15 ottobre 2013

Linguistica candida (7): il farmaco Ascoli e il morbo del "novo"

I cinque lettori di Apollonio (che sono poi, forse, i suoi soli fedeli sodali) lo sanno: Graziadio Isaia Ascoli non gli è simpatico. O forse non gliene è simpatica la scuola. E magari no: gli è simpatico e gliene è simpatica persino la scuola. Insomma, con l'archegeta della linguistica moderna in Italia Apollonio ha un rapporto controverso. E ammesso il grande e terribile goriziano avesse voluto degnarlo di un invito a cena (si fa per dire: non sarebbe mai successo), egli non sarebbe andato d'animo lieve. 
Ascoltata dall'ultima fila la conferenza, di sua iniziativa, Apollonio non si sarebbe proposto nemmeno per un personale saluto. Avrebbe velocemente svicolato, scansando il codazzo, immerso nei suoi pensieri. Perché la parola di Ascoli (c'è bisogno di dirlo?), pensieri, ne suscita: forse più involontariamente che volontariamente. Un linguista che, avrebbe detto Ferdinand de Saussure, non sapeva ciò che faceva, facendo ottimamente, si badi bene, ciò che faceva.
Adesso, Ascoli, nato suddito di Francesco I di Asburgo-Lorena (se Apollonio non si sbaglia) e morto senatore del regno d'Italia, non ha più nessun codazzo. E certo che, invece, nessuno che pronuncia professionalmente la parola lingua (in italiano, ovviamente, ma anche a proposito dell'italiano) dovrebbe mancare d'essersi imposto almeno la lettura del "Proemio all'Archivio Glottologico Italiano". Questo ha giusto cento quaranta anni; non ha però perso un filo del suo smalto, dietro le effimere occasioni di allora e di oggi.
Da allora, nell'espressione italiana e nella vita sociale che se ne serve, il novo non è infatti mai più mancato: non il manzonismo, ovviamente, ma l'attitudine intellettuale e morale che gli sottostava e di cui, naturalmente, non tutta la colpa, anzi pochissima, va data a Manzoni, che era tutto fuorché un uomo pratico. Una vita intera per un romanzo e per un plotone di figli: tutte fantasie, insomma, diurne e notturne. Ma si può? C'è sempre qualcuno però che si picca di prendere sul serio i grand'uomini, come raramente si dovrebbe invece fare: anche quando prendono un'aria austera, scherzano. E poi corrono sempre dietro ai loro sogni. Restano eternamente bambini.  
Al novo, preso dunque qui come emblema, non è bastato essere diventato eventualmente nuovo perché gli argomenti di Ascoli non continuino a colpirlo. Si potrebbe anzi forse dire che dalla malattia del novo la cultura italiana non sia mai più guarita e che di conseguenza del farmaco Ascoli, amaro, si ha sempre bisogno. 
L'unità politica (venuta fuori come venne e come a Carlo Cattaneo non piacque per nulla, per esempio) pare abbia inoculato in quella cultura e nella vita sociale nazionale il novo come un agente patogeno. Quel vecchio e valoroso corpo, gracile quanto a costituzione (come Ascoli ben sapeva e scriveva), ha saputo difendersene solo in parte e senza mai veramente guarirne.
Tanto meno oggi, quando magari proprio non pare, rinfocolata com'è l'infezione da un'ondata ulteriore di vacui velleitarismi intellettuali, nei quali trova la sua vocazione la gran folla vociante di chi, correggendo, non la smette di indicare vie che non esistono.

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