tema non ne è il tempo (tanto meno quello che fa) ma lo stato dell'io di chi dice Che tempo che fa.
Ecco allora che, al di là del suo manifesto intento commerciale, si rivela l'essenza strutturale e costitutiva del programma Che tempo che fa e la ragione del suo successo. 
Proponendosi come modello espressivo e comunicativo e proponendo il suo conduttore come prototipo dell'esemplare umano che passa il tempo, in proposito, a proferire in apparenza garbate, garbatissime esclamazioni, Che tempo che fa fornisce ai suoi spettatori pretesti vendibili e acquistabili per dire di sé e far così sapere (anzitutto a se stessi) di esistere.
Come? Esclamando qualcosa: "Oh che bel libro! Ma che scandalo! Un film da non perdere! Quale sconcezza! Ma che coraggio! Vergogna! Da non crederci! Guarda, ne son disgustato! Ah, che piacere! Che ridere! Posso solo dire d'essere indignato! Che donna meravigliosa! Un concerto memorabile! Che uomo interessante! Una voce unica! Che tempo che fa!".
Sì, appunto: santo cielo, che tempo che fa...

18 aprile 2012

Vocabol'aria (4bis): "Punto Nascita", ancora

Due crude note a margine dell'inezia cui è stato consacrato un frustolo di qualche giorno fa, con una coda di amabile memoria, per Apollonio medesimo, inattesa.
Prima nota. Se ci si pensa un momento, protestare contro la chiusura di un Punto Nascita, avendo accettato che i Reparti Maternità degli ospedali diventassero appunto, per designazione, dei Punti Nascita, ha poco senso o, ammesso che ne abbia uno di testimonianza, dovrebbe essere fatto almeno con la consapevolezza che la partita, sui Punti Nascita, è stata in effetti già regolata nel momento stesso in cui, linguisticamente (e quindi ideologicamente), si è preso a chiamare Punti Nascita i Reparti Maternità. 
Se qualcosa è un Punto Nascita, se ne discuterà operativamente come si discute di un Punto Vendita: la logica sarà economica e il resto sarà tenuto per chiacchiera e ammesso all'eventuale considerazione solo per concessione. E magari sarà giusto che un Punto Nascita sia chiuso, perché i fatti sono i fatti, si dirà. Apollonio non lo nega (e come potrebbe? Sulla base di quali competenze?). Vuole solo ricordare però che è a partire dalle parole che si usano per parlare dei fatti che i fatti diventano pertinenti. Se, al tavolo della discussione, insomma, la questione è sui Punti Nascita chi, in proposito, ha una visione che non privilegia il cosiddetto dato economico parte in svantaggio, nuota contro la corrente e, in sostanza, ha già perduto. 
Seconda nota. "Che bella creatura! In quale Punto Nascita l'hai avuta?". Per un bimbo, per una bimba, venire oggi alla luce in un Punto Nascita, ovviamente in uno di quelli che sono stati finora esclusi dalla chiusura, potrebbe essere come venire alla luce in un Punto Vendita, dal punto di vista delle analogie linguistiche e ideologiche.
Si mena sacrosanto scandalo della compravendita dei bambini ma, al di là dei fatti criminosi, la spia della lingua dice che c'è da interrogarsi, in proposito, in modo più generale e fuori della facile indignazione che provoca appunto il crimine. I bambini che nascono e nasceranno in un Punto Nascita non saranno per caso e in qualche modo comperati, come abiti in un Punto Vendita? Non porteranno, dalla loro nascita, lo stigma economico riflesso, come un'ideologia totalitaria e unidimensionale, dalla lingua della società in cui sarà capitato loro di cadere?
Ed è qui che la memoria, involontaria, di parole apparentemente apparentate d'altri tempi (e nemmeno troppo lontani) colpisce Apollonio, portandolo su altre strade e intenerendolo. 
Quando capitava che il tema del discorso fosse un parto e ci si rivolgeva ai bambini o bambini erano presenti, sulle labbra di adulti siciliani (come erano appunto i genitori d'Apollonio) appariva, per eufemismo, il verbo accattari: lo testimonia ancora, alla voce, il Dizionario siciliano di Giorgio Piccitto. Ove richiesto dal contesto comunicativo, accattari diventava comprare, nell'italiano regionale. 
Apollonio bambino sentiva così parlare di zie che (avendo partorito) avevano appena "accattatu", cioè 'comprato', un cuginetto. E sentiva parlare di sé medesimo, da sua madre, con giri come "quando ti ho comprato...".
L'espressione, insomma, come la vita: per le vie analogiche ma sempre sistematiche della comprensione della società e del tempo, dal disgusto, talvolta, all'insperata delizia. Amarla (ma contegnosamente?) non delude. Forse.

12 aprile 2012

"Rimontiamo"

"Rimontiamo": è trascorso un po' di tempo e, forse, adesso se ne può parlare, con più calma. 
L'anacronismo è del resto un tratto di questo blog e del suo improbabile animatore, sin dal nome medesimo. Ad Apollonio è capitato di reagire a caldo a qualche fatto del giorno: imperdonabilmente. In quei casi, infatti, si è ingigantito in lui il sentimento (che l'accompagna sempre, a dire il vero: anche in questo momento) d'avere perso un'ottima occasione di tacere, per colpevole indulgenza verso le pieghe più ignobili della sua indole. Ma il peggio di ciascuno (come si è talvolta ricordato) è forse la sola cosa umana incoercibile: prima o poi, comunque lo si mascheri e qualsiasi mezzo si usi per reprimerlo, viene ineluttabilmente a galla.
"Rimontiamo", allora. Con felice anagramma, ora sono alcuni mesi, fu prontamente illustrato così da Stefano Bartezzaghi l'atteso arrivo del professor Mario Monti alla Presidenza del Consiglio dei ministri. 
Sui mezzi di comunicazione, l'eco fu immediata e universale e finì per colpire anche l'orecchio di Apollonio, che, nella sua amara Citera, ne restò ammirato, come tutti. Cominciò poi, però e com'è sua abitudine (o vizio?), a considerare quel prodotto linguistico dell'ingegno con l'attenzione che la lingua domanda sempre: sotto ogni forma essa si presenti.
Osservò allora che, manipolando l'ordine delle lettere di un nome proprio, con "Rimontiamo" e nella sua icastica concisione, veniva appunto fuori una proposizione, con un soggetto, e, al tempo stesso, una frase, con un enunciatore. 
L'individuazione del soggetto di "Rimontiamo" non poneva e non pone problemi. È un pronome di prima persona plurale ('noi') che qualcuno potrebbe dire tacito solo fingendo di non vedere che esso è presente non solo concettualmente ma anche formalmente, per via dell'univoca desinenza verbale.
Le cose stavano e stanno diversamente quanto all'enunciatore. L'anagramma resta in proposito indeterminato. Apollonio non nasconde peraltro ai suoi due lettori che, a suo parere, gran parte della sapidezza della trovata ludica sta proprio in tale nebulosa indeterminatezza. Adoperando un 'noi',  chi proferisce "Rimontiamo"? E, a questo punto, il 'noi' che l'enunciatore proferisce è un 'noi' inclusivo o non-inclusivo? È un 'noi' che coinvolge o esclude coloro cui la parola è destinata come interlocutori?
Apollonio lo sa: l'entusiasmo di quei momenti, l'euforia che sempre s'accompagna al cambiamento (o a ciò che pare tale) non permettevano dubbi analitici del genere e escludevano che la lama della critica entrasse in simili dettagli dell'espressione.
Spinta con forza dagli organi di stampa e dalla loro naturale tendenza a praticare e a incoraggiare l'ottusità, all'animo di tutti si imponeva l'interpretazione all'epoca trattata come unica. Secondo tale interpretazione, a proferire quel "Rimontiamo", comprendendosi nel 'noi', sarebbe stata l'intera comunità nazionale italiana, una voce. Come si sa, precedenti vicende politiche l'avevano infatti avviata al declino. Con quel "Rimontiamo", essa avrebbe dunque dato segno di star provando a risalire la china, tutta insieme.
Almeno un'altra interpretazione era però già allora possibile e naturale. Che a proferire quel "Rimontiamo" fosse invece qualche segmento ben orientato dell'eterna classe dirigente italiana, una parte precisa anche se indefinita e forse indefinibile secondo stretti parametri politici, perché tendente  ideologicamente alla rappresentanza del tutto. Una parte che, rimasta apparentemente nell'ombra e nelle seconde file per qualche tempo, si stesse appunto ripresentando, con altre facce, negli alti luoghi del potere che aveva per tradizione frequentato. Che, insomma e detto da qualcuno, "Rimontiamo" valesse semplicemente 'Guardate, voi che restate giù, che noi stiamo tornando su'.
Di politica, lo ha già detto, Apollonio non capisce un'acca. Ha forte però l'ingenuo dubbio che, passati gli entusiasmi, stia diventando sempre più problematico capire come vada appunto letto quel "Rimontiamo", trovato dalla penna acuta di un sodale anagrammista come celata chiave interpretativa di un'ennesima fase nebulosa della vita nazionale.

1 aprile 2012

Ma

Muore d'improvviso (evento doloroso che non lascia insensibile Apollonio) un importante studioso italiano dei fenomeni dell'arte e della comunicazione. La notizia compare sull'edizione on-line del più autorevole organo di stampa italiano: "Insegnava a Siena, ma aveva tenuto lezioni a Parigi, Harvard, Yale e Barcellona", vi si legge. Non "Insegnava a Siena e aveva tenuto lezioni a Parigi...", bensì "Insegnava a Siena, ma aveva tenuto lezioni a Parigi...".
Erano gli inizi degli anni Settanta del secolo scorso. A occhio e croce, gli anni della formazione dello studioso appena scomparso. George e Robin Lakoff erano nella pattuglia di giovani scavezzacollo americani che, appena usciti da tesi di dottorato ispirate al credo chomskiano, si stavano gettando in avventure intellettuali e parascientifiche (come la cosiddetta semantica generativa) presto scomunicate dal maestro. Era il tempo del primo mandato, come presidente degli Stati Uniti d'America, del repubblicano Richard Nixon. Si sa come poi finì il secondo. E appunto Robin Lakoff si serviva dell'esempio John is a Republican but he's honest, preso in prestito dal marito, per illustrare, in uno studio divenuto rapidamente celebre tra i linguisti, un valore della "congiunzione avversativa" but. Un valore parallelo, nel caso specifico, a quello dell'italiano ma.  
A muoversi sul livello denotativo e dell'esplicitamente detto, osservava Robin Lakoff, non c'è niente in onesto che avversi repubblicano. Se si resta su tale livello, non si capisce di conseguenza cosa ci stia a fare quel ma. Per intenderlo, avrebbe aggiunto pochi anni dopo anche il francese Oswald Ducrot, ragionando sulla scorta dei Lakoff, bisogna entrare in un livello discorsivo implicito. Chi parla si serve del ma per bloccare la conclusione che dalle sue prime parole potrebbe trarre il suo interlocutore. Apprendendo che "John è un repubblicano" e supponendo che i repubblicani siano disonesti, questi potrebbe inferirne che anche John è disonesto. Il ma ferma l'inferenza. Salva John ma, con sottile e implicita malignità, condanna complessivamente i repubblicani. Dire John is a Republican but he's honest significa allora lasciare intendere che i repubblicani sono disonesti, facendo di questo non-detto una necessaria premessa e, al tempo stesso, una naturale conclusione di quanto si è detto.
Muore un importante studioso italiano dei fenomeni dell'arte e della comunicazione. "Insegnava a Siena, ma aveva tenuto lezioni a Parigi, Harvard, Yale e Barcellona". Cogliere allora consapevolmente su quale premessa galleggi e quale conclusione autorizzi una frase del genere, per via di quel ma, significa avere sensibile percezione dell'autolesionistico giudizio che la cosiddetta opinione pubblica italiana propala ogni giorno tra i suoi lettori a proposito degli istituti nazionali di istruzione superiore. 
Insegnare a Siena (non ne vogliano ad Apollonio i docenti di quell'illustre università, se prova a rendere esplicito l'implicito che sostiene quel ma) pare essere, per la stampa italiana, quasi un demerito e, certo, non un gran merito. Per illustrare la figura del compianto defunto, c'è da evocare, grazie al cielo, qualche forestiera, favolosa e lontana mecca del sapere, che blocchi l'inferenza di pochezza. 
Insomma, muore un importante studioso italiano e, sulla stampa, testimone la lingua, viene a galla la faccetta di un sempre fiammeggiante complesso d'inferiorità nazionale, come manifestazione di persistente provincialismo.