9 aprile 2015

Nobiltà della filologia, miseria del filologo

Trascurando, come forse non si dovrebbe, la varietà antropologica e restando a ciò che un tempo era detta prospettiva eurocentrica (ormai diluitasi, se non ulteriormente degeneratasi, nella cosiddetta globale), va quantomeno osservato che solo con la filologia e solo da qualche secolo, storia ha preso il radicale valore di chiave d'interpretazione di una vicenda umana che ha, tra i suoi tratti caratterizzanti, un'incessante mutevolezza.
Altre ce ne furono, ce ne sono, ce ne saranno.
Eppure ci sono filologi (forse perché oggi sempre più sparuti campioni di una prospettiva sparente) che ne paiono inconsapevoli: né Apollonio, si badi bene, si chiama fuori del novero (naturalmente nelle fila dei meno valenti, per servirsi d'una eufemistica litote, e dei dubbiosi).
E, tra i filologi, ci sono linguisti che si dicono storici e che tutto sarebbero disposti a storicizzare, tranne se medesimi, i propri metodi e le proprie idee.
Credono, costoro, la loro specie, una volta apparsa sulla faccia della terra, destinata a restarvi per sempre. La credono fuori di quella storia che pure invocano come paradigma interpretativo di un incessante mutare. E fanno della loro disciplina una religione (e se non ci fosse altro modo di pensarla?).
La giudicano capace e si giudicano loro medesimi capaci di una parola valida come verità eterna. Non destinata quindi, con i principi e i metodi cui tale parola fa appello, a fare figura un giorno (forse non troppo lontano, forse già il presente) di comica fola.  

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