In questa settimana, l'Italia dialettale è stata per un giorno à la une. Il lettore di Apollonio che in Italia ci vive lo sa: l'altro ne sia succintamente informato da questo post. Naturalmente, l'Italia dialettale non è arrivata in prima pagina per ragioni di merito (sarebbe difficile anche immaginarne l'occasione). È stata invece fatta pretesto del cosiddetto dibattito politico: "«Esame di dialetto ai professori» / La Lega fa scoppiare un altro caso".
Con la collaborazione degli organi di informazione, i protagonisti di tale dibattito sarebbero del resto capaci di mettere in scena un curtigghiu (è voce siciliana) con qualsiasi (vecchio) arnese concettuale, nazionale o internazionale. Gran merito, per una nazione che è diventata così poco professionalmente teatrale forse perché ha trasferito la sua diffusa teatralità dilettantesca dai cortili dei caseggiati alle arene deputate al pubblico confronto dei suoi ceti dirigenti e intellettuali.
Dalla prima pagina, qualsiasi tema sollevato dal curtigghiu scivola il giorno dopo nelle pagine dei commenti e degli approfondimenti, dove a impadronirsene sono i guitti delle seconde schiere, per poi estinguersi più o meno rapidamente, fino a nuova replica. È appunto accaduto così anche all'Italia dialettale e, per chi della questione ha una cognizione pur vaga, il vero divertimento non sta nella fiammata iniziale (dove pure se ne leggono delle belle) ma in queste conseguenti pagine distese, che prendono l'andamento del saggio e sono di norma imperdibilmente esilaranti.
In un suo paginone centrale, il più venduto quotidiano nazionale ha per esempio titolato perentorio: "Un Paese / 6000 lingue". Cifra peregrina? Per nulla: iperbole codificata. In altra occasione, tempo fa, l'espressione umana era stata fatta oggetto di cure giornalistiche, col pretesto allora della campagna di un'agenzia culturale internazionale per la salvaguardia degli idiomi in pericolo di estinzione e della correlata fantasiosa istituzione (se non ci si sbaglia, a Genova) di un museo. Il numero delle lingue al momento parlate al mondo era stato per l'evenienza fissato alla medesima cifra, se Apollonio non ricorda male.
Locale o globale, evidentemente poco importa: quando è questione di parlate, si deve essere tacitamente stabilito nelle redazioni che seimila corrisponde alla massa critica, in funzione della quale parte la reazione a catena dell'attenzione dei media.
Chi volete del resto si impressioni oggi per quel quattordici sul quale, settecento anni fa, si fermò Dante nel suo computo sistematico delle varietà della lingua del sì? Chi volete prenda in considerazione il suo monito a non impelagarsi, per volere dire di più e per sottilizzare, in calcoli tanto impossibili quanto millantati? Chi volete si curi della sua irrisione del municipalismo?
E poi, diciamolo, per quattordici varietà la questione politica non sarebbe nemmeno nata. Sono meno delle regioni, poco più d'un decimo delle province. Seimila "lingue", invece: vuoi mettere il numero di assessorati competenti? E quello delle correlate consulenze remunerate? E quanti bei posti comunali di ufficiale dialettale da creare, per concorso pubblico! Con la sezione "Annona", la Polizia locale ne conterà naturalmente una "Idioma", incaricata di assicurare il rispetto delle relative norme nell'area di competenza. Finalmente, insomma, il concetto di legge fonetica avrà un senso comprensibile a tutti: abusi idiomatici e violazioni di isoglossa saranno severamente repressi.
Da quattordici a seimila: nella consapevolezza di se medesima, è (a volere essere ottimisti) l'impietoso rapporto della tremenda inflazione d'intelligenza che l'Italia (linguistica) sconta dall'Alighieri al curtigghiu dei giorni nostri.
[su numero e qualità degli idiomi, v. anche il post Lingua loro (6), del 26 ottobre 2007]