Posto com'è in posizione preminente, il cappello, nel caso specifico, maschile, era un dì un capo d'abbigliamento cui s'affidava un'immediata segnalazione di molte differenze umane, tra cui, certo, le sociali e, eventualmente, la loro ironica parodia. A differenza di quella della lingua, la sintassi del vestirsi muta tuttavia con una certa rapidità, almeno nei suoi aspetti superficiali, e basta l'ideale confronto dell'istantanea che segue con la panoramica d'una folla odierna comparabile per intendere come la fortuna di cui gode oggi il cappello è molto modesta se paragonata a quella di cui godeva in tale non troppo lontano passato.
Fuori di strette esigenze o di costrizioni, andare a capo scoperto è oggi la norma come lo era, fino a non molti decenni or sono, indossare un cappello, mettendo di conseguenza in atto tutte le procedure codificate che tale condizione portava con sé, prima fra tutte, nei casi opportuni, lo scappellarsi.
La scarsa fortuna del cappello in quanto oggetto del mondo non incide troppo tuttavia su quella delle espressioni che lo designano. Perdoneranno Apollonio i suoi amichevoli lettori se insiste sul futile tema, ma è il suo proprio e il ripetersi è tipico di chi, come lui, ha passato da un pezzo l'età sinodale.
I nomi delle cose, anche di cose materiali come un cappello, son cose molto diverse dalle cose che designano e l'universo in cui i nomi prosperano è fatto a modo suo né, in proposito, l'eventuale conoscenza del mondo delle cose ci dice tutto (e forse neppure molto; e il poco che ci dice, ce lo dice per giunta male).
Quell'universo - che è poi la lingua - può parere bizzarro ma è l'umano per eccellenza, solo che, come esseri umani gettati e persi, da sempre, tra le cose, se ne è quasi ignari. E certo deve esser meglio così se, con la consapevolezza della lingua, è da tempo immemorabile che va come va né ci son segni di miglioramento.
Niente va meglio, infatti, di ciò che, malgrado ci si sforzi, non migliora.
Capita così che, quando è raro si veda qualcuno scappellarsi, presentarsi (o non presentarsi) da qualcuno col cappello in mano sia divenuta espressione corrente d'una lingua speciale, quella della politica e della relativa comunicazione, che - oggi molto più di ieri, almeno a detta degli specialisti - ha dalla sua l'immediatezza espressiva e la popolare trasparenza delle figure.
Vale come accusa agli avversari politici, nell'uso positivo, perché, in faccia a un interlocutore, terrebbero un remissivo atteggiamento di sottomissione. Vale più spesso come autoelogio, nell'uso negativo, per l'esibito rifiuto, rispetto a quell'interlocutore, di una condizione di subalternità.
Poi, però, succede che chi così si elogia dica, a implicita conferma di un rapporto ineluttabilmente diseguale, che è l'aver fatto i compiti a casa ad autorizzarne l'attitudine di fierezza. La svela così come soltanto immaginaria (se non presunta) e, magari senza volerlo, lascia intendere che se, in faccia a quell'interlocutore, è appunto andato senza il cappello in mano è solo perché un dignitoso cappello, uno qualsivoglia, anche da monello o da comico omino fuori delle regole, non lo possiede.
Non so se "vada meglio" (per usare una Sua espressione) il cappello in testa o in mano, o addirittura la sua completa assenza, nel vestiario come nella fraseologia riconosciuta ed approvata, ma dalla connotazione negativa che l'espressione idiomatica relativa al cappello in mano, è andata sempre più acquisendo, mi pare di poter osservare che la sua obsolescenza come capo d'abbigliamento si sia accompagnata a una via via più diffusa mancanza del rispetto dell'altro, come se gentilezza e vigilanza riguardosa nei rapporti interpersonali fossero divenute segno di spregevole debolezza o, peggio, di incipiente e insinuante volontà di raggiro ai danni del prossimo. E' come se la "i" di "io", senza il suo puntino-copricapo, avesse perso di pari passo ogni senso della misura e così l' "io", trasfomrato in uno zoppicante articolo ("lo") in assidua ricerca di appoggio e giustificazione, fosse divenuto una banale merce di scambio tra soggetti essenzialmente abusivi, e perciò segretamente vergognosi di essere null'altro che oggetti: articoli, appunto. "Con una data di scadenza come lo yogurt", secondo la definizione attribuita di recente alla propria condizione da uno di quei politici senza cappello, né in mano né sulla testa, da Lei rammentati nel Suo post.
RispondiEliminaGrazie, come sempre, dell'ospitalità.
Sua Licia.
I contadini al cospetto dell'agrario, gli operai al cospetto del "padrone delle ferriere", i travèt al cospetto del capufficio: quanti cappelli in mano, pungente Lettrice, nei tempi che furono, abitati da figure, come le menzionate, di cui ancora fino a qualche decennio fa la letteratura (e con essa il cinema e la tv) tramandavano l'esistenza e le attitudini sottolineatrici di diseguaglianza. Oggi, diseguaglianza ce n'è almeno altrettanta (Apollonio inclina a credere, anzi, che ce ne sia di più) e nemmeno nascosta: esplicita, al contrario, come forse non è mai stata. Non codificata, tuttavia, e quindi sempre in sospetto di volgarità, nei comportamenti di chi sta sotto tanto quanto in quelli di chi sta sopra. Inevitabilmente, il cappello ne soffre e, a sentirlo evocare tanto spesso, ridotto da onesto copricapo a figura del discorso, non può che scappare da ridere.
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