Il cast di un film è un segnale (commerciale) - è appena il caso di ricordarlo. Come funzionerebbe altrimenti, anche nel piccolo, lo show biz? Fra le altre cose e al pari di altri aspetti (o forse meglio), esso dice come l'opera si indirizzerà e apparirà al pubblico e alla critica, perlomeno nelle intenzioni di chi l'ha ideata e si propone di dirigerla, ma soprattutto in quelle di chi la produce e cerca interpreti che riscaldino il botteghino.
Al riguardo, Iddu - L'ultimo padrino è esemplare (iddu vale 'lui', in siciliano, con pronuncia retroflessa della doppia dentale sonora). Ne sono registi e sceneggiatori i due volenterosi Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, certo non notissimi né presenti al pubblico come autori di pellicole memorabili. Ma, nel loro film, ruoli del massimo rilievo sono coperti da Toni Servillo, Daniela Marra, Barbora Bobuľová, Fausto Russo Alesi e, come iddu, Elio Germano. Di quest'ultimo, romano, va subito lodata la cura nella dizione: non il solito siciliano cinematografico e televisivo, ma, con tocco realistico, una parlata accettabilmente prossima ai modi che siciliano e italiano regionale prendono nell'estremo lembo sud-occidentale dell'isola.
Nell'insieme, si tratta di attrici e di attori cui, da qualche anno, il cinema italiano che si vuole d'autore fa appello di norma, se non proprio a rigore. Variamente suddivisi e suddivise, hanno in effetti recitato in film di Bellocchio, Moretti, Sorrentino, Garrone, Martone, Salvatores, Guadagnino, per fare qualche nome di spicco. Non solo nei film di costoro, ovviamente, ma si può dire che, per qualche regista (laureato), c'è in quell'elenco chi rappresenta l'interprete per eccellenza.
Con un cast del genere, Iddu è uscito indubbiamente nelle sale come un film d'autore. Anzi d'autori, visto che, come si è detto, di sceneggiatori e registi, ne ha due. Alla qualificazione contribuisce poi il soggetto, liberamente ispirato a o, per dire meglio, allusivo di una figura e di una vicenda di appena perenta attualità. Ne sono state piene in effetti le cronache giornalistiche.
Il personaggio che tanto nel titolo, quanto qui e là nella sceneggiatura, viene designato per estrema antonomasia con iddu (oltre che, meno enfaticamente, con Matteo) si ispirerebbe infatti a quel Matteo Messina Denaro, cioè a un siciliano della provincia più occidentale dell'isola, che da una pluridecennale latitanza, vissuta quasi a casa propria, ha regolato e mandato gli affari criminali di un'impresa collettiva che, nel film, se non ci si sbaglia, non viene mai designata con un nome, per motivo di ovvia ridondanza. È in effetti di gran lunga la maggiore, tra le radicate in Sicilia, e la più nota.
Un protagonista e un tema siffatto, per conseguenza, farebbero di Iddu anche, se non soprattutto un film di impegno civile e come tale è stato di norma presentato da chi ne ha scritto. Ma non ci si figuri perciò che si abbia in proposito a che fare con qualcosa che lontanamente somigli, per fare un esempio, a un classico del genere, come Salvatore Giuliano di Francesco Rosi. Nemmeno mutatis mutandis, come imporrebbero in ogni caso i più di sessanta anni trascorsi tra una pellicola e l'altra.
Tanto realista, socialmente impegnata nella denuncia, dirompente e, a suo modo, narrativamente romanzesca fu la pellicola di Rosi, quanto lirica, intimista e intrisa di sensiblerie è Iddu. Personaggio e vicenda di cronaca fanno infatti al film da mero e lontano pretesto. Anche perché lo sviluppo narrativo, lo si volesse proiettare in qualche realtà (la siciliana inclusa), sarebbe inverosimile e fiabesco. Tetramente fiabesco, ci si intenda.
Ma i personaggi hanno caratterizzazioni stereotipe, come appunto si conviene a una fiaba cupa. E il film ha il suo nocciolo, crudo e malvagio, nel Padre, un archetipo negativo, ad affrancarsi dal quale, ancora oggi, non si riesce.
La narrazione prende appunto le mosse dalla presenza di una sorta di orco sanguinario (con rituale sacrificio di un agnello) e ne decreta immediatamente un'assenza che ha i tratti di un'incombenza morale, lacerante e non sanata.
L'archetipo ha anche il suo oggetto di valore o, forse meglio, il suo totem: un pupu (così nel film ci si riferisce a un bronzo antico allusivo del celebre Efebo di Selinunte). Continuare a possederlo o perderne il possesso non sono circostanze neutre, ovviamente.
Tra i personaggi, sempre, anche se variamente collegati al nocciolo archetipico, non mancano lo sciocco, la strega e un intrepido cavaliere che, per assecondare l'odierna tendenza culturale, è nel caso specifico di genere femminile: anch'esso o, in modo più pregnante, anch'essa ha una sorta di ambiguo padre dal quale, fino in fondo, non riesce a liberarsi.
Un tragicomico pulecenella funge da attante mobile. È l'elemento cui plot e intreccio affidano per intero la messa in moto e l'avanzare del racconto. Il personaggio, un campano in Sicilia, è disegnato sull'interprete e l'interprete, consapevole del compito da mattatore e con generosa prova di attore, finisce per gigioneggiare (come gli capita ormai spesso e stucchevolmente). Il personaggio si fa di conseguenza caricaturale.
Anche per questa ragione il film non decolla, come si dice ormai con metafora aeronautica. Appesantita dalla pretesa di essere in ogni caso una buona mimesi della realtà, l'inverosimiglianza non vi diventa fantasia. Nei dialoghi, le non rare citazioni cólte moraleggiano, più che dare un tono morale. Soprattutto, la pellicola resta asfittica, quanto alla narrazione.
Qualcuno ha scritto (e forse i registi medesimi hanno dichiarato) che, a proposito di mafia e mafiosi, un mondo asfittico e spento è proprio quanto il film si è proposto, per la prima volta, di mettere meritevolmente sul grande schermo.
Se è così, ci si può solo rammaricare di un avvenuto contagio. Come non dovrebbe appunto accadere nel prodotto di un'arte, da ciò che si è inteso rappresentare, il tratto asfittico si è trasferito ai modi e alle forme dell'opera. E il risultato è che, attirato in sala dal tema e dal cast, lo spettatore pagante ben presto comincia a sbadigliare, perché si annoia.
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