Ultimo alberga, lo si sa, un'anima da superlativo. Come l'albergherebbe estremo. L'anima superlativa di estremo si è però fatta fantasmatica, nella coscienza di un gran numero di parlanti e di scriventi.
Sulle labbra o sotto le penne di costoro capita di cogliere, si ponga, un "più estremo". Per esempio, in una sorta di "coccodrillo", presente nell'archivio di una gazzetta qualsiasi e caduto per tale ragione nella rete di un'estemporanea interrogazione di Apollonio, si legge: "Famosi i suoi j'accuse. E l'ultimo, e forse il più estremo, è della fine di settembre".
A chi correlativamente storce il muso, il giornalista potrebbe sempre opporre una ricorrenza comparabile nei Promessi sposi: "Finalmente, altri casi, più generali, più forti, più estremi, arrivarono anche fino a loro, fino agli infimi tra loro, secondo la scala del mondo".
All'ombra del fallo (eventuale) di una tale autorità, falli al séguito, com'è appena il caso di dire, smettono di apparire tali. E nessuno, ancor meno Apollonio, si scandalizzerà di conseguenza della loro circolazione "a bischero sciolto".
L'anima superlativa di ultimo è al contrario ancora ben viva e, dal culmine che occupa (superlativa, appunto), oppone fiera resistenza a chi volesse gettare ultimo giù dalle scale, come si è fatto con estremo, oggi ridotto a qualificare un più o un meno e non più un'acme.
In effetti, anche a chi propala più estremo, suppone Apollonio (speranzoso), più ultimo suonerà ancora stridente, al limite della sopportazione. Mai dire mai, tuttavia, nelle vicende linguistiche, né qualificarle come estreme. Alle orecchie di un Cicerone, fantasiosamente di nuovo mondane, espressioni che passano (e non da tempo) come banali parrebbero testimonianze inoppugnabili di un'estrema perdita della ragione.
Ma tout passe, tout casse, tout lasse e, miracolosamente, la lingua resta sempre la lingua. Malgrado a parlarla siano gli esseri umani, ci sarebbe da dire, e non per celia. Ci provano di continuo, gli esseri umani, a ridurre alla loro misura, infima, tutto ciò che hanno ricevuto in prestito momentaneo (la vita, la lingua...). Ma, costretti come sono nei loro limiti, non ne hanno evidentemente la facoltà.
Giunti come si è a riflettere sopra ciò che è momentaneo (quindi, umano), una nota ulteriore sopra ultimo capita allora a fagiolo. "La luna e i falò è l'ultimo romanzo di Cesare Pavese": ineccepibile. E ineccepibilmente, nella nota bio-bibliografica che avrebbe dovuto corredare uno scrittarello del suo alter ego, Apollonio vede comparire un "Fare nomi è il suo ultimo libro".
Con i suoi usi ineccepibili, ultimo fa appunto simili scherzi e tutte le volte che lo si intende o lo si legge applicato a quanto ha fatto un essere umano, se non lo si sa per altre vie, bisogna che ci si chieda se è ultimo per sempre o ultimo, al Cielo piacendo, solo momentaneamente. Se è un ultimo perfetto o un ultimo che si immagina ancora imperfetto, quindi in attesa di (eventuale) falsificazione e di farsi penultimo, terzultimo...
Insomma e per concludere con l'aneddoto, dopo essersi concesso pratiche apotropaiche delle quali non sarebbe elegante procurare né qui né altrove una descrizione, con calda approvazione di Apollonio, l'alter ego ha proposto per quella bisogna (e, spera, non come ultima o estrema volontà) una formula meno impegnativa, ma non per tale ragione meno veritiera: "Fare nomi è il suo libro più recente". Cambia poco ma, quando niente, un'espressione neutra. Forse un po' più bene augurante. In attesa che, riferito se possibile ad altro, il più recente diventi un giorno ineluttabilmente l'ultimo o l'estremo senza più.
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