26 agosto 2014

Sommessi commenti sul Moderno (12): Ideologie




Inventare, per via d'ideologia, false eguaglianze tra gli esseri umani fu tragica parodia dei valori universali quanto lo è oggi di quelli individuali giustificare, sempre per via d'ideologia, diseguaglianze vere.

Caratteri (18)




Condannò la sua vita alla più piatta falsità, incapace di reggere, sotto pretesa di verità, lo stato di grazia dell'intrecciarsi, strambo e ineludibile, del falso e del vero.

"Si sceccu"...

dice un ragazzo a un suo coetaneo, con altri in capannello. Apollonio si trova a passare per caso da lì e l'espressione giunge al suo orecchio. Non la sentiva da anni e - complice un'età ormai pericolosa per i sentimenti (ma non solo) - s'intenerisce. 
Era il più comune insulto nella comunità linguistica della sua infanzia. E l'asino, del resto, era nella medesima comunità tra gli animali più comuni. 
Vi circolavano più asini che cani, infatti. E nel dilagare progressivo e ormai incontrollabile del cane, tra le bestie di cui si circondano gli umani, e nella prima lenta e adesso verticale scomparsa dell'asino, c'è forse più d'un dato socio-economico, peraltro banale e trasparente. Ci sono, riconoscibili a chi ha occhi per vedere, i tratti d'una antropologia e d'una deriva culturale, che ha tra i suoi caratteri un innalzamento del livello generale dell'arroganza e di una stupidità supponente.
"Si sceccu" era e resta insulto affettuoso: un'alterità, quella dello sceccu, al tempo stesso irriducibile e solidale, quando trasferita, per figura, a un umano. Una non-umanità umanissima, del resto, come è appunto la stupidità che Musil avrebbe definito "luminosa": quella di tutti, la condivisa, l'egualitaria, che meglio si manifesta in purezza, tuttavia, nei destinati dal tocco del dio.

21 agosto 2014

Vocabol'aria (12): "Col cappello in mano"

Posto com'è in posizione preminente, il cappello, nel caso specifico, maschile, era un dì un capo d'abbigliamento cui s'affidava un'immediata segnalazione di molte differenze umane, tra cui, certo, le sociali e, eventualmente, la loro ironica parodia. A differenza di quella della lingua, la sintassi del vestirsi muta tuttavia con una certa rapidità, almeno nei suoi aspetti superficiali, e basta l'ideale confronto dell'istantanea che segue con la panoramica d'una folla odierna comparabile per intendere come la fortuna di cui gode oggi il cappello è molto modesta se paragonata a quella di cui godeva in tale non troppo lontano passato.

Fuori di strette esigenze o di costrizioni, andare a capo scoperto è oggi la norma come lo era, fino a non molti decenni or sono, indossare un cappello, mettendo di conseguenza in atto tutte le procedure codificate che tale condizione portava con sé, prima fra tutte, nei casi opportuni, lo scappellarsi.
La scarsa fortuna del cappello in quanto oggetto del mondo non incide troppo tuttavia su quella delle espressioni che lo designano. Perdoneranno Apollonio i suoi amichevoli lettori se insiste sul futile tema, ma è il suo proprio e il ripetersi è tipico di chi, come lui, ha passato da un pezzo l'età sinodale.
I nomi delle cose, anche di cose materiali come un cappello, son cose molto diverse dalle cose che designano e l'universo in cui i nomi prosperano è fatto a modo suo né, in proposito, l'eventuale conoscenza del mondo delle cose ci dice tutto (e forse neppure molto; e il poco che ci dice, ce lo dice per giunta male). 
Quell'universo - che è poi la lingua - può parere bizzarro ma è l'umano per eccellenza, solo che, come esseri umani gettati e persi, da sempre, tra le cose, se ne è quasi ignari. E certo deve esser meglio così se, con la consapevolezza della lingua, è da tempo immemorabile che va come va né ci son segni di miglioramento. 
Niente va meglio, infatti, di ciò che, malgrado ci si sforzi, non migliora.
Capita così che, quando è raro si veda qualcuno scappellarsi, presentarsi  (o non presentarsi) da qualcuno col cappello in mano sia divenuta espressione corrente d'una lingua speciale, quella della politica e della relativa comunicazione, che - oggi molto più di ieri, almeno a detta degli specialisti - ha dalla sua l'immediatezza espressiva e la popolare trasparenza delle figure. 
Vale come accusa agli avversari politici, nell'uso positivo, perché, in faccia a un interlocutore, terrebbero un remissivo atteggiamento di sottomissione. Vale più spesso come autoelogio, nell'uso negativo, per l'esibito rifiuto, rispetto a quell'interlocutore, di una condizione di subalternità.
Poi, però, succede che chi così si elogia dica, a implicita conferma di un rapporto ineluttabilmente diseguale, che è l'aver fatto i compiti a casa ad autorizzarne l'attitudine di fierezza. La svela così come soltanto immaginaria (se non presunta) e, magari senza volerlo, lascia intendere che se, in faccia a quell'interlocutore, è appunto andato senza il cappello in mano è solo perché un dignitoso cappello, uno qualsivoglia, anche da monello o da comico omino fuori delle regole, non lo possiede. 

12 agosto 2014

Trucioli di critica linguistica (13): "...come un tradimento"

Tra gli internati del campo di Fossoli, "il mattino del 21 [febbraio 1944] si seppe che l'indomani gli ebrei sarebbero partiti. Tutti: nessuna eccezione". In Se questo è un uomo, è implacabilmente cadenzato da passati remoti il racconto delle ultime ore che precedettero quella partenza. Lo è del resto anche il successivo racconto del viaggio che destinò al Lager Primo Levi, in compagnia di altri seicentocinquanta "pezzi".
Nel resoconto di quel 21 febbraio e delle prime ore del giorno successivo, i piloni che reggono l'impianto del testo sono i passati remoti. Tra essi si distendono brevi arcate narrative di forme imperfettive e arcate morali, altrettanto brevi, di un presente atemporale. Eccone un'esemplificazione di massima: "l'annuncio della deportazione trovò gli animi impreparati [...] Soltanto una minoranza di ingenui e di illusi si ostinò nella speranza [...] Nei riguardi dei condannati a morte, la tradizione prescrive un austero cerimoniale, atto a mettere in evidenza come ogni passione e ogni collera siano ormai spente [...] Si evita perciò al condannato ogni cura estranea [...] Ma a noi questo non fu concesso [...] Il commissario italiano dispose dunque che tutti i servizi continuassero a funzionare [...] Ma ai bambini quella sera non fu assegnato compito [...] E venne la notte, e fu una notte tale, che si conobbe che occhi umani non avrebbero dovuto assistervi e sopravvivere. Tutti sentirono questo: nessuno dei guardiani [...] ebbe animo di venire a vedere [...] Ognuno si congedò dalla vita nel modo che più gli si addiceva. Alcuni pregarono, altri bevvero oltre misura, altri si inebriarono di nefanda ultima passione. Ma le madri vegliarono a preparare con dolce cura il cibo per il viaggio, e lavarono i bambini, e fecero i bagagli [...] Nella baracca 6 abitava il vecchio Gattegno, con la moglie e i molti figli e i nipoti e i generi e le nuore operose [...] Noi sostammo numerosi davanti alla loro porta, e ci discese nell'anima, nuovo per noi, il dolore antico del popolo che non ha terra [...] L'alba ci colse come un tradimento; come se il nuovo sole si associasse agli uomini nella deliberazione di distruggerci". 
"Come un tradimento": alle tre parole si è accordata un'enfasi (che, naturalmente, è assente nel romanzo) perché esse si presentano superficialmente identiche in un lacerto manzoniano e la circostanza non è sfuggita a chi, pensando di penetrare così nel quid dell'espressione letteraria, va a caccia delle perline di supposti rapporti intertestuali e s'incanta, abbagliato, quando gli capita di trovarsene davanti una che luccica.
Dove ricorre "come un tradimento" nei Promessi sposi? L'innominato si prepara a ricevere nel suo castello Lucia, che ha fatto rapire dai suoi bravi. È già preda d'una qualche imprecisata agitazione, come prodromo narrativo di una vicenda che avrà dopo poco il suo provvidenziale scioglimento, come si sa. Infatti, "Da un'alta finestra del suo castellaccio guatava egli da qualche tempo verso uno sbocco della valle; ed ecco la carrozza apparire, e venire innanzi lentamente [...] - Vi sarà ella? - pensò tosto: e continuava a dire tra sé: - che noia mi dà costei! Liberiamcene.
E si disponeva a domandare uno scherano, e a spedirlo subito incontro alla carrozza, ad ordinare al Nibbio che desse di volta, e conducesse colei al palazzo di don Rodrigo. Ma un no imperioso che risonò di subito nella sua mente, fece svanire quel disegno. Vessato però dal bisogno di ordinar qualcosa, riuscendogli intollerabile l'aspettare oziosamente quella carrozza che veniva innanzi a passo a passo, come un tradimento, che so io?, come un castigo, fece chiamare una sua vecchia".
Manzoni in Levi, è stato detto allora da chi, specialista, s'è fatto un merito della scoperta. Sarà certamente così e Apollonio non s'azzarda a metterlo in dubbio. Come sanno i suoi fedeli lettori, più che ai valori assoluti delle forme (e delle forme delle parole, in particolare), egli presta però fede ai valori funzionali: ogni espressione - ritiene - li riceve, precisi, nel sistema in cui ricorre e che contribuisce a creare. E - Apollonio non può trattenersi dal dirlo - la coincidenza di Levi con Manzoni, a proposito di quel "come un tradimento", gli pare puramente formale: un superficiale accidente. Per l'espressione in questione, infatti, non si potrebbero immaginare due contesti più diversi, quanto a dipendenze sistematiche, che sono poi quelle che determinano il senso di ciò che si scrive (e si dice).
Anzitutto e dal punto di vista tematico, in Manzoni è il vessatore che, per figura, prospetta qualcosa, nel suo animo, come un tradimento: il lento avanzare della carrozza. Come un tradimento o, si premura di precisare il narratore, "come un castigo". Il tradimento è del resto nel contesto di un misfatto che egli ha compiuto e che si prepara a perfezionare. Tutto ciò, inoltre, in rapporto a un esperiente - l'innominato, appunto - di numero (e non soltanto di numero) singolare: un singolare intimo, risentito, personale. 
Nel testo di Levi, sono invece gli innocenti a sentirsi traditi dall'alba e il tradimento non è per figura. L'alba è infatti quel trascorrere dalla notte al giorno che è comunemente associato a un auspicio fausto e a una speranza. In ciò essa tradisce. E a tale sentire non spetta un esperiente singolare. Si sentono e sono traditi dall'alba del giorno della deportazione, tutti insieme, gli ebrei del campo, senza eccezione alcuna: agnelli che in gregge non vanno al castigo ma, senza spiegazione, verso il mattatoio.
Poi, ben più in profondo di qualsiasi fatto tematico, a fare differenze di sistema, tra i due testi, sono le cadenze e i ritmi delle loro composizioni. 
Il "tradimento" cui, nella prosa manzoniana, pensa l'innominato avanza lento e in una prospettiva imperfettiva. Passo dopo passo, come la carrozza che porta e nasconde Lucia. L'innominato lo osserva da lontano. E in modo vago e imprecisato esso si insinua - come un sentimento - nell'animo del personaggio, il cui travaglio si prepara. 
Tra gli internati di Fossoli destinati al viaggio e impreparati al loro destino, il sentimento del "tradimento" esplode invece in modo puntuale, come è puntuale il sorgere del sole nell'alba. E il "tradimento" dell'alba è chiaro come la luce. Determinatissimo. Marcato, come si è detto, dall'ineluttabilità del passato remoto: tra le forme verbali, la massimamente definita, dal punto di vista aspettuale.
Parole eguali per forma, in sistemi correlativi diversi, sono parole diverse. Diversamente, le narrazioni e la loro bella libertà (pronta a divenire imbroglio, come si sa) andrebbero a remengo. E così non è. Né nel caso di Manzoni né in quello di Levi, cui sarà forse capitato di avere nell'orecchio le tre parole di Manzoni (appunto, sarà!) ma senza che ciò voglia dire altro.

7 agosto 2014

Lingua loro (32): "mozzafiato"

La relativa voce del Grande dizionario della lingua italiana non ne contiene attestazioni. Siamo nel 1981 - anno d'uscita del volume che la contiene -  ed è un modo per dire che la parola esiste ma che, in linea di principio, nello sterminato corpus letterario sul quale la redazione ha lavorato essa non compare.
Il recente Grande dizionario italiano dell'uso, che non è un tesauro ma si lancia regolarmente nelle datazioni (per la gioia dei retrodatatori, curiosa ma simpatica specie di amatori del lessico), dice 1963.
Apollonio non ha voglia di far controlli. La data è del resto sospetta e loquace. La si trova spesso nei dizionari, quando si tratta di parole un dì nuove: nuove, insomma, quando Apollonio era un moccioso. 
Con un'indicazione del genere e senza l'indicazione d'una attestazione, c'è da scommettere che il genitore lessicografico di mozzafiato sia il solito Bruno Migliorini, nella sua appendice alla decima edizione, del 1963 appunto, del glorioso Dizionario moderno di Alfredo Panzini. 
Erano gli anni della prima crisi del Centrosinistra e dell'appannarsi del cosiddetto Boom (quando l'Italia giocava a far la Corea, del Sud, naturalmente, pur albergando nel suo cuore una Corea del Nord: il miracolo italiano, in altre parole).
Mozzafiato, ricorda Apollonio, che c'era, era "una pellicola". Fuor di ciò, praticamente niente altro. Lessico da Vice, l'ubiquo, precario critico cinematografico che percorreva, a sera, le sale secondarie dell'intera nazione (con che mezzi, non si sa) perché capace di pubblicare in contemporanea i suoi pezzi, e pezzi diversi per film diversi, si badi bene, tanto sull'"Eco di Bergamo" quanto sulla "Sicilia" di Catania.
Glielo avessero detto, al buon Vice, che mozzafiato sarebbe diventato ciò che frattanto è diventato, non ci avrebbe creduto. Lui, la mezzacalzetta, incidere sull'italiano più di un Alberto Moravia!
Non c'è serata festosa infatti che oggi non lo sia, mozzafiato. Ragazzi/e e panorami, lo stesso. Non si dica delle pietanze che arrivano sul tavolo di qualsivoglia pizzeria o dei viaggi in comitiva. In libreria, poi, dotata di scaffali o virtuale che essa sia, un libro su due lo è. E a chi si diletta a contare le parole che circolano per la rete e/o per il mondo (i linguisti che vanno di corpora, insomma), ci vorrà poco per attestare (una volta che si sia approntato l'opportuno tag) che, come aggettivo, mozzafiato sta in alto nelle graduatorie di frequenza: perlomeno all'altezza di rompiscatole e delle sue varianti (per restare nello stesso tipo di composto). E ciò qualcosa vorrà pur dire.

3 agosto 2014

Cronache dal demo di Colono (25): Il "Gattopardo"? In conto al Conte



"In questi tempi bui che stiamo attraversando gli eventi si moltiplicano a ritmo serrato, ogni giorno ne accadono decine che si accavallano l'un l'altro, si contraddicono, cambiano il panorama nel costume, nella politica, nell'economia, nella cultura. Oppure i mutamenti sono soltanto apparenze e tutto resta sostanzialmente immutato? Va di moda rievocare il Gattopardo di Luchino Visconti e forse è proprio quella la situazione in cui ci troviamo?"
Il fondo odierno del fondatore del giornale italiano più venduto regala ad Apollonio, per qualche momento fuori della sua Citera, questa gigioneria deliziosa ed eloquente.

Caratteri (17)




Mascherare le proprie avventatezze col pretesto d'un cattivo carattere è smascherarsi mancante d'un carattere qualsivoglia.