14 luglio 2011

Lingua loro (21): Ancora ossimoro

Facile prevederlo. Passato un mese dal Mercati e ossimori sull'organo della Confindustria, ieri ossimoro era di nuovo sulla prima pagina di un autorevole quotidiano: La fiera dell'ossimoro in quattro paradossi suona il titolo di un articolo di cui Apollonio crede di poter condividere lo spirito. Meno, la lettera.
Come si è già osservato appunto un mese fa, per dire che qualcosa è criticabile per via di interne contraddizioni e per dire, di conseguenza, che quel qualcosa non piace, ossimoro piace. A dire ossimoro, a scriverlo, con un'attitudine di sufficienza intellettuale, di malcelata degnazione, se non proprio di disgusto (come è forse il caso di questa sua nuova evenienza), si passa per molto intelligenti e per molto chic.
Consapevole che, a quelle qui provviste dalla sua povera fantasia, la realtà ne aggiungerà, per il divertimento dei suoi cinque lettori, di ben migliori e che presto si arriverà a "botte piena e moglie ubriaca è l'ossimoro per eccellenza", ad uso dei volenterosi, Apollonio suggerisce allora tre ulteriori possibili applicazioni di ossimoro nella comunicazione, per la descrizione di aspetti della vita civile di tutti i giorni.
1) Lodare dalle colonne di un giornale la pace, la tranquillità, la solitudine di un'isola.
2) Schierarsi con tutto il peso della propria autorevolezza per il sì al blocco del nucleare, assicurando ai propri collaboratori gli accettabili venti gradi sul luogo di lavoro ("Vuoi mettere? Poverini, con quest'afa!").
3) Dar voce alle proteste contro le degradanti condizioni di vita dei Centri di accoglienza che montano, vibrate, da ceti composti da un cospicuo numero (milioni?) di possessori di case al mare (o in montagna), vuote per undici mesi l'anno.
Da quando si è cominciato a dare notizia di noi, gli esseri umani, come ognuno sa, si è contraddittori. Forse perché contraddittoria è la nostra natura culturale. O cultura naturale?
D'altra parte, per sfiorare i temi dell'articolo che fa da pretesto a questo post, ci si destina a vivere solo in virtù dell'inconsapevole certezza d'essere destinati alla morte. Così che, privato delle benevole illusioni, anche il gesto nobilissimo e spontaneo di nutrire un bimbo, una delle cose più dolci e consolanti che ci siano, sarebbe una sorta, anzi la prima forma di accanimento terapeutico, a prestar fede già al saggio Teognide.
La modernità ha però vivamente accentuato la contraddizione umana. L'ha resa parossistica e la sottolinea pubblicamente in ogni istante. Implacabile, con l'invenzione di un lezioso eufemismo che serve solo, oggi, a far fare bella figura a chi lo usa, la lingua ne rende testimonianza. In queste condizioni e per la contingente stupidità coltivata, la miserevole fortuna di ossimoro e il suo provvido degrado sono dunque per qualche anno assicurati.

12 luglio 2011

Baleno

“Considérée à n'importe quel point de vue, la langue ne consiste pas en un ensemble de valeurs positives et absolues mais dans un ensemble de valeurs négatives ou de valeurs relatives n'ayant d'existence que par le fait de leur opposition”.
Tra gli appunti di Ferdinand de Saussure ritrovati or sono tre lustri, il passaggio non rivela idee che non si sapeva gli appartenessero.
Vi si trova però la sua concezione dell'espressione umana esposta fuori delle molte mediazioni attraverso le quali è stato divulgato il suo pensiero (o quello attribuitogli).
Si vede così uscire proprio dalla sua penna, dal tratto nervoso e aforistico, la semplicissima idea che la lingua, "considérée à n'importe quel point de vue", s'istituisce come negatività relazionale e oppositiva. E, vale la pena di aggiungere, per questo suo carattere essa è elementarmente esemplare dell'insieme di tutto ciò che è umano, di cui nulla è comprensibile se si scambiano per sostanze le apparenze proiettate dalle relazioni oppositive.
Sono parole che fanno subito chiarezza come, intorno a sé, la fa per un attimo un baleno, spentosi il quale la consueta oscurità, densa e impenetrabile, riafferma il suo naturale e incontestabile diritto a regnare immutabile.

10 luglio 2011

"Queste povere cose care" e l'ontologia

"C'è una peculiare sicurezza degli oggetti: loro non ci lasceranno mai, saremo noi a lasciarli; loro sono morti, ma, paradossalmente, ci sopravviveranno, parleranno di noi a chi li avrà ereditati. Per questo il collezionismo è una partita ingaggiata con la morte": sentenza di un moderno filosofo, che, casualmente, Apollonio trova citata con enfasi e qui riporta (se ne scusa) ma solo di seconda mano.
Morti? Mai stati vivi, pensa. Dureranno, se del caso, più di chi vivendo li ha resi vivi, gli "oggetti". Perdendosi quella relazione, non le sopravviveranno certamente. E ammesso che durino, diventeranno "oggetti" diversi, per via di una nuova relazione. Perché sarebbe necessaria altrimenti la filologia? E perché ci si sarebbe inventati la filosofia?
Gli viene in mente, a questo punto, che qualcosa, in proposito, deve avere già letto. E non ieri. Qualcosa di più alla buona, certo, ma di non meno significativo.
Sì. Arrendendosi dopo anni di resistenza al demone della scrittura, e sul limitare della fine della sua vita, sul rapporto tra vita e morte umane e vita e morte delle cose, un uomo ha in effetti scritto quanto segue: "Poté volgere la testa a sinistra: a fianco di Monte Pellegrino si vedeva la spaccatura nella cerchia dei monti, e più lontano i due colli ai piedi dei quali era la sua casa; irraggiungibile com'era questa gli sembrava lontanissima; ripensò al proprio osservatorio, ai cannocchiali destinati ormai a decenni di polvere; al povero Padre Pirrone che era polvere anche lui; ai quadri dei feudi, alle bertucce del parato, al grande letto di rame nel quale era morta la sua Stelluccia; a tutte queste cose che adesso gli sembravano umili anche se preziose, a questi intrecci di metallo, a queste trame di fili, a queste tele ricoperte di terre e di succhi d'erbe che erano tenute in vita da lui, che fra poco sarebbero piombate, incolpevoli, in un limbo fatto di abbandono e di oblio; il cuore gli si strinse, dimenticò la propria agonia pensando all'imminente fine di queste povere cose care".
"...tenute in vita da lui...". Nella testa di Apollonio si accende allora il dibattito: da una parte, parla suadente il filosofo, cultore di ontologie e bramoso di trovare negli enti confortanti rassicurazioni sul permanere della sua testimonianza; dall'altra, quell'uomo fattosi scrittore, convinto, pare, che muoia proprio tutto, che tutto abbia veramente fine. E per dirimere almeno sul momento la questione, fuori delle astrattezze, per Apollonio, non può che intervenire la sua banale, personale esperienza di vita: gli succede sempre così.
Da qualche anno, egli assiste infatti impotente alla lenta morte di "povere cose", di "oggetti", come pare appunto li chiami il filosofo. Con una certa scostante freddezza, a dire il vero, e come se i soli commerci avuti con essi fossero stati per lui quelli che lo vedono "soggetto" (trascendentale?).
Altro che sopravvivere, gli "oggetti", agli esseri umani. Apollonio ha già visto morire per esempio degli aghi da lana. Con essi, cinquanta anni fa capitava gli fossero confezionati, proprio per lui e pezzi unici, caldi maglioni e cuffie da notte. Ha già visto morire, col tombolo, gli uncinetti. Vede morire camicie da notte ordinarie e belle sottane, lenzuola ricamate, fini tovaglie da tavola, bei serviti da caffè. Mentre scrive, muore pezzo dopo pezzo la modesta mobilia di una casa zingaresca che ha finto per decenni di non esserlo. Di una casa che è stata, in realtà, diciannove case diverse. Una casa che ha percorso in lungo e in largo la Sicilia, lasciando dietro di sé tante povere cose, vittime incolpevoli della mancanza di spazio sul camion che, periodicamente, veniva a portare via tutto. Meglio, tutto ciò che poteva. Mai dimenticherà la dolorosissima morte, per fuoco, di annate e annate del "Corriere dei Piccoli" che (e lo sapeva mentre ne faceva collezione) giammai avrebbe potuto portare con sé.
Oggi, però, le povere cose che ha elencato e molte altre muoiono in begli occhi cerulei ogni giorno più spenti. Muoiono in una memoria che pian piano se ne va e in cui, irragionevoli (o ragionevolissime?), resistono intatte "Davanti San Guido", "Sant'Ambrogio", "Il sabato del villaggio", ben recitate, come da una bimba davanti ai parenti per un'antica festa di Natale.
Apollonio vede insomma morire povere cose nel doloroso e disperato abbandono di sé di una estrema vecchiezza che è vita già oltre la vita. Di più, della sua esperienza, Apollonio non può dire: i suoi pochi lettori lo perdoneranno.
Il pensiero del filosofo e il suo gioco di prestigio (una morte che non è morte perché non è mai vita e, di conseguenza, una sopravvivenza fasulla) gli paiono brillanti e riscuotono la sua ammirazione sincera: sono certamente tali da assicurare a chi le espone gustosi successi mondani, tra dame ed accademici.
La vita semplicissima di una donna qualsiasi ricorda però ad Apollonio che una relazione presta esistenza agli "oggetti" presentati invece dal filosofo come fossero superbi d'autonoma essenza. Gli dice al contempo che la stessa relazione, nella direzione conversa, ha sostanziato quella vita modesta. Gli "oggetti" di cui parla, vorrebbe dire al filosofo, siano umani o ultra-umani, non sono appunto mai disumani. Infine e sempre, essi sono quindi solo "povere cose".
Povere cose che, nel caso che Apollonio esperisce, una ad una, sono già uscite, stanno uscendo dalla loro vita. Si sta infatti spegnendo la relazione che ha prestato cara esistenza a essi e a quel caro essere umano.
Tra il filosofo degli "oggetti" e l'uomo delle "povere cose", conclude Apollonio tra sé, il secondo merita allora d'essere ascoltato con maggiore attenzione del primo. Perché il secondo si approssima, con minore difetto e senza vanitosa intelligenza, alla misteriosa verità che mette in relazione la povera vita umana e la vita delle sue povere cose.

A margine del tema, esattamente due anni fa, ad Apollonio era già accaduto di scrivere qualcosa. Evidentemente, il caldo estivo gli rende il peso delle ontologie meno tollerabile. È del resto noto che le ontologie si combinano meglio coi climi (culturali) rigidi.

7 luglio 2011

"...quante mai furon fiacole e lumiere"

"Fra mille colpi il Tartaro una volta / colse a duo mani in fronte il re d'Algiere; / che gli fece veder girare in volta / quante mai furon fiacole e lumiere". Il Furioso conta più di mille e duecento costruzioni causative e con verbi di percezione. L'estate scorsa, Apollonio si è deliziato raccogliendo tutte quelle che gli è riuscito di individuare. Il numero è rimarchevole, tanto come valore assoluto quanto come valore relativo. E ad Apollonio, che si è chiesto come mai, o forse e più facilmente al suo sparuto alter ego secolare, capiterà forse una volta o l'altra di scrivere qualcosa in proposito.
Di tutte le ricorrenze pertinenti, però, quella qui citata in apertura è certo una delle più notevoli. Dal punto di vista sintattico e costruttivo, la proposizione che ne sortisce si articola infatti su tre diversi strati predicativi, rappresentati dalla sequenza compatta di tre verbi differenti: "fece veder girare".
"Fiacole e lumiere" girano. È Rodomonte che le vede girare. E a fargliele vedere girare è Mandricardo. In un reboante e comico duello (che ha ovviamente in una donna, la bella e volubile Doralice, la sua ragione) "il Tartaro" è infatti riuscito ad assestare al "re d'Algiere" un gran colpo sulla fronte.
Osservando il fenomeno compositivo, limpido e al tempo stesso complesso (minuscola sineddoche linguistica del poema ariostesco), la fredda attenzione dell'analista non può fare a meno di sciogliersi però in un sorriso personale e intenerito.
In quei versi, in quelli che li circondano, percepisce (lo scuseranno i filologi) la scena archetipica cui, magari senza saperlo, si sono ispirati i disegnatori dei mille cartoon che ne hanno (diversamente?) deliziato l'infanzia secondonovecentesca.

6 luglio 2011

Il "gattopardo" che non c'è

"Nelle parole del principe, gattopardo appare in accezione positiva e non in quella che poi si è prontamente fissata nel vocabolario comune: 'chi si adatta a novità politiche e sociali per mantenere i propri anteriori privilegi'. Non era questo il senso cui pensavano l'autore e il protagonista del romanzo".
Si legge così in un articolo dal titolo Gattopardo non gattopardesco, a firma di una personalità della cultura italiana che non potrebbe essere più nota e autorevole, nel panorama degli studi filologici e linguistici. L'articolo è comparso in un importante supplemento culturale lo scorso 26 giugno, con uno scopo soprattutto servile: presentare l'ormai consueta iniziativa di abbinamento settimanale di un libro con un quotidiano. Una circostanza proprio occasionale e cui certo nessuno chiede severità di accostamento o novità ermeneutiche. Correttezza di informazione sì, però. Tanto più che il tema è delicato e, malgrado lo strepitoso successo o forse anche per esso, è ancora scabroso evidentemente per la cultura italiana il libro con cui si inaugura l'iniziativa: Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa.
Della scabrosità dà già testimonianza il titolo dell'articolo, ragionevolmente redazionale, che, si direbbe, "mette le mani avanti". Intorno al libro e su di esso sono cresciuti infatti, sin dal suo apparire, molti luoghi comuni e, anche nel ristretto dibattito critico tra specialisti, molte idee prevenute hanno da cinque decenni imperversato. Ne dà testimonianza ancora maggiore una sintesi dell'articolo che, nella versione a stampa, compare al centro della seconda colonna, in grassetto: "Nelle intenzioni di Tomasi la parola che dava il titolo al romanzo aveva un'accezione positiva. Solo più avanti divenne sinonimo di trasformismo". Dell'articolo, tale sintesi riprende appunto le parole che si sono menzionate in apertura. Dice che sono le topiche e come tali qui le si tratterà.
Nella loro aspirazione a parere equilibrate o riequilibratrici, esse si pretendono rispettose del testo e, al tempo stesso, in evidente sintesi dialettica, del luogo comune: "Non fu dunque senza buone ragioni la scelta collettiva…": collettiva? Non sarà per caso il solito fantasma dell'egemonia? Sotto il segno della correttezza politica che (anche a scapito della ricerca della verità) pare debba oggi ispirare ogni parola che si pronuncia, esse sembrano infine contenersi in un'affermazione anodina e, quanto al contenuto, presentata come indiscutibile.
Invece non è così. Lo rivela un dettaglio tanto minuscolo quanto significativo. Come un sintomo che ovviamente sfugge al controllo di chi lo manifesta, come la febbre, esso dice d'una continuità. Dice che l'effetto irritativo del Gattopardo sugli intellettuali italiani persiste ancora dopo più di cinquanta anni e che esso è ragionevolmente ineliminabile, per via di una profondissima incompatibilità. Dice ancora che passano pure gli anni, ma, anche rispetto al Gattopardo e alla sua interpretazione, nell'Italia moderna (che è nata sotto tale segno) è sempre pronta l'epifania di un "se vogliamo che tutto rimanga com'è, bisogna che tutto cambi". Sono le parole di cui l'opera in questione è divenuta fortunatissima vittima. E sono quelle immancabilmente ricordate nella testatina della pagina in cui l'articolo compare. Rassicurante ammiccamento al lettore cui la pubblicazione si rivolge, ritenuto, per principio, già ideologicamente orientato quanto al Gattopardo? O, ancora più sottilmente, lapsus rivelatore di ciò che veramente vale la pagina?
Per la determinazione del dettaglio che qui si vuole discutere, si torni allora alla citazione di apertura: "Nelle parole del principe, gattopardo appare in accezione positiva e non in quella che poi si è prontamente fissata nel vocabolario comune... Non era questo il senso cui pensavano l'autore e il protagonista del romanzo". Queste espressioni, lo si è detto, riassumono e rappresentano l'intero articolo. Ciò che lasciano intendere del Gattopardo è tuttavia inesatto.
Nel romanzo di Lampedusa non si dà mai un valore positivo a gattopardo. Non gli se ne dà, a dire il vero, neppure uno negativo. E ciò per una ragione semplicissima. Nel Gattopardo, la parola gattopardo non c'è. Agli increduli, basterà l'invito a un obiettivo e personale controllo.
Nel Gattopardo, dove gattopardo non ricorre mai, ricorrono invece Gattopardo, una ventina di volte, inclusa la ricorrenza del titolo, e un paio di volte il suo plurale, Gattopardi. Sempre con iniziale maiuscola: qualcosa ciò vorrà pur dire.
Se qualcuno legge allora tale Gattopardo come se esso fosse gattopardo saranno pure fatti suoi, sarà ovviamente libero di farlo, ma sarà lecito osservare che la sua lettura lascia almeno un po' a desiderare. Non è proprio una procedura commendevole, in nessun ambito delle attività umane, l'introduzione in un documento, per qualsiasi ragione o scopo, di qualcosa che il documento non contiene e che finisce per nascondere ciò che esso contiene.
Che cosa valga Gattopardo nel romanzo Il Gattopardo è poi questione spinosissima. Antonomasia? Allegoria? Talvolta l'una, talvolta l'altra, ragionevolmente, e sempre intinte nella vena amara di una sardonica ironia: la vera vena che dilaga nel cuore profondo del Gattopardo. Certo, non una banale metafora.
Comunque sia, son quasi quaranta anni che Apollonio, da quel tonto che egli è, torna sui passi del romanzo e sulla sua struttura complessiva e, a proposito di Gattopardo, non smette di farsi domande. Non vuole certo tediare i pochi lettori del blog, però, con le sue speculazioni. Se vogliono, possono provare a scoprire da se medesimi i valori di Gattopardo, dimenticando i luoghi comuni e mettendosi a leggere il romanzo con accanimento e attenzione.
Qui, per farla breve e per comodità, ci si può pure accordare, se vogliono, sopra un'interpretazione minimalista. Si può dire cioè che Gattopardo vale semplicemente da designazione figurata del maggiore personaggio romanzesco: Fabrizio Corbera principe di Salina. Apollonio tiene a precisarlo: non è così, nel romanzo. O almeno non è compiutamente così. Ma qui, appunto, non importa di queste sottigliezze. Anche se le cose stessero semplicemente come si sta prospettando, anche se Gattopardo valesse per figura Fabrizio Salina, leggere Gattopardo come gattopardo resterebbe molto discutibile. Perché? Un esempio comparativo lo chiarirà.
Da un secolo e mezzo, in un italiano di livello, con perpetua, nome comune, ci si riferisce a quella donna di servizio, di norma un'attempata zitella, cui un sacerdote affida (ormai, forse, bisognerebbe dire "affidava") la cura della sua vita pratica e privata, per meglio dedicarsi all'amministrazione della pubblica e spirituale. Si tratta di un caso di antonomasia, uno dei più noti nell'italiano moderno. Se perpetua come nome è passato a significare ciò che significa, la ragione sta nel fatto che Alessandro Manzoni battezzò col nome proprio di Perpetua il personaggio minore del suo romanzo che si prendeva cura di Don Abbondio e della sua canonica: "serva affezionata e fedele, che sapeva ubbidire e comandare, secondo l’occasione". La ragione dell'antonomasia sta in questo fatto testuale, inoppugnabilmente. Ciò non significa però minimamente che Alessandro Manzoni e il suo romanzo portino la responsabilità della nascita del perpetua nome comune antonomastico. Non significa neppure che il nome comune antonomastico conti qualcosa, tanto negativamente quanto positivamente, per chi volesse eventualmente intendere cosa ci stia a fare nel romanzo il nome proprio Perpetua, portato dal personaggio.
È del resto ovvio che, nei Promessi sposi, perpetua come nome comune non ricorre mai (vi ricorre invece come normale aggettivo). È ovvio che, per parlare appunto dell'attempata zitella con cui Don Abbondio condivideva le sue ambasce quotidiane, Manzoni non si serva mai di espressioni come era una perpetua o la perpetua di Don Abbondio. Nei processi linguistici come in ogni dove, l'effetto non può precedere la causa e lo scrittore milanese, con la sua invenzione onomastica, ha dato l'innesco al processo antonomastico ma questo si è sviluppato fuori della sua opera, che non ne è minimamente toccata. Manzoni, lo si diceva, non è certo stato il primo utente dell'antonomasia germogliata dalla sua parola, tanto meno ne è stato il propagatore o l'avversario. Perpetua, nel romanzo di Manzoni, è sempre nome proprio e, come nome proprio, ricorre appunto sempre con l'iniziale maiuscola. Insomma, Perpetua nei Promessi sposi non vuol minimamente dire perpetua e, ammesso che Perpetua valga qualcosa di particolare nell'opera manzoniana, si sarà tutti d'accordo sul fatto che sarebbe delirante adoperare, anche solo per contrapporlo, il valore del nome comune perpetua per capire il Perpetua dei Promessi sposi. Nessuno, c'è del resto da scommettere, ha mai pensato o scritto che Manzoni abbia non si dice licenziato ma anche solo per un momento concepito una riga della sua opera in cui un perpetua antonomastico con iniziale minuscola potesse opportunamente ricorrere.
Come mai allora fior di critici e di filologi da cinquanta anni e ancora oggi pretendono non solo di leggere gattopardo dove c'è scritto Gattopardo ma anche e, ancora più velenosamente, di interpretare Gattopardo come se esso fosse gattopardo o avesse qualcosa da spartire con gattopardo? Come mai si ostinano a mescolare i discorsi sull'antonomasia di cui abusano intellettuali (e) politicanti col doveroso discorso sul dato testuale, anche solo per fare sembiante di provare a distinguerli, dopo averli loro medesimi ingarbugliati e resi irriconoscibili? L'antonomasia gattopardo è nata come processo secondario, fuori del testo, dopo l'uscita e il gran successo del romanzo di Lampedusa, peraltro morto prima della pubblicazione della sua opera. Essa è già il frutto di una lettura: giusta o sbagliata, non è il caso di chiederselo qui, ma di una lettura e di un'interpretazione in ogni caso opinabili.
Parlare di gattopardo (e di gattopardi) a proposito del romanzo di Lampedusa è dunque molto discutibile, perché, esattamente come non ci sono nei Promessi sposi né il significato né il significante del nome comune perpetua, il significato e il significante del nome comune gattopardo nel Gattopardo non ci sono. E non perché non ci se li voglia trovare ma perché semplicemente e definitivamente essi non possono esserci, né adoperati negativamente né adoperati positivamente. Ci sono invece quelli di Gattopardo e giacciono ancora lì misteriosi ed arcani, infischiandosene di luoghi comuni e di letture "intellettuali", prevenute e ideologiche.
Lo si è detto sul principio. Si sta qui discutendo di un'inezia, presente in uno scritto comparso per la più occasionale delle circostanze e nella meno formale delle sedi. Ma forse proprio per il carattere tanto casuale e peregrino, per una volta la questione di fondo del Gattopardo e della sua "fortuna" si stagliano con la più chiara nettezza. Lasciare intendere, sotto qualsiasi forma, che la parola gattopardo si trovi nel Gattopardo è ancora una volta e sempre un modo di occultare il vero. E di accreditare il falso. È insomma, come scriveva presago Lampedusa, "una nuova palata di terra venuta a cadere sul tumulo della verità".

5 luglio 2011

Ipocoristico! (Supplemento)

davvero ganzo, dice Ale

Recita così un grande manifesto con cui, in questi giorni, un operatore telefonico internazionale lancia, nella Svizzera italiana, un abbonamento destinato ai giovani sotto i 27 anni.

Da comparare, per es., con "M'era compagno il figlio giovinetto / d'un di que' capi un po' pericolosi, / di quel tal Sandro, autor di un romanzetto / ove si tratta di promessi sposi..."

3 luglio 2011

Ipocoristico!

Presto al mattino, la zia Nora, accompagnata dallo zio Enzo, quando lo zio Enzo non era per mare, andava a fare acquisti al mercato. Si fermava dal signor Menico, che teneva un banchetto di frutta e verdura, e, non tutti i giorni, da Berto, il macellaio. Non perché fosse bigotta, ma per misura tanto pia quanto dietetica (diceva), non passava venerdì che non facesse visita al giovane Tano. Scaricato il frutto di una nottata di lavoro dalla sua barca, questi lo metteva in bella mostra, sulla banchina del porto, in un paio di cassette. Ai suoi ragazzi, Tonio e Cettina, il venerdì di magro non sempre era gradito ma, ancora prima di farsi adulti, la sua domestica ritualità era divenuta amabile. Esperienza del resto comune anche ai loro coetanei e compagni di giochi, Vanni e Tilde, figli dei vicini di casa Renzo e Rina, e ai loro cugini Sandro e Betta, che venivano spesso a trovarli. La questione non riguardava né Cesco né Lando né Baldo, ragazzacci di strada e occasionali membri della brigata. Non perché i loro genitori Saro e Nilla inclinassero verso un'educazione laica ma perché alla dieta di magro, loro, si tenevano tutti i giorni della settimana...
Cinquanta anni dopo, nella stessa città, come ogni venerdì sera, Gabri ed Ele stanno preparandosi ad uscire. Il loro primogenito, Ale, e Fede, la minore, hanno già finito di cenare. A metterli a letto penserà Giuli, la baby-sitter, che ha appena suonato alla porta. La moto di Vale, il ragazzo che l'ha accompagnata e verrà a riprenderla al loro ritorno, si allontana rombando. Squilla il telefono. È Franci. Dice che col marito Ferdi li aspetta per le ventuno davanti alla pizzeria. Alla compagnia è previsto si aggiungano, ma solo dopo la pizza, anche Marghi e Robi. La loro bimba, Sabri, ha fatto le bizze e hanno durato fatica a convincerla a trasferirsi per la notte dai nonni, i molto giovanili Sigi e Stefi. Tutti insieme andranno a concludere la tranquilla serata, facendo due chiacchiere e bevendo un drink, sulla terrazza dell'attico di Simo e Samu...

Sui vezzeggiativi italiani di nomi propri che contano più di due sillabe si è abbattuto, da un paio di decenni, un cataclisma. I loro connotati ne sono usciti profondamente mutati, non a casaccio però e in modo regolare e sistematico. Come Apollonio, i suoi cinque lettori sono certo stati e sono giornalmente testimoni della tendenziale variazione.
Nei capoversi che aprono questo post si è provato a ricordare, in modo si spera naturale, alcuni termini fenomenici della questione, se non a renderli più evidenti di come non siano stati, nella memoria di chi ha ormai una certa età, e non siano oggi nella vita di tutti i giorni.
Il vecchio sistema, d'impronta ragionevolmente indigena, vigeva da secoli e aveva diversi modi di realizzarsi. Nell'unico sul quale si è qui fermata l'attenzione, il fuoco stava sulla sillaba accentata del nome di base o, eventualmente, solo sul suo nucleo vocalico. Il vezzeggiativo (o, come dicono i linguisti, l'ipocoristico) si produceva andando da lì in avanti, verso la fine del nome proprio: (Eleo)Nora, (Vinc)Enzo, (Do)Menico, (An)Tonio, (Gae)Tano, (Con)Cettina, (Ales)Sandro, (Elisa)Betta, (Gio)Vanni, (Ma)Tilde, (Lo)Renzo, (Cate)Rina, (Fran)Cesco, (Or)Lando, (Ro)Berto, (Teo)Baldo, (Rin)Aldo, (Ro)Sar(i)o, (Petro)Nilla.
Ai vecchi modi di produzione degli ipocoristici, da qualche tempo se n'è aggiunto uno nuovo. Questo prende la prima sillaba del nome di partenza e, ove necessario, vi ritrae l'accento. L'enfasi si colloca di conseguenza sul principio del nome. Alla prima sillaba, divenuta regolarmente tonica, fa seguire la seconda (o un suo vestigio), il cui nucleo vocalico può chiudersi e divenire, tendenzialmente, una [i]. Tutti gli esempi che qui si citano hanno risuonato nelle orecchie di Apollonio, insieme con molti altri: Gabri(ele), Ele(onora), Ale(ssio o -ssandro), Fede(rica), Edo(ardo), Margh-i (-erita), Rob-i (-erto), Vale(ntino o -rio), Franc-i (-esca), Ferdi(nando), Sabri(na), Sigi(smondo), Stef-i (-ania), Simo(na), Samu(ele), Tizi(ana), Giuli(ana).
Come innesco del cataclisma, è anche possibile abbia agito un soggiacente e prestigioso modello germanico. La ritrazione dell'accento (che è fenomeno inusuale nel dominio neolatino) ne sarebbe importante indizio. Potrebbe trattarsi tuttavia di processo secondario.
Certo, il successo del nuovo sistema e il deperire di alcuni modi dell'antico paiono al momento fuori discussione. E con il successo, non manca nella novità il tanfo di una più che sospetta ed ecumenica stupidità, che attraversa ceti e ideologie, livelli culturali e identità geografiche: un autentico fenomeno nazionale di cretineria montante e irriflessa.
Ma, nella lingua, ci vogliono più di un paio di decenni perché i giochi siano fatti e, il giorno che essi fossero fatti a favore del nuovo, nessuno sentirebbe più quel tanfo e, per i (fortunati?) testimoni, tutto profumerebbe ancora una volta come i nomi, le parole, le cose del buon tempo andato. Sì, amabile sodale, anche l'odioso "Cami, smetti di disturbare i signori" che a un'insopportabile marmocchia che scorrazza maleducata tra i tavoli della pizzeria rivolge Maddi, la sua amorevole mamma, ancora più odiosa e insopportabile, mentre discute con l'amica Manu della Simo, accanto al marito Andre, che sgranocchiando patate fritte guarda sullo schermo di una gigantesca e silenziosa TV l'ultima impresa di Vale.

1 luglio 2011

Evergreen

C'è chi pensa che il movimento ecologista internazionale produca oggi solo pensieri opachi e che il sonno della ragione possa così generare il mostro di sussulti violenti e incontrollati. In altre parole: Colorless green ideas sleep furiously.