Si è poi rapidamente a conoscenza dell'esistenza di un terzo maschio, con la dettagliata menzione dell'assente Giovanni. Ma passano poche pagine e d'improvviso si coglie Fabrizio esclamare: "«Sono un uomo vigoroso ancora; e come fo ad accontentarmi di una donna che, a letto, si fa il segno della croce prima di ogni abbraccio e che, dopo, nei momenti di maggiore emozione non sa dire che: 'Gesummaria!'. Quando ci siamo sposati tutto ciò mi esaltava; ma adesso... sette figli ho avuto con lei, sette; e non ho mai visto il suo ombelico. E' giusto questo?»".
Sette figli? Tra coloro che non hanno bellamente trascurato il dettaglio, non c'è stato critico che, rilevata quella che a quel punto gli è parsa un'incongruenza, non abbia detto che si tratta di un esemplare indizio (e già sul principio del romanzo) di accuratezza compositiva solo approssimativa: prova di un'opera cui fece difetto l'estrema cura del suo autore, che fu peraltro, narrativamente, un cretino di talento, per nulla un professionista della "scrittura creativa" (che oggi addirittura s'insegna in scuole e università) ma solo un autore della domenica.
L'aporia sul numero dei figli di Fabrizio (i lettori attenti del romanzo lo ricorderanno) si risolve nelle ultime pagine, dove si menziona d'improvviso l'esistenza di una quarta figlia: sposata a Napoli, si apprende. Del resto, mai prima era stato esplicitamente detto, nel corso della narrazione, che le figlie del Principe fossero solo tre. Anche tale scioglimento viene però considerato dai critici indizio a carico dell'autore: è un rattoppo, vien detto, e così non si fa nelle opere portate a termine a regola d'arte. Ma un rattoppo di cosa (verrebbe fatto di chiedere), se i "sette figli" erano una svista? Se c'è un rattoppo, c'è consapevolezza. E se c'è consapevolezza, il dettaglio non sarà privo di valore.
A nessuno è peraltro mai venuto in mente di mettere in relazione il piccolo ed innocente enigma con il sentimento giocoso e beffardo che Lampedusa pare avesse della composizione letteraria. Se si tratta di un gioco, il gioco dell'autore ha colpito il segno: la seriosità boriosa e pedantesca dei critici l'ha trasformato in beffa ai loro danni.
Meglio di ogni altro commento, parla il commento che il testo fornisce a se medesimo. Con significativa scelta onomastica, la settima figlia si chiama Chiara e la menzione di quel nome, che chiarisce un dettaglio di rilievo narrativo in apparenza scarsissimo, ricorre appunto sul finire del romanzo. In quella Parte ottava che esplicitamente confonde in modo irreparabile ciò che fino a quel momento era stato rappresentato come chiaro nella mente del solo personaggio principale rimasto vivo e sulla scena, Concetta. E nel contempo chiarisce implicitamente al lettore, che vuole intenderle, non poche cose e di primissimo piano. Per esempio, cosa celava l'idillio tra Angelica e Tancredi cui s'era consacrato, proprio al centro dell'opera, l'incanto di una descrizione. Incanto chiarito, appunto, come il nome Chiara scioglie il mistero (in apparenza futile) dell'esatta determinazione numerica della prole di Fabrizio: piccola trappola per il lettore supponente, piccolo indizio per il lettore circospetto. E spaventato quanto divertito da una macchina narrativa labirintica (come il palazzo di Donnafugata) e che non lascia scampo (come la vita): una delle più perfette e sardonicamente giocose mai disposte dalla letteratura in lingua italiana.
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