Era chiaro che a Noam Chomsky, prima o poi, dovesse succedere, come effetto del trapasso dal Moderno ultra-maturo all'attuale e completamente putrefatto (trapasso cui peraltro egli medesimo ha contribuito, dal 1956, con le sue idee e, a partire dal decennio successivo, con la sua immagine pubblica di intellettuale).
In coro, ha cominciato a parlare male di lui gente che, di ciò che il linguista americano pensa e ha fatto, non capisce nulla e, se ne parla male, ne parla male senza capire perché; o meglio, semplicemente perché pensa di mettersi così tra le prime schiere di un tendenziale andazzo.
Nei decenni trascorsi, del resto, non pochi dei suoi estimatori (linguisti inclusi) erano completamente inconsapevoli di ciò che facevano e, anche loro, seguivano un andazzo, con la trasparente ingenuità che fa sempre la fortuna dei furbi.
Chomsky paga oggi qualcosa di quel facile consenso con gli accenni di un'irrisione maramalda e altrettanto facile.
Facili nemici si raccolgono infatti intorno al simulacro dell'allievo geniale e malandrino di Zellig Harris, dell'ultimo erede del legato metodologico di Leonard Bloomfield (da lui, a parole, proditoriamente rinnegato). Apollonio non li tiene per amici, sappiano i suoi due lettori. E fosse chiamato a decidere con chi stare, l'errore di Chomsky, dei suoi libri, del suo impegno di linguista gli pare incomparabilmente più nobile, come sfida all'intelligenza, della loro montante nullità. Contro le idee di Chomsky si poteva, anzi si doveva argomentare. Leggendo le parole dei suoi attuali detrattori si possono solo allargare le braccia.