"In questo modo esposi a Dionisio tutto quello che allora gli dissi. Non gli spiegai tutto, né del resto Dionisio mi pregò di farlo, perché egli pretendeva di conoscere molte e le più alte dottrine e di averne una sufficiente padronanza per quello che aveva sentito dagli altri. Più tardi, così mi fu detto, egli stese anche uno scritto su ciò che aveva sentito da me, presentandolo però come un suo proprio trattato e non come frutto di quegli insegnamenti che aveva avuto da me; di questo però io non so niente. So invece che altri hanno scritto su questi argomenti, ma chi essi siano, neppur essi lo sanno...": nella traduzione di Antonio Carlini, è un passo della (intollerabile?) settima Lettera di Platone. Ma di Platone? Se ne è dubitato. Poi s'è smesso di dubitarne. Un giorno, magari, se ne dubiterà di nuovo.
Che importa, del resto? Vera è la cosa che dice. E racconta una storia che, fuori del tratto soggettivo (e intollerabile; o tollerabile solo perché il soggetto è forse Platone), è certamente già accaduta mille volte, perché accade ogni giorno e continuerà a farlo. C'è una parola e c'è un orecchio.
"Su ciò non esiste, né mai ci sarà, alcun mio trattato; perché questa disciplina non è assolutamente, come le altre, comunicabile, ma dopo molte discussioni su questi problemi e dopo una lunga convivenza, improvvisamente, come luce che si accende da una scintilla, essa nasce nell'anima e nutre ormai se stessa".
La viva parola nella convivenza: relazione nella differenza, inattingibile allo scritto. Ancora meno all'ufficiale, a quello che porta sulla copertina un titolo e un nome proprio, che è sovente la sola cosa propria che può vantare chi l'ha steso. E si gloria, in realtà, solo d'una trascrizione ad orecchio.
Ciò che dice la settima Lettera è autentico, insomma: come parola, è vera. Che, in quanto parola vera, sia del Platone autentico serve eventualmente a far sì che essa non paia, come è, una verità socialmente intollerabile: oggi, ancora più di ieri. Per il resto, è irrilevante.
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